La CEDU condanna l’Italia per detenzione incompatibile con patologia psichiatrica grave

La sentenza Niort c. Italia si colloca in una sequenza ricorrente di condanne europee in materia penitenziaria, ma la sua gravità eccede la fisiologia dell’inadempienza, in quanto disvela una crisi sistemica nella tutela dei soggetti psichicamente vulnerabili detenuti.

Il fatto processuale rilevante: una lunga agonia istituzionale Il ricorrente, condannato per reati gravi, ha attraversato per anni un ciclo di istituzionalizzazione afflittiva e disfunzionale: spostamenti da un istituto all'altro, trattamenti farmacologici discontinui, episodi di autolesionismo gestiti come problemi di ordine e non come emergenze cliniche. Le autorità italiane - pur in possesso di perizie e relazioni che attestavano una condizione psichiatrica grave e persistente - non hanno mai attivato un percorso terapeutico adeguato. La portata giuridica della pronuncia: articolo 3 CEDU come cartina di tornasole del sistema penale La Corte ribadisce un principio ormai consolidato, ma tutt'altro che recepito nei fatti: l'articolo 3 CEDU impone non solo un divieto negativo (non sottoporre a tortura o trattamenti degradanti), ma anche un obbligo positivo di protezione attiva, in particolare nei confronti dei detenuti in condizioni di fragilità mentale. Nel caso Niort, i giudici di Strasburgo non si limitano a deplorare la mancanza di strutture, ma colgono la sostanza del problema: la delega terapeutica è stata interamente appaltata a gesti tecnici episodici e non a una strategia sanitaria coerente. La detenzione, per la Corte, non è solo inadeguata: è clinicamente e giuridicamente incompatibile. L'inerzia giurisdizionale: quando la sorveglianza non sorveglia Il cuore della violazione, paradossalmente, non risiede tanto nell'azione dell'amministrazione penitenziaria, quanto nell'omissione giurisdizionale. Nonostante diversi provvedimenti emessi dalla giurisprudenza di sorveglianza abbiano preso atto dell'incompatibilità tra la detenzione e lo stato psichiatrico del ricorrente, nessuno ha operato una rottura del circuito detentivo. Al più, si è optato per un trasferimento da una struttura carente a un'altra egualmente inadeguata, come se lo spostamento geografico potesse sanare il vuoto terapeutico. Si tratta di un fallimento culturale della giurisdizione di sorveglianza, che continua a oscillare tra formalismo valutativo e residualità decisionale, rinunciando a essere giurisdizione costituzionalmente orientata. Il principio di equivalenza delle cure: un'illusione normativa In teoria, il nostro ordinamento garantisce l'equivalenza tra trattamenti sanitari in ambito detentivo e in ambito libero. In pratica, il caso Niort mostra l'inconsistenza operativa di tale principio. La Corte EDU sottolinea che la mera disponibilità formale di cure non equivale alla loro effettività. L'assenza di continuità, l'inadeguatezza delle strutture, la logica della “gestione dell'urgenza” al posto della terapia programmata, sono tutti elementi che disattendono gli standard minimi di umanità della pena. Il ricorrente non ha ricevuto una terapia: ha subito una discontinuità clinica istituzionalizzata, travestita da trattamento. Il nodo politico-giuridico: la detenzione dei soggetti psichiatrici come questione costituzionale Questa pronuncia è un atto d'accusa nei confronti dell'architettura esecutiva del nostro ordinamento penitenziario. A distanza di anni dalla riforma degli OPG, l'Italia non dispone ancora di un sistema realmente efficiente per garantire misure terapeutiche non detentive nei confronti dei condannati con patologie mentali. Le misure alternative esistono, ma sono praticate con timidezza, quando non con sospetto. I l principio della pena umana e rieducativa - scolpito nell'articolo 27, comma 3, Cost. - resta una dichiarazione d'intenti, frustrata da una prassi conservativa che legge la pericolosità solo in chiave custodiale. Conclusioni: il carcere come soluzione per tutto è il problema da risolvere L'idea che si possa “curare” in carcere chi, per definizione, non è compatibile con il carcere, è una contraddizione sistemica che produce responsabilità internazionali e sofferenze umane inutili. La sentenza Niort c. Italia lo dimostra senza ambiguità: finché l'amministrazione penitenziaria sarà lasciata sola ad affrontare la malattia mentale, senza strutture, senza indirizzi chiari, e con giudici di sorveglianza che abdicano alla funzione di bilanciamento, la pena perderà ogni legittimità costituzionale e convenzionale. Non è invocazione di indulgenza, ma espressione di legalità sostanziale: laddove il carcere smette di essere luogo di rieducazione e diventa fattore di aggravamento clinico, la funzione penale cede il passo alla tutela della persona, come impone la Costituzione prima ancora della Convenzione.

CEDU, sentenza 27 marzo 2025, caso Niort c. Italia (ric. n. 4217/23)