Quale risarcimento per la ritardata riammissione in servizio nel pubblico impiego?

La Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha escluso il risarcimento del danno per la ritardata riammissione in servizio di un dipendente pubblico precedentemente destituito dal servizio fornendo un’articolata disamina della riconducibilità causale del danno e del relativo onere probatorio.

La destituzione di diritto del dipendente pubblico L'articolo 85 del Dpr n. 3/1957, prevedeva la destituzione automatica per il dipendente pubblico nel caso di condanna, passata in giudicato, per delitti contro la personalità dello Stato, la fede pubblica, moralità pubblica ed il buon costume, per delitti di peculato, malversazione, concussione, corruzione, rapina, estorsione, millantato credito, furto, truffa ed appropriazione indebita. A seguito della pronuncia della Consulta (la n. 971/1988) che ne ha dichiarato l'incostituzionalità nella parte in cui non prevedeva il preventivo svolgimento di un procedimento disciplinare, è intervenuta la legge 19/1990 che all'articolo 10 ha stabilito che i dipendenti che pubblici anteriormente alla data del 28/2/1990 siano stati destituiti di diritto sono, a domanda, riammessi in servizio, solo se all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere promosso entro 90 giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell'amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi 90 giorni, non venga inflitta la destituzione. Il caso affrontato Il lavoratore destituito d'ufficio dal servizio (ante 1990) all'esito di una sentenza di condanna penale definitiva per i reati di truffa aggravata e falsità materiale commessi come pubblico ufficiale a danno dell'INAIL presso il quale lavorava, chiedeva la riammissione in servizio. L'Ente, tuttavia, non instaurava alcun procedimento nei confronti del lavoratore destituito tantomeno nei 90 giorni successivi previsti dall'articolo 10 della L.n. 19/1990. Il lavoratore reiterava la domanda ed a seguito del silenzio dell'Ente impugnava il diniego avanti al TAR che annullava il provvedimento dichiarando la perentorietà dei termini previsti dalla legge per l'instaurazione del procedimento disciplinare. Il Consiglio di Stato (nel 2007), confermando la natura perentoria dei termini, riconosceva il diritto del lavoratore ad essere riammesso in servizio, senza tuttavia riconoscere alcunché come retribuzioni arretrate per la mancanza della controprestazione. Il lavoratore agiva quindi per il pagamento delle retribuzioni arretrate anche quale risarcimento per il ritardo nella riammissione in servizio, ma il sia Tribunale che la Corte d'Appello rigettavano le domande. Il nesso causale La Corte di Cassazione ha ritenuto che il comportamento dell'INAIL vada valutato sul piano del nesso causale tra esso e i danni che si asserisce ne sarebbero derivati, attraverso una integrale considerazione delle circostanze fattuali e giuridiche, che sia coerente con la necessità di riscontrare un nesso diretto e di immediatezza tra l'inadempienza che ha cagionato l'intera dinamica successiva e quanto addotto come pregiudizio ad esso conseguente. La Suprema Corte, uniformandosi al proprio orientamento, ha ribadito che spetta a chi si assuma danneggiato la prova del nesso esistente tra l'inadempimento denunciato e i danni che ne sono conseguiti (Cass. 31 luglio 2024, n. 21511; Cass. 17 luglio 2023, n. 20707; Cass. 24 giugno 2020, n. 12490). Nel caso di specie a determinare il danno lamentato era stato un concatenarsi di eventi il primo dei quali era stato il mancato svolgimento del procedimento disciplinare cui era tenuto l'INAIL. Tuttavia, come già ritenuto dai giudici di merito, non era certo che lo svolgimento del procedimento disciplinare avrebbe determinato la riammissione in servizio, ben potendo invece comportare la conferma della destituzione con danni persino più gravi. L'originaria omissione del procedimento disciplinare non ha dunque cagionato alcun danno, determinando invece il diritto del lavoratore alla riammissione in servizio che diversamente, nel caso di adempimento non avrebbe potuto ottenere. La rilevanza causale degli eventi successivi Il ritardo nella riammissione (ed il mancato pagamento delle retribuzioni arretrate), però, non discende dall'inerzia dell'Ente, ma dalle pronunce rese dai Giudici Amministrativi che innescano una nuova sequenza causale, autonoma rispetto la dinamica delle omissioni iniziali e che, dal momento del suo intervenire, individua un ritardo diversamente qualificato rispetto agli obblighi preesistenti. L'eventuale ritardo costituirebbe quindi un profilo nuovo ed autonomo di inadempimento (e di danno) i cui obblighi di deduzione a fondamento della pretesa sono in capo al presunto creditore (cfr Cass. 17 gennaio 2024, n. 1838 e Cass. 10 gennaio 2024, n. 1055; Cass. 16 marzo 2018, n. 6618). Tuttavia, non essendo stata dimostrata l'esistenza di un nesso causale tra l'inadempimento denunciato (l'omessa instaurazione e conclusione del procedimento disciplinare nei termini e conseguente obbligo di riammissione in servizio) e le conseguenze di ciò qualificabili come danno, anche alla luce di quanto successivamente aggiunto sul piano del rilievo causale per effetto delle pronunce amministrative, è stato escluso il risarcimento a favore del lavoratore.

Presidente Tria - Relatore Bellè Fatti di causa 1. Mo.Gi., dipendente dell'INAIL, fu destituito dall'impiego secondo quanto previsto dall'articolo 85 del D.P.R. n. 3 del 1957, per avere riportato una condanna penale definitiva ad anni tre di reclusione per reati di truffa aggravata e falsità materiale commessi come pubblico ufficiale in danno dell'ente. Dichiarata l'illegittimità costituzionale del menzionato articolo 85 (lett. a) del D.P.R. n. 3 del 1957, nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare (Corte Costituzionale 14 ottobre 1988 n. 971) è stata poi emessa la legge n. 19 del 1990, la quale, all'articolo 10, ha previsto che il dipendente destituito potesse essere riammesso in servizio - nei termini di cui in dettaglio si dirà di seguito - se l'ente di appartenenza non avesse disposto la destituzione in un procedimento da instaurare e concludere in certi termini. In fatto, è accaduto che il Mo. propose la prescritta domanda nel giugno 1992, ma l'INAIL, che avrebbe dovuto promuovere il procedimento disciplinare entro il 9.9.1992 e concluderlo entro il 9.12.1992, non dette corso ad alcunché. Il ricorrente reiterò quindi l'istanza, con domanda dell'aprile 1993 e nel novembre di quello stesso anno impugnò davanti al TAR il silenzio della P.A. ed a ciò fece seguito, in esito ad ulteriore diffida, un espresso diniego di riammissione in servizio, anch'esso impugnato dal lavoratore davanti al TAR. Secondo quanto si legge nel ricorso per cassazione, il TAR, riuniti i giudizi, con sentenza 9253 del 2005 annullò il provvedimento di diniego di riammissione in servizio, affermando che i termini per la instaurazione e conclusione dello speciale procedimento disciplinare di cui alla legge n. 19 del 1990 erano perentori. Il Consiglio di Stato, raggiunto dall'appello dell'ente, lo ha poi rigettato, confermando la natura perentoria di quei termini e riconoscendo il diritto del lavoratore a essere riammesso in servizio senza dilazione, pur senza restitutio in integrum, relativamente al trattamento retributivo, per difetto medio tempore della controprestazione. Mo.Gi. ha quindi agito per il pagamento delle retribuzioni ed il risarcimento del danno, parametrato sulle retribuzioni perdute, oltre al danno conseguito per il collocamento a riposo senza maturazione della contribuzione utile al fine di fruire del trattamento pensionistico di anzianità e ai danni non patrimoniali. Ciò, dapprima, ancora presso il TAR, con giudizio quindi trasmigrato, per declaratoria di difetto di giurisdizione, davanti al Tribunale ordinario. Quest'ultimo ha disatteso sia la domanda retributiva, sia quella risarcitoria e, interposto appello dal Mo. sui soli profili risarcitori, la Corte d'Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha rigettato il gravame, confermando la sentenza di primo grado. 2. La Corte territoriale ha ritenuto che, avendo il Consiglio di Stato esclusa la possibilità di restitutio in integrum quanto al trattamento retributivo, per mancanza di effettiva prestazione di servizio, non era concepibile che siffatto pregiudizio potesse trovare ingresso attraverso la via alternativa del trattamento risarcitorio. Inoltre - aggiungeva la Corte territoriale - non constava che nel periodo di assenza dal servizio il Mo. non avesse percepito altri redditi. Soprattutto, evidenziava ancora la Corte d'Appello, a monte del trattamento risarcitorio, deve essere configurabile una condotta dell'INAIL foriera della situazione pregiudizievole , sicché, se era vero che l'ente era incorso in ritardo nell'espletamento del procedimento disciplinare, tuttavia, non era certo che, se quel procedimento fosse stato tempestivamente svolto, vi sarebbe stata la riammissione in servizio, ben potendosi disporre la definitiva destituzione. In questa prospettiva, secondo la sentenza qui impugnata mancava certezza sulla derivazione causale del presunto evento dannoso dal ritardo contestato all'istituto , perché si sarebbe potuta avere la conferma della destituzione , con danni perfino più gravi . Infine, veniva esclusa la risarcibilità del danno non patrimoniale, per l'assenza di riscontri probatori sulla derivazione causale dal contegno dell'INAIL, oltre che sulla loro effettività e per il trattarsi di situazioni ritenute insuscettibili di valutazione economica . 3. Mo.Gi. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di otto motivi, cui l'INAIL ha opposto difese con controricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria con la quale ha insistito per l'accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri. Ragioni della decisione 1. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell'articolo 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 in relazione agli articolo 1218,1175,1176,2043 e 1223 c.c., oltre che dell'articolo 111 Cost. e dell'articolo 132, co. 2, n. 4 c.p.c. Con esso si assume l'erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui essa ha ritenuto che quanto addotto in causa riguardasse l'inadempimento da ritardo nell'adozione del provvedimento conseguente al procedimento disciplinare di cui all'articolo 10 della legge n. 19 cit. Il motivo evidenzia in particolare come la responsabilità ascritta all'INAIL non traesse affatto origine da tale ritardo, quanto dalla mancata riammissione in servizio pur dopo lo spirare dei termini perentori per lo svolgimento del procedimento disciplinare. In tal modo la Corte territoriale, oltre ad esprimere una mera congettura sui possibili esiti dell'azione disciplinare, aveva adottato un'impostazione che consentirebbe di delibare sine die la domanda di riammissione di servizio, così apertamente violando il diritto alla reintegrazione nel ruolo che derivava dal vano decorso dei termini e vanificando anche quanto ritenuto dal giudice amministrativo in ordine alla perentorietà di quei termini ed al diritto del lavoratore a riprendere il lavoro. Il secondo motivo adduce la violazione ed omessa ovvero erronea applicazione dell'articolo 1218 c.c., in relazione all'articolo 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 e con esso si sottolinea come, data la natura contrattuale della responsabilità, era l'INAIL che, una volta violato l'obbligo per lo svolgimento del procedimento disciplinare, avrebbe dovuto provare l'impossibilità della prestazione o altra causa non imputabile dell'inadempimento, risultando altrimenti ineludibile la condanna al risarcimento del danno per il pregiudizio al diritto del ricorrente alla reintegrazione nel ruolo. Il terzo motivo, denunciando la violazione degli articolo 1223 c.c., 10, co. 2 e ss. della legge n. 19 del 1990 e degli articolo 111 Cost. e 132, co. 2, n. 4, c.p.c., sostiene che erroneamente la Corte territoriale avrebbe indagato sul nesso causale tra il ritardo o l'omessa definizione del procedimento disciplinare nei termini e il danno, in quanto quello che rilevava era semmai il nesso tra il superamento di quei termini ed il pregiudizio consistente nella mancata tempestiva riammissione in servizio. 2. I motivi, riguardando tutti l'interpretazione della norma a base del contenzioso (articolo 10, della legge n. 19 del 1990) e le questioni sulla responsabilità da ritardo nella riammissione in servizio e sul nesso causale tra inadempimento dell'ente e pregiudizi ad esso conseguenti, vanno esaminati congiuntamente. 3. Va preliminarmente escluso ogni profilo di inesistenza della motivazione, pur denunciato attraverso il richiamo all'articolo 132 n. 4 c.p.c. in combinazione con l'articolo 111 Cost. Il percorso motivazionale, infatti, esiste ed è chiaro, nei termini riepilogati nello storico di lite, oltre che palesemente percepito dal ricorrente, come si evince anche dalla formulazione dei motivi. L'asse decisionale, per quanto qui interessa, corre lungo la linea che, secondo la Corte territoriale, è tracciata dall'assenza di una condotta dell'INAIL foriera del pregiudizio, sul presupposto che solo la prova che all'esito del procedimento disciplinare non sarebbe stata inflitta la destituzione potrebbe comportare il riconoscimento di un nesso tra l'inadempimento ed il danno, altrimenti potendosi verificare, con la destituzione, danni ancora più gravi al ricorrente. Ciò detto sul piano meramente formale-processuale, i motivi vanno quindi esaminati sul piano del diritto sostanziale. 4. La norma che rileva - ovverosia l'articolo 10, co. 2 e 3 della legge n. 19 del 1990 - è intervenuta, anche in esito alla sentenza della Corte Costituzionale 14 ottobre 1988, n. 971 (dichiarativa dell'illegittimità dell'articolo 85 lett. a del D.P.R. n. 3 del 1957 nella parte in cui non prevedeva, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare), al fine di regolare rapporti di lavoro chiusi sulla base di destituzioni di diritto applicate secondo la disciplina anteriore alla declaratoria di incostituzionalità e quindi in mancanza delle difese e delle necessarie valutazioni di proporzionalità o gradualità sanzionatoria proprie di ciascun caso di specie. Il citato articolo 10 in proposito ha stabilito (comma 2) che i pubblici dipendenti che anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge siano stati destituiti di diritto sono, a domanda, riammessi in servizio , ma consentiva ciò (comma 3) solo se all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro novanta giorni dalla ricezione della domanda di riammissione da parte dell'amministrazione competente e che deve essere concluso entro i successivi novanta giorni, non venga inflitta la destituzione . Dall'impostazione della norma deriva che la P.A. era obbligata a svolgere quel procedimento, in quanto esso era condizione ( solo se ) della domandata riammissione. La riammissione in servizio dipendeva dunque dallo svolgimento non sfavorevole del procedimento disciplinare, da iniziare entro novanta giorni dalla domanda dell'interessato e da concludere nei successivi novanta giorni. Nel caso di specie, invece, il procedimento non è stato svolto nei termini e solo successivamente allo spirare di essi vi è stato un diniego di riammissione in servizio, che è stato annullato dalle sentenze intervenute in ambito di giurisdizione amministrativa, proprio perché attuato dopo che erano trascorsi invano quei termini. Il ricorrente precisa, infatti, che egli fece domanda nel giugno 1992, rispetto alla quale il procedimento avrebbe dovuto essere promosso entro il 9.9.1992 e concluso entro il 9.12.1992, mentre solo nel 1994 fu denegata espressamente la riammissione in servizio, con il provvedimento successivamente annullato in sede giudiziale. 4.1 È indubbio - e la Corte territoriale non lo nega ponendosi con ciò pienamente in linea con le sentenze rese in sede di giurisdizione amministrativa e per quanto di esse è trascritto nel ricorso per cassazione - che dall'accaduto sia scaturito comunque il diritto del ricorrente alla riammissione in servizio fin dal momento dell'originario spirare del termine per provvedere, la quale, essendo stata poi attuata dall'INAIL solo dopo la sentenza del Consiglio di Stato, è intervenuta nel 2007. Qui il tema è tuttavia diverso e consiste nel danno correlato a tale ritardo. Si deve in proposito considerare - come si è detto - che l'articolo 10, co. 3 in sé condiziona la riammissione allo svolgimento favorevole del procedimento disciplinare (ancora il solo se ), che però, se non ha avuto luogo, non realizza il fatto tipico da cui la norma fa dipendere l'effetto. Riconoscendo, come ha fatto anche il giudice amministrativo, che l'ipotesi dell'inerzia della P.A. - pur se le disposizioni nulla dicono espressamente - sia parimenti idonea a realizzare quell'effetto in ragione della perentorietà dei relativi termini, si deve concludere che la riammissione finisca per operare, nella norma complessivamente intesa, quale effetto legale dell'inerzia, senza alcuna ulteriore possibile valutazione e ciò pur a fronte di fatti gravi come quelli che illo tempore giustificavano la destituzione ope legis. Tale immediata consecuzione di effetti fa tuttavia ritenere che la vicenda sia da valutare su di un piano giuridicamente unitario e che unitario sia anche l'inadempimento, consistente nel mancato svolgimento del procedimento disciplinare e nell'inosservanza dell'obbligo di riammissione in servizio sorto quale conseguenza della mancata attivazione nei termini del procedimento medesimo. La vicenda e quanto dedotto come inadempimento non può quindi essere valutata frazionando le diverse componenti che hanno caratterizzato lo sviluppo temporale degli eventi, finendosi altrimenti per travisare l'effettiva consistenza complessiva giuridica dell'accaduto. Il comportamento dell'INAIL - senza dubbio caratterizzato da una macroscopica violazione delle regole sulla reiterazione del procedimento disciplinare, non svolto nei termini nonostante la normativa specifica e la domanda del ricorrente - va quindi apprezzato, sul piano del nesso causale tra esso e i danni che si asserisce ne sarebbero derivati, attraverso una integrale considerazione delle circostanze fattuali e giuridiche, che sia coerente con la necessità di riscontrare un nesso diretto e di immediatezza tra l'inadempienza che ha cagionato l'intera dinamica successiva e quanto addotto come pregiudizio ad esso conseguente. 5. La norma in commento, nel subordinare la riammissione al corretto espletamento della sequenza domanda - procedimento -irrogazione di sanzione diversa dalla destituzione, può essere intesa come tale da individuare in capo al lavoratore un interesse legittimo di tipo pretensivo allo svolgimento del procedimento, dal cui esito sarebbe derivata l'attribuzione o meno del bene rivendicato, il che comporta, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, che il risarcimento è dovuto solo se sia data prova, sul piano della probabilità, che un regolare iter procedurale avrebbe comportato l'ottenimento del provvedimento favorevole (v., per i principi generali, Cons. Stato ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7 e giurisprudenza amministrativa ivi citata, tra cui Cons. Stato, sez. IV, 1 dicembre 2020, n. 7622; v., altresì, Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3657). Non senza peraltro trascurare che, anche a ricostruire l'assetto giuridico nei termini di diritto condizionato alla scelta della P.A., non potrebbe trovare applicazione la fictio di avveramento (articolo 1359 c.c.), per il trattarsi in ipotesi di condizione palesemente di natura potestativa (Cass. 18 ottobre 2024, n. 27124 e giurisprudenza costante ivi richiamata), sicché tutto anche in tale diversa prospettiva va riportato, fermo l'effetto legale conseguente al vano spirare del termine per provvedere, alla logica risarcitoria, rispetto alla quale valgono comunque analoghe regole sul giudizio c.d. controfattuale. 6. Dalla dinamica giuridica sopra riepilogata deriva quindi che, a determinare il danno lamentato, sta un concatenarsi di eventi di cui il primo è il mancato svolgimento del procedimento disciplinare che l'INAIL era tenuta a svolgere. A tale omissione è seguito il conseguimento di un beneficio (l'obbligo di riassunzione), in concreto limitato nei suoi effetti dai tempi in cui la riammissione in servizio che ne costituiva l'oggetto è stata in concreto attuata dall'ente. Su tali premesse, è agevole osservare che, in tanto si può predicare l'esistenza di danno a qualsivoglia titolo - contrattuale o extracontrattuale - imputabile ad altri a titolo omissivo, in quanto tale danno sia conseguenza di un comportamento doveroso che, se tenuto, avrebbe appunto evitato quel pregiudizio. Il mancato conseguimento di un certo risultato utile (qui, la riassunzione) può in effetti essere imputato causalmente a chi si assume essere stato inadempiente, se quell'esito sarebbe stato conseguito a seguito dell'esatto adempimento, ma non altrimenti. Tutto ciò significa che un inadempimento può dirsi causa di un danno se, inserendo, secondo la logica c.d. controfattuale, il comportamento lecito nella sequenza causale, il pregiudizio non si sarebbe verificato. Va quindi ripresa la menzionata considerazione dell'inadempimento datoriale quale vicenda unitaria di omissione del procedimento disciplinare nei termini prescritti e, nonostante tale mancanza, della riammissione in servizio. Ciò comporta lo sviluppo del giudizio controfattuale attraverso l'inserzione del comportamento mancato (lo svolgimento del procedimento disciplinare), cui si aggiunge la necessità di apprezzare anche la probabilità che esso si concludesse favorevolmente al ricorrente o comunque, come giustamente ha ritenuto la Corte d'Appello, l'esistenza o meno di una prova in tal senso. 6.1 E' infatti indubbio che, in assenza di norme espresse in senso contrario, spetta a chi si assuma danneggiato la prova del nesso esistente tra l'inadempimento denunciato e i danni che ne sono conseguiti (v. in diversi ambiti, Cass. 31 luglio 2024, n. 21511; Cass. 17 luglio 2023, n. 20707; Cass. 24 giugno 2020, n. 12490). In proposito, la Corte d'Appello ha incentrato la propria decisione appunto sul rilievo per cui non è certo che lo svolgimento del procedimento disciplinare avrebbe determinato la riammissione in servizio, in quanto, a mente dell'articolo 10 delle legge 19/1990, all'esito di questo può nuovamente essere inflitta la destituzione , sicché lo svolgersi di quel procedimento avrebbe potuto comportare la conferma della destituzione, con (eventuali) danni perfino più gravi . Al riguardo, al di là della considerazione per cui la gravità dei fatti da cui era scaturita la condanna penale milita decisamente contro una conclusione prognostica in senso favorevole al ricorrente, è comunque decisivo ed assorbente il rilievo mosso dalla Corte d'Appello sul piano degli oneri probatori in punto di nesso causale. 6.2 L'originario innesco causale derivante dall'omissione di un provvedimento nei termini prescritti non ha dunque cagionato un danno, ma ha fatto sorgere il diritto alla riassunzione, che, se l'adempimento vi fosse stato, il ricorrente avrebbe potuto non avere. È poi vero che i tempi in cui poi tale riammissione è avvenuta hanno comportato un ritardo, ma quest'ultimo, nella logica di cui sopra, ha finito per limitare le conseguenze favorevoli riconnesse all'inerzia dell'ente, senza però che ciò muti la conclusione per cui nell'accaduto non si può ravvisare giuridicamente un danno quale conseguenza di un comportamento omissivo pregiudizievole di cui l'ente debba rispondere. 7. Indubbiamente, non potendosi pensare che per l'ente fosse possibile esimersi sine die dall'adempiere, senza risentire dei danni consequenziali, va detto che il ragionamento cambia nel momento in cui ad imporre l'adempimento è sopravvenuta anche una statuizione giudiziale. A parte gli effetti caducatori dell'annullamento degli atti di destituzione o di diniego della riammissione in servizio, l'effetto delle pronunce rese dal giudice amministrativo era infatti anche quello di imporre un obbligo conformativo il cui inadempimento realizza l'ulteriore fattispecie dell'inosservanza del provvedimento giudiziale o del giudicato. Queste ultime inosservanze innescano una nuova sequenza causale, a quel punto autonoma dalla dinamica delle omissioni iniziali e che, dal momento del suo intervenire, individua un ritardo diversamente qualificato rispetto agli obblighi preesistenti e che è fonte solo di danno. La valutazione di questo eventuale ritardo concerne tuttavia un profilo autonomo di inadempimento, che postula temi di indagine completamente nuovi, anche in fatto, coinvolgendo il tema dell'efficacia della sentenza del TAR e della sua eventuale sospensiva, nonché quello delle vicende e dei tempi intercorsi tra la sentenza del Consiglio di Stato e la riammissione in servizio. 7.1 Tuttavia, non solo il ricorso per cassazione non è indirizzato in questi termini, ma neanche emerge da esso che l'originaria domanda fosse impostata al fine di valorizzare quello specifico profilo di inadempimento, che dunque non può essere qui officiosamente posto a base della decisione, spettando pur sempre a chi agisce a titolo risarcitorio allegare gli specifici fatti su cui si fonda la pretesa azionata. Il ricorrente fa infatti sempre riferimento all'obbligo di riammissione sorto per lo spirare del termine di cui all'articolo 10 della legge n. 19 cit. e non a quanto rispetto ad esso può essere stato successivamente aggiunto, sul piano specifico del rilievo causale, per effetto del sopravvenire delle pronunce giudiziali. Del resto, anche nella logica di cui a Cass., S.U., 30 ottobre 2001, n. 13533, è pur sempre onere del danneggiato che agisca a titolo contrattuale allegare l'inadempimento o l'inesatto adempimento, inteso nel nucleo essenziale di un dato effetto sfavorevole conseguente alla violazione di certi obblighi. Obblighi della cui deduzione a fondamento della pretesa è certamente onerato il presunto creditore (v. Cass. 17 gennaio 2024, n. 1838 e Cass. 10 gennaio 2024, n. 1055, punto 12.2, in tema di adempimento; Cass. 16 marzo 2018, n. 6618 in tema di risarcimento da inadempimento), anche per evidenti ragioni di contraddittorio sull'oggetto del contendere, non bastando la sola allegazione dell'evento sfavorevole (qui, la mancata ripresa del servizio). 7.2 Può quindi anche richiamarsi il principio per cui, nel vantare un giudicato a sé favorevole - diverso da quello maturato presso la S.C. - è necessaria la trascrizione integrale del testo della (o delle) sentenza di riferimento (Cass. 23 giugno 2017, n. 15737; Cass. 11 febbraio 2015, n. 2617 e, da ultimo, tra le molte, Cass. 11 settembre 2020, n. 18934; Cass. 17 luglio 2020, n. 15288; Cass. 15 luglio 2020, n. 15113; Cass. 24 giugno 2020, n. 12496) ed osservare che, nel caso di specie, l'apprezzamento di quanto giudicato in via amministrativa o accaduto comunque in quel processo, in base al ricorso per cassazione, è possibile solo per quanto parzialmente trascritto di esso o riferito dalla Corte d'Appello. Al di là di ciò, è tuttavia assorbente quanto sopra osservato rispetto al non essersi azionato quello specifico inadempimento ed il ritardo ad esso conseguito, ma l'altro e più originario, che resta però condizionato, nella valutazione di inesistenza di un danno giuridicamente ad esso riferibile, dal giudizio controfattuale su cui già si è detto. 8. Dovendosi escludere che sia stata dunque dimostrata l'esistenza di un nesso causale tra l'inadempimento denunciato (omessa conduzione e ultimazione del procedimento disciplinare nei termini e conseguente obbligo di riammissione in servizio) e conseguenze di ciò qualificabili come danno, ne resta escluso il riconoscimento degli obblighi risarcitori. In tal modo resta sostanzialmente confermata la ratio decidendi, in sé sufficiente a sorreggere la decisione, con cui la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse configurabile una condotta dell'INAIL foriera della situazione pregiudizievole, ovviamente rispetto a quanto dedotto in causa come inadempimento. Ciò manda assorbiti i restanti motivi con i quali si censura l'essersi negata la pretesa risarcitoria parametrata sulle retribuzioni per il fatto che queste ultime non fossero dovute come tali stante l'assenza di prestazione (quarto motivo, dedotto come violazione dell'articolo 1223 c.c., oltre che dell'articolo 10, co. 2 ss., cit.), l'omesso esame del fatto decisivo consistente nella perdita del quindicennio utile a fini contributivi (quinto motivo), l'esclusione del danno per l'assenza di prova di mancata percezione di altri redditi (sesto motivo, per violazione dell'articolo 2697 c.c.), il diniego del danno non patrimoniale per il fallimento dell'attività intrapresa o per l'impossibilità di sostenere i figli nello studio etc. (settimo motivo, in relazione ancora all'articolo 1223 c.c., all'articolo 10, co 2 ss. cit. ed all'articolo 132 n. 4 c.p.c. e 111 Cost. e ottavo motivo, sotto il profilo della possibile stima equitativa e quindi in relazione agli articolo 1223 e 1226 c.c.). Infatti, l'impossibilità di considerare la mancata ripresa dell'attività lavorativa come danno causalmente conseguente all'inadempimento, unitariamente considerato nei termini di cui si è detto, esclude non solo che si debba discutere del rilievo che abbia l'avvenuto disconoscimento delle retribuzioni per difetto di prestazione, ma anche degli altri danni inevitabilmente consistenti in conseguenze ulteriori di quella mancanza di attività in sé e quale fonte di reddito. 9. Al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.