Emotrasfusione di sangue infetto: la responsabilità omissiva del Ministero e il criterio di calcolo del “danno futuro”

La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione affronta una tematica particolarmente complessa: l’accertamento della responsabilità del Ministero della Salute per i danni cagionati dall’emotrasfusione di sangue infetto nei confronti di un paziente che ha, di conseguenza, contratto il virus dell’Epatite C, soffermandosi – anche – sulla tecnica di calcolo del “danno futuro”.

I termini della contesa La pratica medica dell'emotrasfusione è complessa e richiede una particolare attenzione della struttura sanitaria. Il caso in esame attiene a un caso di contrazione del virus dell'Epatite C avvenuta nel 1979 a seguito di emotrasfusione di sangue infetto: nelle vicende giudiziarie era stato accertato che delle tredici sacche di plasma trasfuso, una di esse proveniva da donatore risultato positivo all'infezione HCV e altre due da donatori che avevano rifiutato di sottoporsi a controlli. Si è giunti alla definizione dei giudizi di merito nel 2020: la Corte d'Appello, pur riconoscendo la sussistenza della responsabilità del Ministero della Salute, aveva ritenuto che il danno dovesse ritenersi ampiamente coperto (compensatio lucri cum damno) dall'importo spettante a titolo di indennizzo ai sensi della Legge n. 210 del 1992.  A tal riguardo ha in particolare ritenuto che all'importo che risultava già ricevuto «a tutto l'agosto 2016», pari ad € 112.879,11, andassero sommati gli importi maturati e maturandi successivamente a quella data, presumibilmente pari, tenendo conto della speranza di vita media di ottant'anni e «delle future rivalutazioni», ad ulteriori € 343.658,73. Come noto, in capo al Ministero della Salute è cogente un obbligo di controllo e vigilanza in ordine alla pratica terapeutica dell'emotrasfusione, volto a evitare l'utilizzo di sangue infetto. Dalla violazione di tale obbligo discende la responsabilità del Ministero, che può essere fatta valere dai soggetti interessati: attraverso l'esercizio dell'azione amministrativa per l'ottenimento dell'indennizzo previsto dalla Legge 25 febbraio 1992, n. 210, recante la rubrica «Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati»; mediante l'azione di risarcimento del danno derivante dalla responsabilità extracontrattuale del Ministero da incardinare dinanzi al Tribunale Ordinario territorialmente competente.   Nella recente ordinanza emessa dalla Terza Sezione Civile della Cassazione, sollecitata da un ricorso del danneggiato e dal controricorso della struttura sanitaria, sono essenzialmente due i temi affrontati: la modalità di calcolo del c.d. “danno futuro” a seguito di contagio da emotrasfusione di sangue infetto; l'obbligo di vigilanza da parte del Ministero volto a prevenire eventi di emotrasfusione di sangue infetto.   Come si calcola il danno futuro in caso di emotrasfusione di sangue infetto? Il quesito è prettamente tecnico. Per il ricorrente, l'errore nella decisione si fonda sul fatto che la Corte d'Appello avesse utilizzato, con motivazione apparente e illogica, una nozione di comune esperienza inesistente per determinare l'aspettativa di vita del ricorrente, basandosi sui dati statistici relativi alla vita media del cittadino italiano, senza considerare la specifica condizione di salute del ricorrente affetto da HCV. A onor del vero, per la Cassazione l'errore di calcolo c'è, ma non è quello denunciato nel ricorso. In termini preliminari, il Collegio evidenzia come la Corte di cassazione possa accogliere un ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, sempre che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l'esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'introduzione nel giudizio d'una eccezione in senso stretto. Nella specie il motivo che deduce l'erronea postulazione di un elemento del calcolo del danno futuro obbliga la Cassazione a valutare la correttezza della tecnica di calcolo utilizzata dal giudice di merito, al fine dell'applicazione corretta del diritto finanche «se la corretta regola da applicare non è quella indicata dalla parte ma un'altra, fermo restando che tale autonomo vaglio è operato alla luce dei dati oggettivi quali pacificamente emergenti dalla fattispecie così come accertata in sentenza». Ciò posto, dalla sentenza della Corte d'Appello emerge l'applicazione di una regola erronea (che non consiste tuttavia nella postulazione della speranza di vita media di ottanta anni), quanto: da un lato, nel comprendere nel reddito futuro anche ratei maturati successivamente al 2016 e che, dunque, alla data della decisione (15/12/2020), avrebbero dovuto considerarsi, se effettivamente riscossi, redditi già percepiti; dall'altro, nella mancata e invece necessaria attualizzazione del reddito futuro, ossia dei ratei effettivamente ancora non maturati alla data della decisione, attraverso l'applicazione di un coefficiente di capitalizzazione anticipata.   La compensatio opera in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l'effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni; ciò si verifica proprio nel caso dell'indennizzo previsto dalla legge corrisposto al danneggiato. Trattandosi di erogazione periodica detta esigenza rimarrebbe in buona parte insoddisfatta ove il defalco dall'entità del risarcimento spettante venisse limitato ai ratei già corrisposti al momento della liquidazione del danno, con esclusione di quelli futuri, volta che nella specie deve ritenersi già determinato ovvero determinabile il loro preciso ammontare. Ed è proprio qui si cela l'errore di calcolo: in appello, infatti, è stata operata la mera sommatoria di detti ratei, maggiorati per di più della prevedibile rivalutazione monetaria, con ciò finendo con il considerare come capitale già attualmente nella disponibilità dell'avente diritto quello che in realtà, afferma la Cassazione, «lo sarà solo nel tempo tra tot mesi e anni, il che attribuisce a tale capitale un valore effettivo ben maggior di quello che effettivamente esso ha (in virtù della regola plus dat qui cito dat), con il risultato di falsare il raffronto che occorre operare tra damnum e lucrum ai fini del calcolo in questione». Qual è – allora – la tecnica corretta? Per rendere omogenee le due poste occorre: procedere alla capitalizzazione anticipata di detti ratei; ciò si ottiene moltiplicando il reddito futuro per un coefficiente di costituzione delle rendite vitalizie, ovvero un numero idoneo a trasformare il valore d'una rendita percepibile per n. anni in un capitale di valore equivalente.    Il motivo di ricorso promosso dal danneggiato, seppure “riqualificato” dalla S.C., coglie nel segno. L'obbligo di vigilanza del Ministero La trasfusione di sangue infetto è avvenuta nel 1979. Il Ministero – a sua difesa – sostiene che: le disposizioni normative dell'epoca erano adeguate alle conoscenze scientifiche disponibili; fosse assente il nesso causale tra la condotta omissiva e l'evento dannoso, poiché all'epoca dei fatti il virus HCV non era conosciuto e non esistevano test diagnostici per identificarlo; pertanto, anche se fossero stati adottati i controlli disponibili, non avrebbero potuto prevenire il contagio.   Per la Cassazione, le difese sono prive di fondamento, atteso che il Ministero della Salute, in base ad una pluralità di fonti normative (per l'elenco esaustivo delle quali, tra le più recenti, la sentenza richiama Cass. civ., Sez. III, 13.07.2018, n. 18520), già all'epoca dei fatti era tenuto ad esercitare un'attività di controllo e di vigilanza in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, dacché risponde ex articolo 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi (nella sentenza sono citate alcune sentenze, tra cui l'importante Cass. civ., Sez. Un., 11.1.2008, n. 576) Dalle disposizioni normative sono chiari i poteri di vigilanza e controllo attribuiti al Ministero ed è dato incontrovertibile che fosse già ben noto, sin dalla fine degli anni '60-inizi anni '70, il rischio di trasmissione di epatite virale; la rilevazione (indiretta) dei virus era possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell'anti-HbcAgin (tra l'altro, all'epoca del contagio, questi controlli erano già obbligatori per legge). Nel confermare la responsabilità la Ministero, la Cassazione sostiene che non vi sia ragione di dubitare che nel 1979, epoca del contagio, fosse ben radicato il dovere di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati al fine di evitare o ridurre i rischi a tali attività connessi. La difesa del Ministero è priva di fondamento. In conclusione, la S.C. «cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia la causa alla Corte d'appello di L'Aquila, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità».

Presidente Rubino - Relatore Iannello Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all'articolo 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione dell'articolo 345, terzo comma, c.p.c., per avere la Corte di appello utilizzato quale prova dell'eccepito lucrum e per il calcolo della sua entità documenti depositati dal Ministero della Salute solo in grado di appello, violando il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova e di produzione di nuovi documenti in appello. 2. Con il secondo motivo egli deduce, ex articolo 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., violazione degli articolo 116, primo comma, 132, secondo comma, n. 4, c.p.c. e 111, settimo comma, Cost. per avere la Corte d'Appello utilizzato ai detti fini prove atipiche senza fornire una motivazione adeguata in ordine alla loro valutazione e apprezzamento. Tali sarebbero in particolare: la tabella riepilogativa Regione Abruzzo su indennizzo ex L. n. 10/1992 , il calcolo importo erogato per indennizzo ex L. n. 210/1992 , la stima indennizzo per i prossimi 30 anni (tutti documenti prodotti dal Ministero con la comparsa di costituzione e risposta in appello, sub all.ti 2, 4 e 5). Rileva che tali documenti sono privi di sottoscrizione e di specifiche indicazioni del soggetto beneficiario e sono anche contraddittori, dal momento che un documento indica che il ricorrente percepisce un'indennità di 8 categoria, mentre un altro indica la 7 categoria ed in modo diverso è anche indicata la data di decorrenza dell'indennizzo. 3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell'articolo 360, primo comma, num. 4, cod. proc. civ., nullità della sentenza per violazione dell'articolo 115, secondo comma, 132, second comma, n. 4, c.p.c. e 111, 7 comma, Cost. , per avere la Corte d'Appello utilizzato, con motivazione apparente e illogica, una nozione di comune esperienza inesistente per determinare l'aspettativa di vita del ricorrente, basandosi sui dati statistici relativi alla vita media del cittadino italiano, senza considerare la specifica condizione di salute del ricorrente affetto da HCV. 4. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, infine, nullità della sentenza ex articolo 360,1 comma, n. 4, c.p.c. per violazione dell'articolo 115, primo comma, c.p.c. consistita in travisamento di prove decisive . Lamenta che la Corte d'Appello abbia erroneamente ritenuto che le domande risarcitorie da riduzione della capacità lavorativa specifica e da perdita di chance non fossero state proposte nel giudizio di primo grado, atteso che l'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado era stato dichiarato dal Tribunale nullo per genericità della domanda con ordinanza depositata il 17/5/2011; il giudice aveva conseguentemente concesso termine per l'integrazione della domanda, tempestivamente e ritualmente operata con atto nel quale erano specificati i titoli sottesi alle pretese risarcitorie azionate e meglio descritte le stesse. Lamenta, inoltre, la mancata valutazione del contenuto di prove documentali prodotte in primo grado, determinanti per la prova della riduzione della capacità lavorativa specifica e della perdita di chances lavorative. Rileva al riguardo il ricorrente che con la memoria ex articolo 183, sesto comma, num. 2, c.p.c., depositata in primo grado in data 15/12/2011, egli aveva prodotto i contratti relativi ai lavori prestati in precedenza e anche tutte le dichiarazioni dei redditi nel tempo presentate, comprese quelle della moglie, che con l'aggravarsi della patologia e in conseguenza della riduzione del reddito dell'uomo, lo indicavano quale familiare a carico. 5. Con l'unico motivo del ricorso incidentale - rubricato assenza di responsabilità in capo al Ministero; violazione dell'articolo 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c.; violazione dell'articolo 112 c.p.c. per omessa pronuncia e dell'articolo 132, comma secondo, num. 4, cod. proc. civ. per motivazione meramente apparente; violazione e falsa applicazione delle norme distributive delle competenze in materia di controllo e somministrazione di emoderivati; violazione dell'articolo 2043 cod. civ.; difetto del nesso causale; insussistenza della responsabilità per omissione normativa - il Ministero della Salute sostiene che non può essere ritenuto responsabile per omissione normativa o per violazione dell'obbligo di vigilanza, in quanto le disposizioni normative dell'epoca erano adeguate alle conoscenze scientifiche disponibili; contesta, inoltre, la ritenuta esistenza di nesso causale tra la condotta omissiva e l'evento dannoso, poiché all'epoca dei fatti il virus HCV non era conosciuto e non esistevano test diagnostici per identificarlo; pertanto, anche se fossero stati adottati i controlli disponibili, non avrebbero potuto prevenire il contagio. 6. Sebbene la questione posta dal ricorso incidentale rivesta sul piano logico carattere prioritario e potenzialmente assorbente rispetto a quelle poste dai motivi del ricorso principale è dallo scrutinio di questi che occorre muovere. Ciò in base al principio, reiteratamente affermato nella giurisprudenza di questa Corte e cui questo Collegio intende dare continuità, secondo cui il ricorso incidentale proposto dalla parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, che investa questioni pregiudiziali di rito, ivi comprese quelle attinenti alla giurisdizione, o preliminari di merito, ha natura di ricorso condizionato, indipendentemente da ogni espressa indicazione di parte, e deve essere esaminato con priorità solo se le questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito, rilevabili d'ufficio, non siano state oggetto di decisione esplicita o implicita (ove quest'ultima sia possibile) da parte del giudice di merito; qualora, invece, sia intervenuta detta decisione, tale ricorso incidentale va esaminato dalla Corte di cassazione solo in presenza dell'attualità dell'interesse, sussistente unicamente nell'ipotesi della fondatezza del ricorso principale (v. ex aliisCass. Sez. U. 06/03/2009, n. 5456; Id. 04/11/2009, n. 23318; Id. 25/03/2013, n. 7381; Id. 30/11/2022, n. 35308; Id. 07/12/2023, n. 34318; v. anche Cass. 17/05/2017, n. 12321; Cass. n. 27304 del 2016; n. 23812 del 23/11/2016). Nella specie, la questione della sussistenza, sotto tutti i profili, di una responsabilità da fatto illecito del Ministero è stata, come visto, espressamente esaminata e decisa, in senso affermativo. 7. Il primo motivo del ricorso principale è inammissibile. L'eccezione di novità della produzione documentale non risulta essere stata fatta nel giudizio di appello, con la conseguenza che il ricorrente non ha la possibilità di prospettarla come motivo di ricorso per cassazione, giacché, pur essendo l'ipotetica violazione dell'articolo 345 cod. proc. civ. questione rilevabile d'ufficio e, dunque, anche dalla parte per tutta la durata del grado di appello, fino alla conclusionale, il non averla rilevata nemmeno con essa, in mancanza di previsione della rilevabilità in ogni stato e grado del processo, ha consumato il potere di farla valere. Ciò alla stregua dell'esegesi dell'articolo 157, terzo comma, cod. proc. civ. proposta da Cass. 30/08/2018, n. 21381, e qui condivisa, alla stregua della quale la regola dettata dall'articolo 157, terzo comma, c.p.c., secondo cui la parte che ha determinato la nullità non può rilevarla, non opera quando si tratti di una nullità rilevabile anche d'ufficio, ma tale inoperatività è correlata alla durata del potere ufficioso del giudice, sicché una volta che quest'ultimo abbia deciso la causa omettendo di rilevare la nullità, la regola si riespande, con la conseguenza che la parte che vi ha dato causa con il suo comportamento, ed anche quella che, omettendo di rilevarla, abbia contribuito al permanere della stessa, non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza, a meno che si tratti di una nullità per cui la legge prevede il rilievo officioso ad iniziativa del giudice anche nel grado di giudizio successivo (v. anche tra le numerose succ. conff. Cass. n. 14261 del 2024; n. 34543 del 2023; n. 30289 del 2023; n. 14392 del 2023; n. 5815 del 2023; n. 40996 del 2021; n. 26310 del 2021; n. 25743 del 2021; n. 21529 del 2021). 8. Il secondo motivo è parimenti inammissibile, con riferimento ad entrambi i profili di censura indicati in rubrica. In tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell'articolo 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato - in assenza di diversa indicazione normativa - secondo il suo prudente apprezzamento , pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato articolo 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (così, ex aliisCass. Sez. U. n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037). Anche il vizio di attività del giudice per inosservanza del dovere motivazionale è dedotto in termini totalmente estranei al relativo paradigma censorio, quale esplicato da Cass. Sez. U. 07/04/2014, nn. 8053 – 8054 ( la riformulazione dell'articolo 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'articolo 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'articolo 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione ). Devesi invero ribadire che, intanto un vizio di motivazione omessa o apparente è configurabile, in quanto, per ragioni redazionali o sintattiche o lessicali (e cioè per ragioni grafiche o legate alla obiettiva incomprensibilità o irriducibile reciproca contraddittorietà delle affermazioni delle quali la motivazione si componga), risulti di fatto mancante e non possa dirsi assolto il dovere del giudice di palesare le ragioni della propria decisione. Non può invece un siffatto vizio predicarsi quando, come nella specie, a fronte di una motivazione in sé perfettamente comprensibile, se ne intenda diversamente evidenziare un mero disallineamento dalle acquisizioni processuali (di tipo quantitativo o logico: vale a dire l'insufficienza o contraddittorietà della motivazione). In questo secondo caso, infatti, il sindacato che si richiede alla Cassazione non riguarda la verifica della motivazione in sé, quale fatto processuale riguardato nella sua valenza estrinseca di espressione linguistica (significante) diretta a veicolare un contenuto (significato) e frutto dell'adempimento del dovere di motivare (sindacato certamente consentito alla Corte di cassazione quale giudice anche della legittimità dello svolgimento del processo: cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077), ma investe proprio il suo contenuto (che si presuppone, dunque, ben compreso) in relazione alla correttezza o adeguatezza della ricognizione della quaestio facti. Una motivazione in ipotesi erronea sotto tale profilo non esclude, infatti, che il dovere di motivare sia stato adempiuto, ma rende semmai sindacabile il risultato di quell'adempimento nei ristretti limiti in cui un sindacato sulla correttezza della motivazione è consentito, ossia, secondo la vigente disciplina processuale, per il diverso vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (articolo 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.), salva l'ipotesi dell'errore revocatorio. La censura peraltro, almeno per quel che attiene alla stima degli importi già corrisposti, e dunque dell'ammontare dei ratei annui dovuti, non si confronta con la motivazione nella sua interezza, dalla quale emerge che il convincimento sul punto è tratto, quanto meno indirettamente, anche da altre fonti che non sono attinte da alcuna specifica censura (sentenza n. 1526/12 del Tribunale di Pescara che ha condannato il Ministero della Salute al pagamento della rivalutazione dell'indennità integrativa speciale a favore del ricorrente; D.D. del 10/10/2015 con cui è stato disposto il pagamento all'interessato un totale di Euro 23.654,24 di cui 20.065,32 a titolo di rivalutazione dal 01/05/2003 al 31/12/2014). 9. Il terzo motivo merita invece accoglimento, sebbene per una ragione diversa da quella prospettata dal ricorrente. 9.1. Occorre in proposito rilevare che, secondo pacifico indirizzo, la Corte di cassazione può accogliere il ricorso per una ragione di diritto anche diversa da quella prospettata dal ricorrente, sempre che essa sia fondata sui fatti come prospettati dalle parti, fermo restando che l'esercizio del potere di qualificazione non può comportare la modifica officiosa della domanda per come definita nelle fasi di merito o l'introduzione nel giudizio d'una eccezione in senso stretto : Cass. n. 26991 del 05/10/2021, Rv. 662510; n. 18775 del 28/07/2017, Rv. 645168 – 01; n. 3437 del 14/02/2014, Rv. 629913; n. 6935 del 22/03/2007. Rv. 597297; n. 19132 del 29/09/2005, Rv. 586707). Nella specie il motivo, nel dedurre l'erronea postulazione di un elemento del calcolo del danno futuro, investe questa Corte del potere/dovere di valutare la correttezza di tale calcolo, al qual fine non potrebbe comunque prescindersi dal valutare, anche ex officio, il rispetto delle regole giuridiche che ad esso presiedono. In altre parole, posto che il ricorrente contesta la correttezza dei criteri di calcolo adottati dalla Corte di merito prospettando una certa regola come corretta, questa Corte non decampa dal potere/dovere di autonoma qualificazione giuridica della fattispecie se rileva, come è doveroso fare in questa sede, che il criterio di calcolo applicato dalla Corte di merito è effettivamente erroneo, anche se la corretta regola da applicare non è quella indicata dalla parte ma un'altra, fermo restando che tale autonomo vaglio è operato alla luce dei dati oggettivi quali pacificamente emergenti dalla fattispecie così come accertata in sentenza. 9.2. Ed invero, dai dati evidenziati nel motivo, ed effettivamente posti a base del calcolo operato dai giudici a quibus, emerge bensì l'applicazione di una regola erronea che non consiste tuttavia nella postulazione della speranza di vita media di ottanta anni, quanto: a) da un lato, nel comprendere nel reddito futuro anche ratei maturati successivamente al 2016 e che, dunque, alla data della decisione (15/12/2020), avrebbero dovuto considerarsi, se effettivamente riscossi, redditi già percepiti; b) dall'altro, nella mancata e invece necessaria attualizzazione del reddito futuro, ossia dei ratei effettivamente ancora non maturati alla data della decisione, attraverso l'applicazione di un coefficiente di capitalizzazione anticipata. 9.3. Al riguardo, giova in premessa ribadire che, come affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentt. nn. 12564 – 12567 del 22/05/2018) la compensatio opera certamente in tutti i casi in cui sussista una coincidenza tra il soggetto autore dell'illecito tenuto al risarcimento e quello chiamato per legge ad erogare il beneficio, con l'effetto di assicurare al danneggiato una reintegra del suo patrimonio completa e senza duplicazioni. Ciò che si verifica, paradigmaticamente, proprio nel caso dell'indennizzo corrisposto al danneggiato, ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, il quale pertanto deve essere integralmente scomputato dalle somme spettanti a titolo di risarcimento del danno, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass. Sez. U 11/01/2008, n. 584; Cass. 14/03/2013, n. 6573). Trattandosi di erogazione periodica - assegno bimestrale calcolato in base alla gravità dei danni subiti (tabella B allegata alla legge 29 aprile 1976, n. 177, come modificata dall'articolo 8 della legge 2 maggio 1984, n. 111: articolo 2 legge n. 210 del 1992) - detta esigenza rimarrebbe in buona parte insoddisfatta ove il defalco dall'entità del risarcimento spettante venisse limitato ai ratei già corrisposti al momento della liquidazione del danno, con esclusione di quelli futuri, volta che nella specie deve ritenersi già determinato ovvero determinabile il loro preciso ammontare. 9.4. La decisione impugnata è pertanto corretta nella parte in cui sottende la necessità di considerare ai detti fini anche i ratei futuri di una erogazione già determinata o comunque determinabile nel suo ammontare. 9.5. Non lo è però nella soluzione adottata, consistita nella mera sommatoria di detti ratei, maggiorati per di più della prevedibile rivalutazione monetaria, con ciò finendo con il considerare come capitale già attualmente nella disponibilità dell'avente diritto quello che in realtà lo sarà solo nel tempo tra tot mesi e anni, il che attribuisce a tale capitale un valore effettivo ben maggior di quello che effettivamente esso ha (in virtù della regola plus dat qui cito dat), con il risultato di falsare il raffronto che occorre operare tra damnum e lucrum ai fini del calcolo in questione. 9.6. Per rendere omogenee le due poste occorre invece procedere alla capitalizzazione anticipata di detti ratei, la quale a sua volta consiste nel moltiplicare il reddito futuro per un coefficiente di costituzione delle rendite vitalizie, ovvero un numero idoneo a trasformare il valore d'una rendita percepibile per n anni in un capitale di valore equivalente. La necessità e la correttezza di tale operazione ai fini della compensatio trovano indiretta conferma nell'arresto di Cass. Sez. U. n. 12567 del 2018 che, nel risolvere il contrasto di giurisprudenza sulla questione se nella liquidazione del danno patrimoniale relativo alle spese di assistenza che una persona invalida sarà costretta a sostenere vita natural durante, debba tenersi conto, in detrazione, della indennità di accompagnamento erogata dall'istituto nazionale della previdenza sociale, hanno dato risposta positiva al quesito, identificando la posta da portare in diminuzione nel valore capitalizzato della indennità predetta. Ponendosi nella diversa ipotesi qui in esame la medesima esigenza di defalcare dalla somma liquidata in moneta attuale a titolo di risarcimento quanto lo stesso debitore sarà tenuto a versare, nel tempo, attraverso ratei periodici ma con analoghe finalità compensative, non v'è motivo di non applicare il medesimo criterio che consente di rendere omogenei gli elementi del computo (v. già, in tal senso, Cass. n. 31543 del 06/12/2018). La sentenza impugnata va pertanto sul punto cassata. 10. Il quarto motivo è inammissibile. In disparte il rilievo della inosservanza dell'onere ex articolo 366 n. 6 cod. proc. civ. di specifica indicazione degli atti richiamati (atto di citazione introduttivo, ordine di integrazione, atto integrativo) - il che impedisce anche di appurare quali fossero le lacune che inficiavano l'atto originario e se l'atto integrativo valesse solo a colmarle o anche a introdurre nuove domande - è comunque dirimente osservare che la censura coglie solo una delle due autonome rationes decidendi addotte in sentenza a giustificazione del rigetto delle pretese risarcitorie di carattere patrimoniale da lucro cessante. A pag. 14 della motivazione è invero evidenziato che, oltre al rilevato difetto di prova in ordine alle attività lavorative e alle attitudini del danneggiato, v'è di più: il c.t.u., infatti, ha espressamente e incontestatamente valutato come, in merito alla non meglio specificata attività di agente di commercio svolta sino al 2000, sia possibile escludere l'incidenza della patologia sulla attività lavorativa, in quanto sino a quell'epoca la malattia ha avuto un decorso sostanzialmente asintomatico; ha anche evidenziato che l'entità del danno epatico come presente nel 2003 (data della diagnosi definitiva di epatite cronica lieve) consentiva di escludere l'incidenza della malattia sulla attività lavorativa specifica di impiegato (di non meglio specificata Onlus) svolta sino al 2009 . Di tale aggiuntiva ratio decidendi il ricorrente non si fa carico, il che rende inammissibile la censura. È appena il caso di rammentare al riguardo che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, quando la sentenza assoggettata ad impugnazione sia fondata su diverse rationes decidendi, ciascuna idonea a giustificarne autonomamente la statuizione, la circostanza che tale impugnazione non sia rivolta contro alcuna di esse determina l'inammissibilità del gravame per l'esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata, piuttosto che per carenza di interesse (v. ex multisCass. n. 2174 del 24/01/2023; n. 13880 del 06/07/2020; n. 14740 del 13/07/2005). 11. L'unico motivo posto a fondamento del ricorso incidentale è manifestamente infondato. 11.1. Sul piano causale questa Corte ha già compiutamente chiarito (v. Cass. 11/07/2017, n. 17084; v. anche, ivi citata, Cass. 18/04/2005, n. 7997) che la relativa indagine va svolta avendo riguardo alle cognizioni esistenti, ex post, al tempo della valutazione (non già ex ante al tempo della condotta dell'agente, ossia della eseguita trasfusione, sia pure secondo un criterio di prevedibilità oggettiva secondo la miglior scienza ed esperienza al momento dell'azione ), e che sussiste il legame eziologico allorché si possa accertare la derivazione dell'infezione, secondo leggi scientifiche o statistiche o anche solo logiche, quale evento di danno, dalla trasfusione, a prescindere dalla sua specificazione in termini di malattia tipica. Non può diversamente argomentarsi sul fatto che, trattandosi di causalità omissiva, per assurgere a criterio di imputazione oggettiva dell'evento, è necessario che sussista anche l' obbligo giuridico di impedire l'evento (articolo 40, secondo comma, cod. pen.). Come è stato efficacemente evidenziato nel citato precedente, anche il non facere svolge efficacia causale sul piano naturalistico , con la conseguenza che anche l'efficacia causale del non facere può essere apprezzata sul piano naturalistico, seppure con giudizio controfattuale, alla stessa stregua del facere, secondo le cognizioni statistico-scientifiche, o semplicemente logiche, dell'osservatore al momento della valutazione. Il ruolo che, in tale paradigma, assume l'obbligo giuridico di impedire l'evento è, dunque, solo quello di far divenire anche giuridico, ossia rilevante per il diritto, quel nesso causale già esistente in natura (c.d. giuridicizzazione del nesso causale : Cass. n. 17084 del 2017), facendolo divenire criterio di imputazione giuridica: ma ciò sul piano oggettivo della causalità, non su quello soggettivo della colpa. L'imputazione mediante causalità segue le cognizioni statistico-scientifiche, o più semplicemente logiche, nei limiti in cui il diritto le recepisca. Essa non risente della colpa perché, pur trattandosi di un'imputazione (nella misura in cui corrisponde ad un collegamento della condotta all'evento stabilito dalla norma), inerisce ad una connessione puramente naturalistica, o tendenzialmente tale (come accade nel diritto civile). Ciò che deve accertarsi è l'oggettiva idoneità della condotta a determinare un evento (Cass. n. 17084 del 2017, cit.). Ne discende che, nell'ipotesi della causalità omissiva, ciò che vale per le leggi scientifiche o probabilistiche che governano sul piano della struttura l'indagine sul nesso causale, vale allo stesso modo per l'obbligo giuridico di impedire l'evento: sia le prime che le altre costituiranno parametro dell'indagine in relazione alla conoscenza che si abbia delle prime e, rispettivamente, all'esistenza del secondo, al momento della osservazione e non a quello della condotta. Nel caso di specie, conformemente a tali criteri, il nesso causale con le trasfusioni operate nel 1979 risulta del tutto ragionevolmente affermato alla luce del dato pacificamente accertato secondo cui delle tredici sacche di plasma trasfuso, una di esse proveniva da donatore risultato positivo all'infezione HCV e altre due da donatori che avevano rifiutato di sottoporsi a controlli. 11.2. Con riferimento al presupposto soggettivo questa Corte ha in plurime occasioni evidenziato che: – il Ministero della salute, in base ad una pluralità di fonti normative (per l'elenco esaustivo delle quali, cfr. tra le più recenti, Cass. 13/07/2018, n. 18520), è tenuto ad esercitare un'attività di controllo e di vigilanza in ordine (anche) alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell'uso degli emoderivati, e risponde ex articolo 2043 c.c., per omessa vigilanza, dei danni conseguenti ad epatite e ad infezione da HIV contratte da soggetti emotrasfusi (v. Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 576; Sez. U. 11/01/2008, n. 584; v. altresì, conff., Cass. 27/04/2011, n. 9404; 29/08/2011, n. 17685; 23/01/2014, n. 1355); – dallo stesso quadro normativo in base al quale risultano attribuiti al Ministero poteri di vigilanza e controllo in materia, si evince come fosse già ben noto sin dalla fine degli anni '60 - inizi anni '70 il rischio di trasmissione di epatite virale, la rilevazione (indiretta) dei virus essendo possibile già mediante la determinazione delle transaminasi ALT ed il metodo dell'anti-HbcAgin, e che già da tale epoca sussistevano obblighi normativi (l. n. 592 del 1967; D.P.R. n. 1256 del 1971; L. n. 519 dei 1973; L. n. 833 del 1973) in ordine a controlli volti ad impedire la trasmissione di malattie mediante il sangue infetto; – sin dalla metà degli anni '60 erano infatti esclusi dalla possibilità di donare il sangue coloro i cui valori delle transaminasi e delle GPT (indicatori della funzionalità epatica) fossero alterati rispetto ai limiti prescritti (cfr. Cass. 20/04/2010, n. 9315); – il dovere del Ministero della salute di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del sangue e degli emoderivati postula l'osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all'impiego delle misure necessarie per verificarne la sicurezza, essendo tenuto ad evitare o ridurre i rischi a tali attività connessi (cfr. Cass. Sez. U. 11/01/2008, n. 581). Nella specie, come sopra evidenziato, il contagio si è verificato nel 1979 e alla luce dei suindicati principi del tutto correttamente la Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità per colpa del Ministero. 12. In accoglimento, dunque, del terzo motivo del ricorso principale, dichiarata l'inammissibilità dei restanti motivi del ricorso principale e rigettato il ricorso incidentale, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice a quo, al quale va anche demandato il regolamento delle spese del presente giudizio. 13. A carico del Ministero non può trovare applicazione l'obbligo di versare, ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'articolo 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, sul presupposto del rigetto del ricorso incidentale, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, trattandosi di amministrazione dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v. Cass. 29/12/2016, n. 27301; Cass. 29/01/2016, n. 1778; v. anche Cass., Sez. U, 08/05/2014, n. 9938; Cass. 14/03/2014, n. 5955). P.Q.M. – accoglie il terzo motivo del ricorso principale, nei termini di cui in motivazione; – dichiara inammissibili i restanti motivi del ricorso principale; –rigetta il ricorso incidentale; – cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia la causa alla Corte d'Appello di L'Aquila, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche al regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità.