«Integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza».
La sentenza trae origine dalla condanna inflitta, in primo grado, a un imputato per atti persecutori ai danni della moglie, a seguito di comportamenti vessatori protrattisi tra la convivenza e la separazione. La Corte d'Appello però, riqualificava i fatti come maltrattamenti in quanto «la separazione non fa venir meno la “qualifica familiare” della persona offesa». La Suprema Corte, adita con ricorso per cassazione dal difensore del condannato, ha confermato la tesi della Corte territoriale. In particolare, per il Collegio i giudici hanno fatto buon governo dell'indirizzo di legittimità secondo cui «le condotte vessatorie, sorte in ambito domestico e protrattesi dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, integrano il reato di maltrattamenti, e non quello di atti persecutori, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza, dal momento che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'articolo 143, comma 2, c.c.». Dunque, la separazione – sia di fatto che legale – non interrompe la relazione giuridica rilevante ai sensi dell'articolo 572 c.p.: il vincolo familiare permane e la tutela penale si estende anche al periodo successivo alla fine della convivenza, fino al definitivo scioglimento del matrimonio. Solo con il divorzio, infatti, viene meno la qualifica di “persona della famiglia” che giustifica l'applicazione della fattispecie dei maltrattamenti. La giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla Corte (es. Cass. 45400/2022), ribadisce che la ratio è quella di impedire che la separazione, spesso conseguenza di condotte maltrattanti, possa costituire un “vuoto di tutela” per la vittima. L'obbligo di rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, sancito dall'articolo 143, comma 2, c.c., resta operativo fino al divorzio, indipendentemente dalla cessazione della coabitazione. Il criterio temporale rilevante ai fini dell'articolo 572 c.p. è lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio. Le condotte maltrattanti che si protraggano nel periodo tra separazione e divorzio sono pienamente sussumibili nella fattispecie penale, a prescindere dalla cessazione della convivenza, purché permanga il vincolo matrimoniale.
Presidente De Amicis - Relatore Giorgi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa il 22 gennaio 2024 il Tribunale di Salerno dichiarava l'imputato responsabile del reato di cui all'articolo 612-bis cod. pen., limitatamente alle condotte contestate fino al novembre 2015 e, con la diminuente di cui all'articolo 89 cod. pen., lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d'appello di Salerno, qualificava diversamente i fatti come delitto di maltrattamenti ex articolo 572 cod. pen., confermando la pena irrogata dal primo giudice. La Corte ripercorreva nel merito le argomentazioni svolte dal Tribunale circa la sussistenza della responsabilità, ritenendo che, ove sussistano i presupposti richiesti dalla norma incriminatrice, la separazione personale fra i coniugi non osti alla configurabilità del delitto di maltrattamenti, così diversamente qualificando i fatti. La Corte disattendeva, inoltre, le doglianze relative alla mancata concessione delle attenuanti generiche, sottolineando la mancanza di elementi positivi di valutazione, così come reputava equo il trattamento sanzionatorio, in considerazione delle oggettive modalità delle condotte. La Corte respingeva, altresì, la richiesta di applicazione di pena sostitutiva attesa la pericolosità del ricorrente e disattendeva l'invocato decorso della prescrizione, in considerazione della pena edittale prevista ratione temporis e dei periodi di sospensione. 2. Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza, denunziando la violazione di legge e il vizio di motivazione con riguardo: 2.1. alla erronea riqualificazione del fatto come delitto di cui all'articolo 572 cod. pen., qualora applicato a una coppia che, sebbene non ancora divorziata, non sia più convivente; una diversa interpretazione determinerebbe un'eccessiva estensione del concetto di famiglia in contrasto con il divieto di analogia in malam partem, che imporrebbe, invece, di intenderlo quale comunità connotata da una stabile relazione affettiva interpersonale e da una continua convivenza; 2.2. alla violazione del diritto di difesa posto che l'imputato è venuto a conoscenza della nuova qualificazione giuridica soltanto al momento della pronuncia della sentenza di condanna, con ciò non potendo predisporre un'adeguata difesa rispetto alla nuova contestazione; 2.3. alla violazione del divieto di reformatio in peius, là dove la diversa qualificazione giuridica dei fatti, pur nel mantenimento del trattamento sanzionatorio, ha comportato un aggravamento del termine prescrizionale in senso peggiorativo per il ricorrente; 2.4. alla pronuncia relativa alla prescrizione, essendosi la Corte limitata ad un generico rinvio alla motivazione della sentenza di primo grado, senza fornire adeguata risposta alle censure difensive relative, in particolare, al periodo fra il 29 giugno 2022 e il 15 marzo 2023, trattandosi di un caso ove l'udienza non poteva essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell'Impedimento, con conseguente limitazione del periodo di sospensione negli stessi termini. Con memoria in data 12 maggio 2025 la difesa ha replicato alle conclusioni del Procuratore Generale, reiterando tutti i motivi proposti. 3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare. Considerato in diritto 1. Il ricorso non è fondato e va pertanto rigettato. 2. Con riguardo al primo motivo, la Corte territoriale ha correttamente riqualificato il fatto ai sensi dell'alt. 572 cod. pen., rimanendo lo stesso immodificato così come originariamente contestato. Essendo emerso pacificamente che le condotte maltrattanti hanno avuto luogo in un lasso temporale tra la convivenza coniugale e la separazione, i giudici d'appello hanno fatto buon governo dell'indirizzo di legittimità secondo cui integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta persona della famiglia fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza, dal momento che la separazione è condizione che non elide lo status acquisito con il matrimonio, dispensando dagli obblighi di convivenza e fedeltà, ma lasciando integri quelli di reciproco rispetto, assistenza morale e materiale, e collaborazione, che discendono dall'articolo 143, comma 2, cod. civ. (Sez. 5, n. 45400 del 30/09/2022, R., Rv. 284020). 3. Non è fondato il secondo motivo di ricorso per il quale va richiamata la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la riqualificazione giuridica del fatto, nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall'articolo 6 CEDU, resta condizionata dalla sua sufficiente prevedibilità e dall'essere l'imputato messo in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica (Sez. 3, n. 9457 del 19/01/2024, E., Rv. 286026; Sez. 5, n. 27905 del 03/05/2021, Ciontoli, Rv. 281817-03). Tali circostanze sono nel caso di specie certamente ravvisabili, essendo stati descritti nell'imputazione fatti sussumibili anche nella fattispecie ex articolo 572 cod. pen. La soluzione definitoria adottata dalla Corte territoriale non ha leso il diritto di difesa dell'imputato, poiché si è fornita la corretta qualificazione giuridica del fatto, così come originariamente contestato, peraltro del tutto prevedibile in ragione della sua puntuale descrizione nell'imputazione. 4. Con riguardo al terzo motivo, si rileva che il termine prescrizionale più lungo previsto per il reato di cui all'articolo 572 cod. pen. non comporta violazione dell'articolo 597 cod. proc. pen., dal momento che non viola il divieto di reformatio in peius la sentenza con la quale venga data al fatto una definizione giuridica più grave, da cui consegua una modifica sfavorevole dei termini di prescrizione, in quanto il menzionato divieto impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore per il condannato (Sez. 5, n. 41534 del 09/10/2024, G., Rv. 287231). Invero, l'articolo 597 cod. proc. pen. non indica, tra gli effetti inibiti dal divieto di reformatio in peius, la determinazione di un più lungo termine di prescrizione, che deve ritenersi precipitato diretto della mera applicazione dell'articolo 157 cod. pen. alla corretta definizione giuridica del fatto (Sez. 2, n. 23410 del 01/07/2020, Ndiaye, Rv. 279772, Sez. 1, n. 49671 del 24/09/2019, Maksutoski, Rv. 277859, Sez. 2, n. 46712 del 30/10/2019, Coletta, Rv. 277599 e Sez. 6, n. 32710 del 16/07/2014, Schepis, Rv. 260663). La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente rimarcato che il divieto di reformatio in peius non garantisce al condannato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole di quello riservatogli dal primo giudice, ma impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore. 5. Quanto, infine, al quarto motivo, si osserva che il calcolo del termine di prescrizione deve parametrarsi a quello previsto per il reato di cui all'articolo 572 cod. pen. in ragione della ritenuta qualificazione giuridica del fatto, ratione temporis. Detto termine non è decorso, nemmeno decurtando dal computo il periodo fra il 29 giugno 2022 e il 15 marzo 2023 indicato dal ricorrente. 6. Il ricorso deve essere pertanto respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.