La recente pronuncia della Corte di Cassazione si colloca in un punto critico del nostro diritto penale: quello in cui il corpo del condannato, divenuto spazio di resistenza, pretende di non essere più oggetto della pena.
Un detenuto, recluso da anni in regime ordinario, rifiuta in modo continuativo il cibo e le cure, manifestando una volontà deliberata di lasciarsi morire. La richiesta di detenzione domiciliare viene respinta: per la Suprema Corte, la sofferenza è “autoindotta” e “funzionalizzata alla fuoriuscita dal circuito carcerario”. Nessuna patologia, nessuna depressione clinica, nessun disturbo del comportamento alimentare. Solo strategia. Solo strumentalità. Eppure, proprio questa lettura netta, quasi binaria – tra malattia e intenzionalità – solleva interrogativi giuridici e costituzionali che non possono essere elusi. La volontarietà come criterio di esclusione: un dogma da riconsiderare? L'impianto argomentativo della sentenza si regge su un assioma implicito: il diritto al differimento ex articolo 147 c.p. presuppone che l'incompatibilità con il carcere derivi da una condizione patologica “non voluta”, “subita”, “oggettiva”. In questa logica, chi sceglie di farsi del male si pone automaticamente fuori dal perimetro della tutela. Il corpo dolente, se il dolore è voluto, cessa di essere oggetto di protezione giuridica. Ma questo ragionamento presenta almeno due punti critici: ignora l'esistenza di un'ampia zona grigia, clinicamente rilevante, in cui la volontà autodistruttiva è essa stessa espressione di una sofferenza psichica profonda, magari non diagnosticabile nei canoni del DSM-5, ma nondimeno autentica; pone il giudice in una posizione quasi etico-morale, costringendolo a valutare l'autenticità del dolore e l'“onestà” del gesto, finendo per attribuire al detenuto una sorta di colpa ulteriore: quella di usare il proprio corpo come strumento contro il carcere. Il paradosso della pena efficace Sotto un altro profilo, la sentenza in commento si inserisce in una linea giurisprudenziale che mira a difendere l'effettività della pena detentiva. Si potrebbe riassumere così: se l'ordinamento penitenziario premia il malato con la detenzione domiciliare, chi si ammala da solo evade legalmente. Di qui, il bisogno del sistema di chiudere la porta a ogni forma di “abuso”. Ma il paradosso è evidente. La pena che deve rieducare, secondo i canoni costituzionali (articolo 27, comma 3, Cost.), diventa misura da proteggere contro chi, più che trasgredire, soccombe. Il detenuto che si autodistrugge, invece di essere visto come soggetto da comprendere, viene trattato come stratega da neutralizzare. È in questa logica di “neutralizzazione” che il diritto rischia di disumanizzarsi. Lo Stato di diritto diventa Stato che tollera la morte del detenuto pur di non cedere a quella che percepisce come una minaccia simbolica all'ordine carcerario. Diritto alla salute, abuso e presunzione Il passaggio più problematico è forse quello in cui la Corte fa riferimento all'abuso del diritto alla salute. Qui si manifesta, in controluce, una concezione del diritto come concessione condizionata, e non come garanzia inviolabile. Ma chi stabilisce quando la tutela della salute diventa abuso? Con quali strumenti si distingue un rifiuto manipolativo da uno disperato? La giurisprudenza si assume il compito di tracciare questa linea, ma non sempre con strumenti adeguati. Le valutazioni cliniche sono spesso marginali, il dato psicologico resta sullo sfondo. E il rischio è che la volontà del detenuto – vulnerabile – venga letta più come minaccia che come sintomo. Una proposta: verso una grammatica della fragilità Il carcere è luogo di abbandono, non di scelta. Quando un recluso rifiuta il cibo, raramente agisce come soggetto pienamente libero. Più spesso, lo fa per dire che non ha più altro da dire. In questo senso, il rifiuto delle cure non è sempre un atto “contro” il carcere, ma un grido dal carcere. Serve allora una diversa grammatica della fragilità. Una che non chieda alla sofferenza di essere clinicamente certificata per essere riconosciuta. Una che sappia distinguere tra l'uso strumentale e l'urlo esistenziale. Una che non veda nell'autolesione un modo per ottenere benefici, ma una forma, pur distorta, di rifiuto della disumanizzazione. Conclusioni La sentenza n. 21578/2025 è coerente con un'impostazione giurisprudenziale ormai consolidata. Ma proprio per questo, la domanda oggi va ribaltata: non più se il diritto debba difendersi da chi rifiuta il carcere, ma se non sia il carcere, così come è, a dover essere rimesso in discussione. Perché quando l'unico modo per reclamare la propria umanità è smettere di mangiare, forse non è il detenuto ad abusare del diritto. È il diritto a non saper più ascoltare.
Presidente Boni - Relatore Zoncu Ritenuto in fatto 1. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma, con ordinanza del 4 dicembre 2024 respingeva l'istanza proposta nell'interesse di Po.Vi., detenuto in espiazione con fine pena al 28 gennaio 2042, avente ad oggetto la richiesta di differimento pena per grave infermità, anche nella forma della detenzione domiciliare. 2. Avverso detto provvedimento proponeva ricorso il condannato tramite il difensore avv. Paolo Becatti, lamentando con unico motivo la violazione degli articolo 147 cod. pen. e 47 ter primo comma L. 354/75. Lamenta il difensore come la motivazione posta dal Tribunale di Sorveglianza a sostegno del rigetto si fondi non tanto sulle condizioni di salute dell'istante sulla loro compatibilità con il regime carcerario, bensì sulla natura asseritamente volontaria delle compromesse condizioni di salute in cui versa il detenuto. In senso contrario alle determinazioni del Tribunale di Sorveglianza sono due relazioni dei sanitari che ne suggerivano l'inserimento in comunità, pur non affermando esplicitamente la sussistenza di uno stato di salute incompatibile con la detenzione. Secondo il ricorrente sarebbe ininfluente il fatto che le compromesse condizioni di salute in cui versa pacificamente all'oggi il condannato siano il portato di scioperi della fame e di plurimi tentativi di suicidio, poiché allo stato vi sono pareri dei sanitari che indicano l'utilità di un ricovero comunitario che non è stato disposto. Secondo il ricorrente il modus procedendi del Tribunale sarebbe errato poiché avrebbe disatteso un parere tecnico senza disporre perizia, senza, cioè opporre ragioni tecniche su cui fondare la propria contraria decisione. Il Tribunale di sorveglianza avrebbe dovuto accertare l'insorgenza di una patologia psichiatrica cui andavano ricondotti gli agiti autolesivi e verificarne la compatibilità o meno con la detenzione. 3. Il sostituto procuratore generale Olga Mignolo depositava conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è infondato. L'unico motivo di ricorso è infondato. In tema di differimento della pena per gravi motivi di salute, anche nella forma della detenzione domiciliare, il Tribunale di sorveglianza non può limitarsi alla valutazione astratta del quadro patologico dell'istante e dei presidi sanitari e terapeutici a sua disposizione, ma è tenuto a esaminare, in concreto, le condizioni di salute del predetto, le tipologie di cura a lui necessarie, nonché l'incidenza dell'ambiente carcerario sul suo peculiare quadro clinico. (Sez. 1, n. 49621 del 11/10/2023, D., Rv. 285458-01). In tema di differimento facoltativo della pena per grave infermità, la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata cioè mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto dei medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali ed obblighi di effettività della risposta punitiva, non potendosi pretendere tutela di un diritto abusato ed esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa. (Sez. 1, n. 39986 del 08/05/2019, Pannunzi, Rv. 277488-01). La motivazione posta a fondamento dell'impugnato provvedimento è estremamente articolata e logica e il motivo di ricorso è una riproposizione di tutte le argomentazioni già superate dal TDS e ha fatto precisa applicazione del principio testè richiamato. Il Tribunale di sorveglianza dà atto, infatti, dei ripetuti ricoveri in regime di detenzione, ovvero di arresti domiciliari dell'istante presso una Comunità terapeutica e del fatto che non appena egli veniva scarcerato e sottoposto alla differente misura detentiva, le condotte anticonservative e i disturbi dell'alimentazione scomparivano. Il provvedimento impugnato richiamava poi la perizia disposta dal Tribunale che aveva escluso patologie quali l'anoressia ovvero altri disturbi dell'alimentazione, così come i sanitari del DSM avevano escluso la esistenza di patologie psichiatriche. Posto che era evidente il nesso di causalità fra le condotte anticonservative e lo stato detentivo, veniva sollecitata dai sanitari una terapia comportamentale per fare sì che il detenuto assumesse una maggiore consapevolezza della sua condizione esistenziale. Scomparse le condotte anticonservative veniva nuovamente disposta la carcerazione, stante il fatto che l'unico lascito di tale comportamento consisteva in una problematica psicologica che certamente non era incompatibile con lo stato detentivo. Il Tribunale di sorveglianza dava atto che il ripristino dello stato detentivo segnava la ripresa delle condotte anticonservative strumentali; veniva disposta la massima sorveglianza e veniva disposto un percorso di sostegno psicologico e psichico che aveva pochissimo esito in ragione della non collaborazione del detenuto. A fronte dei ripetuti gesti anticonservativi venivano disposti ulteriori approfondimenti che non hanno evidenziato nulla di nuovo e, in particolare non hanno accertare la sussistenza di alcuna patologia psichiatrica. Concludeva il Tribunale come la situazione del detenuto non fosse incompatibile con lo stato detentivo, in assenza di un patologia fisica o psichiatrica e in ragione del fatto che le scadenti condizioni di salute siano frutto di condotte volontarie e anticonservative agite non già in ragione di una patologia psichiatrica insorta durante la detenzione, appunto, bensì di un difetto di adattamento del detenuto alla condizione carceraria, e con un evidente scopo manipolatorio-strumentale. 2. Il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell'articolo 52 D.Lgs. 196/03 e ss.mm.