Evidente, secondo i membri del Consiglio Nazionale Forense, la gravità della condotta tenuta dal legale. Utilizzabili gli screenshot relativi agli scambi di messaggi tra professionista e cliente.
A dare il “la” alla querelle è un esposto pervenuto ad un Ordine degli avvocati. Tramite quello scritto, difatti, un legale viene posto sotto accusa da un suo ex cliente. Grave l'addebito mosso al professionista, ossia avere completamente ignorato il contenzioso, relativo ad una separazione, affidatogli dal cliente. Il quadro probatorio, poggiato non solo sulle dichiarazioni del cliente ma anche sulle stampe di screenshot relativi agli scambi di messaggi tra lui e il legale, è ritenuto chiarissimo dal Consiglio Distrettuale di Disciplina, che perciò, nel settembre del 2021, sanziona l'avvocato con la sospensione per due mesi dall'esercizio della professione. In sostanza, al legale viene addebitata la seguente condotta: «non aver svolto alcuna attività inerente all'incarico di gestione del contenzioso relativo alla causa di separazione giudiziale del cliente, anzi fornendo a quest'ultimo false informazioni circa l'intervenuto deposito del ricorso e lo stato della pratica» e «non aver adempiuto nei confronti del cliente all'impegno, assunto tramite messaggi, di restituire la somma di 700 euro ricevuta a titolo d'acconto per la pratica di separazione, senza che», come detto, «poi alcuna attività fosse stata in effetti svolta». Per essere precisi, «con più messaggi telefonici l'avvocato aveva rassicurato il cliente sul deposito del ricorso in Tribunale e, a successiva richiesta, aveva precisato di essere in attesa della fissazione dell'udienza», però tempo dopo «il cliente aveva accertato che il ricorso non era mai stato depositato» e perciò «aveva richiesto la restituzione dell'acconto». A inchiodare il legale, comunque, anche copie e trascrizioni di diversi messaggi WhatsApp, a conferma dei rapporti e delle conversazioni intercorsi tra lui e il cliente. Sulla stessa lunghezza d'onda, poi, anche il Consiglio Nazionale Forense, che sancisce la legittimità della sanzione adottata nei confronti dell'avvocato. Rilevanti le dichiarazioni dell'ex cliente e chiarissima la ricostruzione dei fatti da lui operata, anche attribuendo efficacia probatoria alla riproduzione cartacea di istantanee dello schermo di uno smartphone contenenti alcune conversazioni WhatsApp tra lui e il legale. A fronte delle risultanze istruttorie poste a base della valutazione delle condotte del professionista, è arrivata, secondo il Consiglio Nazionale Forense, una decisione coerente con quanto emerso dal procedimento. Anche perché il giudice della deontologia «non ha acriticamente conferito valore ai messaggi WhatsApp, bensì ha compiutamente valutato le dichiarazioni rese in dibattimento dall'ex cliente, rapportandole alle risultanze emergenti dalla documentazione allegata all'originario esposto e considerando il comportamento processuale assunto dall'avvocato». Per essere precisi, «dai messaggi risultano i contatti del legale con il cliente, le richieste di quest'ultimo circa l'instaurazione del giudizio di separazione, le rassicurazioni dell'avvocato di avere agito come concordato» e, infine, «le successive richieste del cliente di restituzione del compenso versato al legale». Su questo fronte, però, il professionista contesta il valore probatorio della documentazione allegata all'esposto, anche perché, sostiene, «le conversazioni contenute sulle piattaforme di messaggistica sono facilmente riproducibili o alterabili e pertanto esse devono essere verificabili e non contestate». I membri del Consiglio Nazionale Forense, però, ribattono ricordando che «i messaggi WhatsApp e i normali messaggi di teso conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti», come da Codice di Procedura Penale, sicché «è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica». Pertanto, «nei processi innanzi l'autorità giudiziaria penale è considerata legittima l'acquisizione, come documento di messaggi normali o WhatsApp, di una fotografia dello schermo di un telefono cellulare su cui i messaggi sono leggibili». Detto ciò, è ritenuta palese la violazione compiuta dal legale, il quale «non ha svolto alcuna attività, nonostante l'incarico ricevuto dal cliente, e poi ha fornito anche false informazioni circa l'intervenuto deposito del ricorso e lo stato della pratica» e così «ha posto in essere comportamenti disciplinarmente rilevanti poiché lesivi dei doveri fondanti la professione, tra i quali dignità e decoro dell'intera classe forense». Per chiudere il cerchio, infine, dal Consiglio Nazionale Forense ritengono «la sospensione per due mesi adeguata al disvalore delle condotte accertate, tenuto conto dell'unicità della sanzione anche in caso di pluralità delle violazioni, dei due precedenti disciplinari (avvertimento e censura) dell'avvocato, delle sanzioni previste in ragione dei valori tutelati e della natura dei comportamenti che vanno ad incidere su due doveri, quali il corretto adempimento del mandato e la correttezza e la completezza delle informazioni rese al cliente, che sono di estrema rilevanza, anche per il riflesso sull'affidabilità dell'intera categoria forense».
CNF, sentenza n. 376/2024