Negozio chiuso per il lockdown: al conduttore spetta solo l’azione di risoluzione per eccessiva onerosità

Torna all’esame della Cassazione la questione della sussistenza del diritto alla riduzione dei canoni di locazione commerciale nel periodo di chiusura dell’attività per effetto delle misure di contenimento e contrasto dell’epidemia Covid-19.

La pandemia del Covid-19 è stato un fatto di eccezionale gravità per l'elevato numero di vittime che ha provocato, tanto da rendere necessarie misure restrittive straordinarie che hanno determinato anche la chiusura temporanea di molte attività, fra cui quelle commerciali. Inevitabilmente, ne sono scaturite controversie anche nell'ambito dei rapporti di locazione commerciale, in ragione delle difficoltà economiche patite dagli esercenti per la chiusura delle loro attività. La vicenda Nel caso che ci occupa, due proprietari, nell'agosto 2020, avevano intimato ad una società sfratto per morosità da un fondo commerciale, che poco dopo era stato rilasciato spontaneamente, per cui il giudizio, disposto il mutamento di rito, era proseguito per la condanna della conduttrice al pagamento dei canoni, oltre che al risarcimento di un danno provocato all'immobile. La società conduttrice aveva quindi chiesto la riduzione dei canoni al 50% per il periodo di chiusura dell'attività prima totale, da marzo a maggio 2020, e poi parziale, fino ad agosto 2020, per effetto delle misure emergenziali per il Covid-19. Il Tribunale di Torino aveva disatteso la domanda della conduttrice, condannandola al pagamento integrale dei canoni, dedotto l'importo di una fideiussione escussa dai proprietari, e al risarcimento del danno all'immobile; la Corte di Appello aveva confermato questa decisione, addirittura dichiarando l'impugnazione proposta dalla società inammissibile ai sensi dell'articolo 348 bis c.p.c. La parola alla Cassazione La controversia è quindi arrivata all'esame della Corte di Cassazione, la quale anzitutto ha ritenuto ammissibile la domanda risarcitoria del danno all'immobile proposta dai proprietari per la prima volta nella memoria integrativa di cui all'articolo 426 c.p.c., essendo l'atto nel quale le parti, a seguito del mutamento di rito, possono anche introdurre domande basate su di una nuova causa petendi. Ma la questione centrale riguarda appunto la domanda di riduzione dei canoni avanzata dalla conduttrice per il periodo in cui erano in vigore le misure emergenziali. La società ritiene infatti dovuta la riduzione dei canoni, come rimedio giudiziale potestativo alternativo alla risoluzione per eccessiva onerosità contro l'eccezionale aggravio della prestazione per eventi straordinari, sulla base di due disposizioni: l'articolo 91 comma 1 del d.l. n. 18/2020 (c.d. “Cura Italia”) che aveva modificato l'articolo 3 d.l. n. 6/2020, inserendo al comma 6-bis la disposizione secondo cui il rispetto delle misure di contenimento era valutato ai fini dell'esclusione della responsabilità da inadempimento e della correlativa obbligazione risarcitoria previste dagli articolo 1218 e 1223 c.c. e della inapplicabilità di decadenze e penali; gli articolo 1374 e 1375 c.c., relativi il primo alla integrazione del contratto e il secondo alla sua esecuzione secondo buona fede.   La Corte ritiene inammissibili queste censure, poiché il Tribunale di Torino, con decisione insindacabile in sede di legittimità, aveva semplicemente ritenuto non provati i presupposti di fatto (ovvero l'incidenza delle misure sull'attività e la contrazione dei ricavi) ed escluso la violazione da parte dei locatori dell'obbligo di comportarsi secondo buona fede, atteso che la conduttrice non aveva avanzato richieste di riduzione dei canoni. Il principio di diritto enunciato dalla Corte Ciononostante, la Cassazione affronta le questioni anche nel merito, giudicandole infondate ed enunciando un importante principio di diritto. Secondo la Corte, infatti, in tema di contratti ad esecuzione continuata, periodica o differita, il decreto c.d. “Cura Italia” prevede solo la non imputabilità dell'inadempimento dovuto all'impedimento imprevedibile delle misure anti-Covid, ai soli fini di escludere l'obbligo di risarcimento del danno e non al fine di riconoscere il diritto potestativo giudiziale di ottenere la riduzione della prestazione, così come tale diritto non è ricavabile dagli articolo 1374 e 1375 c.c. L'unico rimedio previsto dalla legge contro l'imprevedibile aggravio della prestazione rispetto al valore dell'altra, stante la tipicità delle azioni dirette ad ottenere sentenze costitutive prevista dall'articolo 2908 c.c., è quindi la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta (articolo 1467 c.c.) e, in tal caso, solo la parte contro cui sia domandata la risoluzione può chiedere di ridurre il contratto ad equità, in forza del principio di conservazione del contratto, per ripristinare l'equilibrio originario delle prestazioni, analogamente a quanto previsto per il contratto annullabile per errore (articolo 1432 c.c.) e per il contratto rescindibile (articolo 1450 c.c.). Il potere riduzione ad equità del contratto, pertanto, non spetta alla parte onerata, che può chiedere la riduzione ad equità della prestazione soltanto nel caso di contratto a titolo gratuito, così come previsto dall'articolo 1468 c.c. Nessun inadempimento da parte del locatore Ma la Corte di Cassazione si spinge oltre e confuta anche l'ulteriore tesi della conduttrice, secondo cui la richiesta di riduzione sarebbe fondata anche sull'articolo 1464 c.c. (impossibilità parziale della prestazione) e sull'articolo 1460 c.c. (eccezione di inadempimento). Il Supremo Collegio, pur ritenendola una inammissibile modifica della domanda per essere stata introdotta nella memoria illustrativa depositata prima dell'udienza, ne confuta la fondatezza, rilevando che le misure restrittive non hanno determinato un inadempimento del locatore, né una impossibilità parziale della sua prestazione, non avendo inciso sull'uso dei locali commerciali, ma hanno comportato la limitazione dell'attività svolta dalla conduttrice, determinando una sproporzione fra le prestazioni, tutelabile appunto con la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Presidente Frasca – Relatore Spaziani Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza emessa il 18 ottobre 2024 la Corte di appello di Bologna ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto nell'interesse di Bo.Pa. che, con sentenza emessa dal Tribunale di Bologna, era stato condannato alla pena di mesi sette di arresto e 2.000 Euro di ammenda in relazione al reato di cui all'articolo 186, co. 1 e 2, lett. c), e co. 2 bis del D.Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 per essersi posto alla guida di un veicolo in stato di ebbrezza alcolica (1,54 g/l alla prima prova e 156 g/l alla seconda), con l'aggravante di avere provocato un incidente stradale. La Corte ha ritenuto l'appello inammissibile ai sensi dell'articolo 591, co. 1, lett. c), cod. proc. pen. per la mancata osservanza dell'articolo 581 cod. proc. pen. ritenendo i motivi di gravame privi di specificità rispetto all'apparato argomentativo posto a fondamento del giudizio di responsabilità, ritenuto esaustivo. 2. Avverso l'ordinanza è stato proposto ricorso nell'interesse del Bo.Pa. affidandolo a quattro motivi. 2.1 Con il primo si deduce violazione di legge e difetto di motivazione. Erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto le censure non chiare e pertinenti benché fosse stato dedotto che il tempo e la distanza intercorsi tra il sinistro e l'alcoltest rendessero dubbia l'effettiva condizione dell'imputato al momento dell'incidente, oltre che la mancata prova che l'imputato fosse alla guida dell'autoveicolo al momento dell'incidente stradale. 2.2 Con il secondo motivo si lamenta la violazione dell'articolo 581 cod. proc. pen., richiamando giurisprudenza di questa Corte secondo cui la specificità delle contestazioni deve essere valutata in termini flessibili purché consentano di comprendere le doglianze sollevate e procedere ad un esame nel merito. 2.3 Con il terzo motivo la difesa si duole della violazione del principio del giusto processo e del diritto al doppio grado di giudizio. La Corte territoriale, anziché esaminare nel merito le questioni poste, ha respinto per motivi formali e infondati;, le censure mosse, anche in violazione della giurisprudenza della CEDU che favorisce l'accesso al giudice superiore per riesaminare il caso in appello quale garanzia del diritto di difesa. 2.4 Con il quarto motivo la difesa lamenta l'erronea valutazione dell'elemento soggettivo e del nesso di causalità7 avendo la Corte territoriale omesso di procedere ad un accertamento puntuale circa il ruolo dell'imputato al momento del sinistro e il nesso causale tra lo stato di ebbrezza e l'incidente stradale che non risulta provato nel caso di specie. 3. Il P.G., in persona del sostituto procuratore Silvia Salvadori, ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo dichiararsi inammissibile il ricorso. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Questa Corte, a Sezioni Unite, ha affermato il principio in virtù del quale l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi allorquando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata e che l'onere di, specificità a carico dell'impugnante è direttamente proporzionale alla specificità con la quale le predette ragioni sono esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U. n. 8825 del 27/10/2016). In altri termini, la specificità che deve caratterizzare i motivi di appello, seppur valutata alla luce del principio del favor impugnationis , deve, comunque, contrapporre alle ragioni poste a fondamento della decisione impugnata, argomentazioni che attengano agli specifici passaggi della motivazione della sentenza ovvero concreti elementi fattuali pertinenti a quelli considerati dal primo giudice, e non può quindi limitarsi a confutare semplicemente il decisum del primo giudice con considerazioni generiche ed astratte (così Sez. 6, n. 37392 del 2/7/2014, Alfieri, Rv. 261650 in un caso in cui l'imputato, condannato per il reato - commesso in carcere - previsto dall'articolo 337 cod. pen., aveva chiesto il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, l'esclusione della recidiva e l'applicazione del minimo della pena, limitandosi a delineare una generica ed indistinta situazione di difficoltà e di disagio patita nell'ambiente carcerario). È stato affermato che il giudice di appello, a seguito della modifica all'articolo 581 cod. proc. pen. introdotta dalla legge 23 giugno 2017 n. 103 può dichiarare l'inammissibilità dell'impugnazione solo quando i motivi difettino di specificità o non siano validamente argomentati o, ancora, quando non affrontino la motivazione posta a fondamento della sentenza impugnata ma non quando siano ritenuta idonei, anche manifestamente, a confutare l'apparato motivazionale (Sez. 4. n. 36533 del 15/09/2021, Rv. 281978 - 01; Sez. 5, n. 11942 del 25/02/2020 Caruso Rv. 278859; conf. Sez. 5, n. 34504 del 25/5/2018, Cricca, Rv. 273778). L'articolo 581 cod. proc. pen., così come novellato dall'articolo 1, co. 55, della legge 23 giugno 2017 n. 103 (a decorrere dal 3 agosto 2017) prevede, a pena di inammissibilità, che, nell'atto di gravame, l'appellante indichi, con enunciazione specifica, i capi ed i punti della decisione che intende impugnare (oltre che i suoi estremi identificativi), le richieste avanzate al giudice dell'appello e i motivi in fatto e diritto che sostengono tali richieste. 3. Secondo il ricorrente, la Corte territoriale non avrebbe fatto buon governo dei principi che hanno ispirato la riforma in quanto si sarebbe limitata a una mera riproposizione degli argomenti sui quali il Tribunale è pervenuto ad un giudizio di responsabilità. La Corte territoriale, dal canto proprio, rileva che sarebbe stata prospettata una ricostruzione alternativa dei fatti senza indicare le fonti di prova da cui dovrebbe dedursi. Dall'esame dell'atto di appello proposto nell'interesse del Bo.Pa. si ricava che, quanto al motivo sulla responsabilità, era stato dedotto che l'accertamento mediante etilometro era avvenuto a distanza siderale . Ciò in quanto l'incidente era avvenuto a C e il controllo era avvenuto a Imola e che a fronte del sinistro avvenuto alle 17,00, l'accertamento era stato eseguito alle 18,44, quindi dopo due ore e che non sarebbe stato provato che il Bo.Pa. si trovasse alla guida dell'autovettura. La difesa, non si è limitata a formule di stile ma ha posto, sia pure reiterandoli rispetto al precedente grado di giudizio, argomenti finalizzati a ottenere una pronuncia assolutoria. Sul punto, questa Corte di legittimità ha affermato che il requisito della specificità dei motivi di appello risulta soddisfatto anche in caso di riproposizione della medesima questione interpretativa, pur in assenza di elementi di novità, sempre che risulti pertinente al contenuto della decisione impugnata e tenda a una rivalutazione della quaestio iuris da parte del giudice superiore (Sez. 1, n. 20272 del 16/06/2020 Bellocco Rv. 279369). 4. Nel caso in esame era certamente inammissibile il motivo in punto di dosimetria della pena, laddove a fronte di una motivazione del giudice di primo grado che aveva fondato il discostarsi dal minimo edittale sulla negativa personalità dell'odierno ricorrente il motivo di appello in punto di dosimetria della pena si palesa del tutto aspecifico e privo di confronto con il provvedimento impugnato, in aperto contrasto con le già richiamate Sezioni Unite Galtelli del 2017. 5. Quanto ai restanti motivi, il provvedimento impugnato si palesa illogico e contraddittorio perché ritiene le censure mosse affette da genericità, salvo riprendere punto per punto l'intero percorso motivazionale seguito dalla sentenza impugnata, confrontandolo con i motivi di appello e deducendone la mancata adeguata confutazione e il mancato confronto critico con gli argomenti spesi dal primo giudice. Così i giudici di appello hanno respinto la tesi della distanza di tempo intercorsa tra il sinistro e l'esecuzione dell'alcoltest; del mancato accertamento che il prevenuto si trovasse alla guida dell'autovettura, della insussistenza della circostanza aggravante dell'avere provocato un incidente stradale, del mancato riconoscimento della condizione di non punibilità di cui all'articolo 131 bis cod. proc. pen. Tutto ciò rispondendo ai singoli motivi riconoscendone, all'evidenza, di fatto, la specificità e pertinenza critica rispetto al decisum di primo grado. Il difetto dia asepecificità e la pertinenza critica dei motivi, rispetto alle ragioni esposte nella sentenza impugnata, conducevano alla loro infondatezza, pur se in ipotesi manifesta, e quindi all'eventuale rigetto dell'appello, con la conferma della sentenza impugnata, ma non certo alla sua inammissibilità. Il giudizio sulla manifesta infondatezza dei motivi, infatti, non spetta, neppure con il novellato articolo 581 cod. proc. pen., al giudice dell'appello che può dichiarare l'inammissibilità, ai sensi della norma suddetta e in relazione alle ragioni di diritto ed agli elementi di fatto che ne sorreggano le richieste, solo quando gli stessi difettino di specificità e, dunque, quando non siano affatto argomentati o quando non affrontino la motivazione spesa nella sentenza impugnata, così peccando di genericità interna all'atto o esterna al medesimo ma non anche quando, come nel caso di specie, non siano ritenuti idonei a confutarne l'apparato motivazionale. 6. Alla luce di quanto detto la sentenza deve essere annullata per nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata e dispone trasmettersi gli atti alla Corte di appello di Bologna per l'ulteriore corso.