È legge il nuovo “pacchetto sicurezza”. All’interno delle sue assai eterogenee disposizioni, che toccano vari e disparati ambiti, si individuano taluni tratti ispiratori comuni che sembrano costituire il fondamento di un nuovo ordine sociale e di una nuova gerarchia dei valori costituzionali.
Si introducono più vasti spazi di criminalizzazione di comportamenti che si dichiarano “minacciosi” nei confronti della sicurezza ma che, in larga parte, sono solo forme di manifestazione di dissenso, in nome di un diritto penale sempre meno “minimo” e sempre più disponibile a colpire la mera disobbedienza e a reprimere il conflitto sociale, in nome di una “sicurezza” che da mezzo per l'esercizio pacifico dei diritti fondamentali rischia di diventare essa stessa un fine. Contenuti eterogenei, chiave interpretativa univoca Il 10 giugno scorso è entrata in vigore la legge n. 80/2025, di conversione in legge del decreto-legge 11 aprile 2025, n. 48, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell'usura e di ordinamento penitenziario”. L'utilizzo dello strumento del decreto-legge per introdurre nell'ordinamento molte ed assai eterogenee norme in materia di pubblica sicurezza, in un contesto in cui da oltre un anno un disegno di legge avente identico contenuto era in discussione in Parlamento, ha suscitato infuocate polemiche politiche e notevoli perplessità tra gli studiosi. L'abuso della decretazione d'urgenza, sia sotto il profilo del suo impiego al di fuori dei “casi straordinari di necessità e urgenza” previsti all'articolo 77 della Costituzione, sia sotto quello del difetto di omogeneità delle norme ivi contenute, è male antico, che nel presente caso si è manifestato in tutta la sua clamorosa evidenza, e che potrebbe agevolmente condurre, anche in tempi brevi, a una dichiarazione complessiva di illegittimità costituzionale dell'intero “pacchetto” – indipendentemente dal suo contenuto – per il clamoroso vizio formale in cui il legislatore è incorso, se solo la Corte Costituzionale si assumesse la responsabilità di “prendere sul serio” i limiti di ammissibilità del decreto-legge stabiliti dall'articolo 77, come già è accaduto anche recentemente (cfr. in particolare da ultimo la sent. n. 146 del 2024, ove è stato stabilito che è incostituzionale il decreto-legge adottato in assenza degli straordinari casi di necessità e urgenza che la Costituzione richiede, anche a tutela della forma di governo parlamentare e dei corretti equilibri tra Governo e Parlamento, che vietano l'ingiustificato sacrificio dei diritti delle minoranze politiche; inoltre è in ogni caso incostituzionale il decreto-legge privo di omogeneità, in quanto esso travalica i limiti imposti alla funzione normativa del Governo e sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo). Non è su questo sia pur decisivo aspetto, tuttavia, che preme soffermare l'attenzione. I contenuti del decreto convertito in legge sono, come si diceva, vari ed eterogenei, e disciplinano questioni assai diverse tra loro. Le norme vanno dal contrasto al terrorismo internazionale alla modifica delle norme sui beni sequestrati alle mafie; dalle misure di protezione dei collaboratori e dei testimoni di giustizia alla revoca della cittadinanza; dalla sicurezza urbana alla tutela del personale delle forze di polizia e dei vigili del fuoco; dal contrasto all'occupazione arbitraria di immobili destinati a domicilio altrui alla proibizione della coltivazione e della vendita della cannabis c.d. light; da una serie di interventi sull'ordinamento penitenziario, alla possibilità di disporre la detenzione per le donne incinte o con figli di meno di un anno; dall'attività di informazione per la sicurezza agli obblighi di identificazione degli utenti dei servizi di telefonia mobile. Nell'impossibilità di analizzare una per una le singole disposizioni di un “pacchetto” così vasto e composito, è opportuno concentrarsi, ad una prima lettura, sul significato complessivo che sembra potersi trarre dall'analisi di alcuni specifici aspetti che sembrano conferire una particolare “cifra simbolica”, e comunque un complessivo significato politico, all'intera operazione. Mi riferisco in particolare: all'articolo 11, che prevede la nuova circostanza aggravante comune dell'“avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità pubblica e individuale, contro la libertà personale e contro il patrimonio, o che comunque offendono il patrimonio, commesso il fatto all'interno o nelle immediate adiacenze delle stazioni ferroviarie e delle metropolitane o all'interno dei convogli adibiti al trasporto di passeggeri”; all'articolo 13, che estende i casi di applicazione della misura di prevenzione del divieto di accesso alle aree ove sorgono infrastrutture di trasporto e alle loro pertinenze, e che estendono ai trasgressori l'applicabilità della c.d. flagranza differita; all'articolo 14, che reintroduce la repressione penale del c.d. “blocco stradale o ferroviario” attuato “mediante ostruzione fatta col proprio corpo”, nonché un'apposita aggravante “se il fatto è commesso da più persone riunite”; all'articolo 19, che introduce una serie di aggravanti al delitto di violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, tra cui quella che punisce più severamente il fatto se commesso “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”; all'articolo 20, che introduce la nuova fattispecie di reato di lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni; all'articolo 26, che introduce una serie di misure repressive della disobbedienza all'interno degli istituti penitenziari, tra cui l'aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi previsto all'articolo 615 c.p., se commesso dentro un carcere, o il nuovo delitto di rivolta (articolo 615 bis c.p.), inteso come un complesso di atti di “resistenza” (anche passiva) all'esecuzione degli ordini impartiti, consistenti in “condotte che impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza”, con pene più gravi per i promotori; all'articolo 27, finalizzato a reprimere ogni forma di protesta da parte di gruppi di stranieri irregolari trattenuti nei centri di trattenimento ed accoglienza, ivi compresa la resistenza passiva, intesa anche in questo caso come complesso di “condotte che impediscono il compimento degli atti dell'ufficio o del servizio necessari alla gestione dell'ordine e della sicurezza”. Se si getta uno sguardo d'insieme sui principi ispiratori che informano tali disposizioni, sembra emergere una chiave interpretativa assai chiara. Si tratta di misure complessivamente ispirate dal medesimo principio ordinante: in nome di una presunta necessità di “tutela della sicurezza”, e in definitiva in nome della volontà di affermare un generale obiettivo di “mantenimento dell'ordine sociale”, si ritiene non solo concretamente possibile (in quanto non contrario ad alcun principio costituzionale), ma addirittura desiderabile, arrivare a sacrificare o comunque limitare l'esercizio di taluni diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Sono norme di alto valore simbolico, che presuppongono una nuova gerarchia dei valori di riferimento. Tali nuovi valori vengono suggeriti alla società come il fondamento di un ordinamento diverso da quello attuale, idoneo a mettere in discussione stabilizzati assetti costituzionali e consolidati equilibri che un tempo si ritenevano anche culturalmente non più discutibili. Va detto per inciso che resta poi da vedere se a questa enorme carica simbolica corrisponderà anche una effettiva idoneità pratica a perseguire davvero gli obiettivi apparentemente posti alla base della formulazione di tali norme. Si tratta di un problema che a sua volta impatta direttamente sulla loro legittimità costituzionale: il diritto è strumento pratico, che deve servire a offrire risposte effettive a problemi concreti, e se gli specifici congegni normativi di volta in volta escogitati, oltre a presentare problemi di compatibilità in sé con taluni principi costituzionali, sono anche inidonei a realizzare i fini che individuano, essi sono in ogni caso illegittimi in quanto sacrificano irragionevolmente i suddetti principi costituzionali in nome di un obiettivo che – se anche giustificasse in astratto la compressione di tali principi – non potrebbe essere raggiunto. Si badi bene: non è in sé e per sé vietato porre limiti all'esercizio di un diritto fondamentale. Tutti i diritti fondamentali costituzionalmente garantiti vanno opportunamente bilanciati con altri diritti e altri principi, a loro volta costituzionalmente protetti. Tuttavia, proprio quando si va a incidere su diritti costituzionali, ogni limitazione deve essere valutata nella sua ragionevolezza e nella sua proporzionalità. E il primo indice di irragionevolezza e di sproporzione è proprio l'eccesso di valore “simbolico”, l'attrito che si crea tra il messaggio propagandistico che si intende lanciare a partire da una determinata lettura politica della realtà e l'impatto reale che la norma implica, ossia l'effetto pratico che essa è davvero in grado di produrre. Tutela della sicurezza e repressione del dissenso. L'ordine pubblico come fine a sé stante? Lo “spirito” che sembra animare l'insieme delle norme sopra ricordate è la volontà di introdurre nuovi e più vasti spazi di criminalizzazione di comportamenti che si dichiara essere “minacciosi” nei confronti della sicurezza ma che, in larga parte, costituiscono mere forme di manifestazione di dissenso, soprattutto in forma collettiva. Si tratta di comportamenti usualmente tenuti nell'ambito del normale esercizio di diritti costituzionali (in particolare della libertà di riunione e della libertà di manifestazione del pensiero), e rispetto ai quali, quindi, occorre misurare con grande attenzione fino a che punto la loro repressione possa ritenersi consentita dalle norme costituzionali poste a protezione di quei diritti. La tutela della sicurezza pubblica è sicuramente uno strumento indispensabile al fine di garantire a tutti l'esercizio pacifico dei diritti individuali e collettivi di partecipazione e di manifestazione. La sicurezza pubblica, in altre parole, è un mezzo per la garanzia della conservazione del pluralismo sociale. Ciò che è vietato è trasformare la sicurezza pubblica in un fine a sé stante. Lo Stato costituzionale presuppone e protegge una società pluralistica, differenziata, disuguale, conflittuale e contemporaneamente aperta, democraticamente orientata al confronto, al dibattito pubblico, alla partecipazione. La Costituzione espressamente esclude che si possa accreditare un'idea di popolo come entità omogenea dal punto di vista culturale e politico. E dunque l'integrazione sociale, nei contesti di accentuato (e crescente) pluralismo che caratterizzano le società contemporanee, non può essere un dato presupposto, al massimo un obiettivo da perseguire. Ciò significa che il dissenso, e financo il conflitto sociale, sono ampiamente e complessivamente difesi e protetti. Perché essendo la società pluralista, la Costituzione promuove e protegge ogni attività sociale che preservi e mantenga nel tempo tale struttura. E lascia che il conflitto sociale produca da solo i suoi equilibri, salvi i limiti esterni introdotti affinché esso non degeneri in atti di violenza, producendo disgregazione sociale. Per il resto il dissenso, in qualsiasi forma espresso, e da chiunque, è non solo lecito, ma costituzionalmente garantito. Ora, la maggior parte delle norme contenute nella legge n. 80/2025, e sicuramente quelle che sono state precedentemente individuate, pare potenzialmente idonea a minacciare ingiustificatamente libertà civili e politiche strettamente connesse alla manifestazione del dissenso, specie nei luoghi, e tra le persone, ove più acutamente emergono disagio, diseguaglianza, povertà, e dove pertanto è più probabile che tale dissenso deflagri in pubbliche manifestazioni di protesta. Il dissenso, tuttavia, è protetto proprio e principalmente in quanto forma di accesso al dibattito pubblico delle richieste di emancipazione delle minoranze sociali, dalla Costituzione non solo presupposte, ma specificatamente tutelate e difese, anche (anzi soprattutto) quando si esprimono attraverso atti di protesta e contestazione. Nuovi reati e nuove circostanze aggravanti: il pluralismo sociale ridotto a lotta alla devianza L'articolo 14 reintroduce il reato di “blocco ferroviario”, che sia affianca al “blocco stradale” a sua volta già reintrodotto nel 2018, prevedendo che esso sia punibile penalmente anche quando effettuato mediante mera “ostruzione con il proprio corpo”, e aumenta considerevolmente le pene qualora tali blocchi siano effettuati “da più persone riunite”. Il reato di blocco stradale, introdotto nell'ordinamento penale nel 1948, si applicava solo ed esclusivamente a chi ostacolasse strade ordinarie e ferrate apponendo dei blocchi. Mai, fino ad oggi, era stata prevista una sanzione penale nei confronti dei manifestanti che si limitino ad opporre il proprio fisico al passaggio di treni o auto nel corso di una protesta. Peraltro, l'originaria fattispecie che puniva la condotta di chi abbandonasse sulle strade e sui binari oggetti atti a bloccare la circolazione, era stata oggetto, fin da subito, di così aspre contestazioni per il suo carattere di per sé irragionevolmente repressivo del dissenso politico, da essere dapprima sostanzialmente depotenziata, con una lunga serie di provvedimenti di amnistia, per poi essere infine oggetto di depenalizzazione nel 1999. Tutto ciò non era affatto casuale. L'occupazione di vie pubbliche e di strade ferrate costituisce storicamente un tipico strumento utilizzato da chi manifesta dissenso, in occasione di scioperi o di cortei di protesta, specie da parte di lavoratori in lotta per la difesa del loro posto di lavoro. Essa è da tempo considerata una modalità di esercizio di diritti fondamentali, dalla libertà di riunione al diritto al lavoro (e al connesso diritto di sciopero finalizzato alla difesa della sua effettività). In tale contesto, la depenalizzazione del reato di blocco stradale del 1999 era stata univocamente interpretata come applicazione del principio del c.d. “diritto penale minimo”, che riserva le fattispecie criminose alle sole condotte lesive di diritti e valori primari dell'individuo. Nel 2018, del resto, il reato di blocco stradale era stato reintrodotto, ma con espressa esclusione dell'ostruzione effettuata col solo corpo (per la quale si era prevista una semplice – e già di per sé del tutto discutibile – sanzione amministrativa). Oggi, stabilendo la repressione penale della mera resistenza passiva, si pretende di colpire proprio quei comportamenti non violenti, di per sé privi di effettiva offensività nei confronti di beni primari, attraverso i quali si esprime pacificamente il conflitto sociale. Gli articoli 11, 13, 19, 26, 27 introducono una serie di aggravanti di luogo e di contesto, prevedendo che il medesimo fatto sia da considerare più grave se commesso in determinati luoghi, che sono quasi sempre quelli ove più frequentemente si consumano situazioni di disagio o di degrado: dentro un carcere, o in un centro di trattenimento per stranieri, o nelle periferie urbane, o nelle zone prospicenti le stazioni ferroviarie. Si prevede un'aggravante specifica per chi commette un fatto di resistenza “al fine di impedire la realizzazione di infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici”: ossia si pretende di colpire non soltanto l'atto in sé (la resistenza), ma anche – e più gravemente – la finalità dell'atto medesimo, qualificando come intrinsecamente più grave la presunta “ribellione” di una minoranza dissenziente alla decisione, assunta da parte di una maggioranza, di procedere alla realizzazione di un'opera pubblica. Il che non significa, ovviamente, che tale maggioranza politica non abbia il pieno diritto di imporre la sua decisione: ciò che appare fortemente discutibile è che a protezione di tale decisione si debba far luogo alla previsione di un più grave reato per chi dissente e tale dissenso manifesti pubblicamente. L'articolo 20 introduce una nuova fattispecie delittuosa, consistente nelle “lesioni personali a un ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni o del servizio”. Anche in questo caso, non è in discussione l'atto in sé ma la sua finalità: l'ufficiale di pubblica sicurezza nell'adempimento delle sue funzioni, nel corso di manifestazioni pubbliche ove si esercita la libertà di opinione delle minoranze politiche e sociali, è solitamente colui che sta eseguendo un'attività di contenimento di tali pubbliche manifestazioni per conto dell'autorità politica che sovrintende alla gestione dell'ordine pubblico, ossia del governo. La più severa punizione di tali condotte offre obiettivamente una più incisiva – e irragionevole – protezione del medesimo bene giuridico, per il solo fatto che quel bene giuridico sia stato leso in occasione di attività di repressione del dissenso politico ordinate dal governo in carica. Su tutto ciò è bene essere particolarmente chiari, perché si tratta della pietra angolare dello Stato costituzionale. La divergenza politica e sociale è un valore protetto. E qualunque norma repressiva che sia funzionale a rendere più difficile l'espressione della divergenza politica e sociale è contraria alle “forme” e ai “limiti” di cui parla l'articolo 1. Invece, le norme sopra indicate sembrano proprio funzionali a penalizzare condotte di tal genere, che vengono in tal modo additate come comportamenti propri di un deviante, di un avversario (anzi di un “nemico”) della società, nella logica dei “buoni” e dei “cattivi” cittadini, degli amici e dei nemici del “popolo”, mentre costituiscono per lo più legittime forme di manifestazione del pluralismo sociale. La Costituzione presuppone che i subalterni, i marginali, gli “ineguali” che lottano per la propria dignità e per il riconoscimento della propria autodeterminazione siano protagonisti (in quanto “persone”) di una società che li ricomprende, e non abusivi di un supposto “popolo” che li espelle. E proprio il conflitto è lo strumento attraverso cui tale emancipazione può essere promossa, e auspicabilmente realizzata e riconosciuta, in un contesto che accetta la complessità del reale e rende vivo e vitale il pluralismo. E questo lo fa perché solo la difesa di un sano pluralismo conflittuale preserva la società dalla guerra civile, ossia da guai assai peggiori. Il pluralismo conflittuale custodisce e alimenta la coesione sociale; la protezione securitaria di taluni valori “contro” altri la fa esplodere. Se si nega il dissenso e il conflitto e se ne reprimono le forme di manifestazione, si spingerà ogni minoranza, ogni gruppo sociale o politico che si trovi in una situazione di svantaggio sociale, a non sentirsi più legato da alcun patto sociale, a non percepire più alcuna convenienza all'integrazione. Le Costituzioni del secondo dopoguerra sono state scritte per preservare le società pluralistiche dai drammi della disgregazione e della contrapposizione violenta che avevano deflagrato in Europa spingendola sull'orlo dell'autodistruzione. Le norme sopracitate, nel loro complesso, sollevano dunque forti dubbi rispetto alla tenuta di fondamentali diritti posti dalla Costituzione ad espresso presidio della generale e indefettibile libertà di dissentire pubblicamente dalle decisioni di chi esercita il potere. A cominciare dalla libertà di riunione e di manifestazione sindacale e politica, nonché dalla libertà di manifestare pubblicamente il proprio pensiero e di incidere, in tal modo, sul libero sviluppo del dibattito pubblico. Libertà di riunione e libertà di manifestazione del pensiero come possibili parametri di incostituzionalità delle nuove norme La libertà di riunione, come è stato autorevolmente sottolineato, è il diritto a «stare fisicamente insieme con altri» (secondo la celebre definizione di Alessandro Pace) con lo specifico fine non soltanto di manifestare individualmente, ma soprattutto di condividere con altri e di comunicare all'opinione pubblica il proprio pensiero, contribuendo così a “costruire” il dibattito pubblico. Chi si riunisce, sottolinea Pace, ha pertanto il diritto di «contrapporsi, anche fisicamente, ai detentori del potere nella discussione dei problemi, nella elaborazione collettiva di proposte politiche, e soprattutto, nelle manifestazioni e nei cortei di protesta», proprio perché è in tal modo che, in una società pluralistica, si rispetta e si valorizza la diversità di opinioni, di idee, di punti di vista, tutelando il diritto delle minoranze di “pensarla diversamente” dalle maggioranze e di esercitare la propria legittima opposizione alle loro decisioni. La libertà di riunione è dunque strettamente funzionale all'esercizio effettivo di altri fondamentali diritti di libertà e principi costituzionalmente protetti (dalla libertà di opinione, al pluralismo politico, sindacale, religioso, e così via). Per tale ragione, le specifiche “finalità” per le quali ci si riunisce non rilevano, e non devono rilevare, per la Costituzione, la quale si limita a richiedere un vincolo di mezzi. La previsione dell'articolo 17 della Costituzione, a norma del quale le riunioni devono svolgersi inderogabilmente in forma pacifica, è funzionale a evitare – quale che sia il fine per il quale di volta in volta ci si riunisce e quale che sia la forma che tale riunione di volta in volta assuma – che la riunione degeneri in disordine violento, ossia che sia concretamente ed effettivamente violato il c.d. “ordine pubblico materiale”. Orbene, a me pare che le sopracitate disposizioni che stabiliscono specifiche aggravanti di luogo e di contesto connesse a reati commessi nel corso di pubbliche manifestazioni di dissenso, o che addirittura prevedono nuovi reati diretti a reprimere tout court tali manifestazioni (come nel caso invero clamoroso delle proteste nelle carceri e nei centri di trattenimento per stranieri) siano essenzialmente dirette a garantire non tanto la tutela dell'ordine pubblico materiale (ossia la mera assenza di violenza nello svolgimento di una riunione o nell'espressione collettiva di un'opinione per altro verso in ogni caso del tutto lecita), bensì piuttosto quella di un più vago e minaccioso ordine pubblico ideale. Non si intende affatto preservare il diritto a manifestare liberamente, isolando i violenti dalla massa dei pacifici. Si intende invece impedire anche ai pacifici di manifestare (pacifici essendo, in tutta evidenza, gli atti di resistenza passiva), in nome della tutela dello status quo politico-sociale. Lo stesso discorso vale per la libertà di manifestazione del pensiero. Anch'essa è strettamente funzionale alla difesa del pluralismo, della partecipazione, dell'esercizio del metodo democratico, del dissenso. La sua protezione, pertanto, è strettamente connessa a quella della libertà di riunione, che costituisce una delle più efficaci modalità organizzative funzionali alla espressione collettiva e alla pubblica condivisione di opinioni alternative a quelle maggioritarie o dominanti. L'una e l'altra, così come la libertà sindacale, la libertà di associarsi in partiti e di concorrere in tal modo a determinare le singole scelte politiche, la libertà religiosa, e altre, testimoniano complessivamente di una esplicita ostilità della Costituzione nei confronti di qualsiasi politica di prevenzione e di repressione della mera disobbedienza. In conclusione: difesa dell'ordine pubblico o difesa dell'ordine costituito? Molte delle norme sopra ricordate, in conclusione, paiono avere l'obiettivo di incentivare una generale delegittimazione del dissenso, attraverso un'interpretazione ampia e dilatata (e quindi incostituzionale) del limite della sicurezza e dell'ordine pubblico e mediante l'attribuzione di un contenuto di intrinseca pericolosità a comportamenti che incidono non sulle modalità di esercizio delle libertà costituzionali, ma sul contenuto di queste ultime, di cui si giustifica così la repressione. E si finisce per far coincidere la difesa dell'“ordine pubblico” con la difesa dell'“ordine costituito” (nel senso degli assetti politici ed economici costituiti). Un ordine costituito fondato sui principi che chi esercita – pro tempore – la funzione di indirizzo politico ritiene indispensabili per la sopravvivenza del “suo” ordinamento. Salvo che l'ordinamento non è affatto “suo”. Esso è anche di tutti quei dissidenti che legittimamente lo combattono, e che aspirano a cambiarlo, perché proprio questo è il senso dello Stato costituzionale pluralista: la libera e permanente disponibilità e contendibilità del potere di determinazione dell'indirizzo politico. La democrazia pluralistica presuppone partecipazione, non mera obbedienza. Ed esige di conseguenza un uso non violento del diritto. Anzi, la Costituzione è nata per questo, per depotenziare la carica di violenza insita nella (più antica) idea del diritto come mero strumento in mano a chi detiene il monopolio della forza legittima. Le libertà sono espressione del desiderio di promuovere, di epoca in epoca, nuovi assetti di potere, sempre rinnovabili e ridiscutibili. Anche in questo aspetto andrebbero tutelate: in quanto generatrici di dissenso, di conflitto, e pertanto garanzia permanente di conservazione del carattere eminentemente pluralistico della società, pronta in ogni occasione a cambiare i propri indirizzi politici entro un comune e condiviso quadro di principi costituzionali. Le norme più significative del “pacchetto sicurezza” appena entrato in vigore, anche se lo facessero solo simbolicamente, mi pare minaccino gravemente la tenuta complessiva di questo meta-principio, presupposto indefettibile per la sopravvivenza stessa dello Stato costituzionale.