Non punibile il post diffamatorio su Facebook se frutto di rabbia e frustrazione per una notizia mal digerita. Salva un’animalista che ha rivolto offese al veterinario coinvolto nella gestione di numerosi cani beagle da parte della Green Hill : i giudici riconoscono l’esimente della provocazione.
La vicenda giudiziaria trae origine dallo sfogo online di un’animalista contro il noto veterinario di Green Hill . Il post, condiviso su Facebook era accompagnato dalla foto del medico e recava vari insulti quali, tra l’altro, “veterinario alle dipendenze di Green Hill, artefice dell’uccisione di cani difettosi , 6023 cani uccisi tra il 2008 e il 2012”, e ancora “non è stato radiato. Il 24 maggio 2018 tornerà ad esercitare: le istituzioni continuano ad essere complici”. Per i giudici di merito non ci sono dubbi: l’autrice del post condiviso su Facebook si è resa colpevole di diffamazione in danno del veterinario. Di opposto avviso, ovviamente, la difesa, che con ricorso per Cassazione, da un lato, sostiene si debba parlare di mera ingiuria, e non di diffamazione, e, dall’altro, rivendica l’assenza di dolo e l’esercizio del diritto di critica, di fronte a «fatti comunque veritieri, per come riportati all’epoca dagli organi di stampa», e, ancora, ritiene vada riconosciuta l’esimente della provocazione «correlata alla pubblicazione, lo stesso giorno, in una pagina Facebook, di un post che annunciava il prossimo rientro al lavoro del veterinario, ritenuto tra i colpevoli dei fatti avvenuti presso il canile della Green Hill ». Per i giudici di Cassazione, però, non ci sono dubbi sulla gravità della condotta tenuta sul social network dall’animalista. Impossibile parlare di mera ingiuria. Ciò alla luce del principio secondo cui «la pubblicazione di un post offensivo su Facebook può essere considerata ingiuria aggravata e non diffamazione solo ove la presenza della vittima risulti con certezza dalla sua contestuale reazione al post». Reazione che non si è verificata nella vicenda in esame, poiché «il veterinario ha saputo, da un amico, del messaggio offensivo della propria reputazione solo in un momento successivo alla pubblicazione e, non essendo iscritto a Facebook, vi ha acceduto attraverso l’account della moglie, la quale ha confermato tale circostanza». Per quanto concerne, poi, il contenuto dello scritto condiviso online, per giudici l’animalista «ha, pur a fronte di una notizia sostanzialmente veritiera, superato i limiti di continenza espressiva che devono essere rispettati anche nell’esercizio del diritto costituzionale di critica», avendo ella «utilizzato espressioni inutilmente aggressive della sfera personale del veterinario». Nonostante tutto, però, va riconosciuta, secondo i magistrati di Cassazione, l’esimente della provocazione. In premessa annotano infatti, che «sebbene la donna sia un’attivista per i diritti degli animali che aveva seguito attentamente la vicenda dei cani di razza beagle sui quali la società ‘Green Hill’ effettuava sperimentazioni» e si sia adoperata per «reperire famiglie disposte ad adottare alcuni dei cani che erano stati rinvenuti nell’allevamento dove lavorava il veterinario, va considerato che le condotte poste in essere sia dai vertici della società che dal veterinario sono state ritenute illecite e», quindi, «possono essere ben ricondotte alla nozione di fatto ingiusto». Peraltro, «lo stesso veterinario, oltre ad essere destinatario di un provvedimento disciplinare di sospensione dall’esercizio della professione, è stato condannato con sentenza irrevocabile per i reati di uccisione di animali e maltrattamento di animali». Ampliando l’orizzonte, i magistrati partono da una premessa: «la provocazione opera quale esimente della condotta diffamatoria solo se si realizza quale reazione subito dopo il fatto ingiusto». In sostanza, è fondamentale «il nesso tra fatto ingiusto e stato d’ira» e quindi vi deve essere «un’effettiva contiguità temporale tra l’insorgere della reazione ed il fatto ingiusto altrui». Applicando questa prospettiva alla vicenda oggetto del processo, emerge istantaneamente un particolare rilevante: «i fatti», ossia la gestione dei cani beagle da parte di Green Hill , «sono avvenuti anni prima rispetto al momento di pubblicazione del post offensivo». Tuttavia, «occorre considerare che, il giorno stesso della pubblicazione del messaggio offensivo, l’animalista aveva avuto contezza, in ragione della pubblicazione di un altro ‘post’ su una bacheca nell’ambito dello stesso ‘social network’, cioè sempre nell’ambito di ‘Facebook’, che il veterinario era stato sanzionato per quei fatti dall’ordine professionale con la sospensione e non già con la radiazione, da lei invece auspicata». Perciò «il post diffamatorio» pubblicato dall’animalista «costituisce», secondo i giudici, «una reazione immediata, poiché correlata al rinnovarsi in lei di un sentimento di rabbia fronte del fatto ingiusto commesso in precedenza dal veterinario (sanzionato e dal competente ordine professionale e in sede penale), alla notizia che il veterinario avrebbe ripreso presto l’esercizio della professione». In sostanza, «se è vero che il fatto ingiusto si era verificato anni prima, la causa scatenante che ha rimesso in moto nell’animalista il sentimento di frustrazione causativo del post per quel fatto è la notizia, divulgata lo stesso giorno su un’altra bacheca Facebook, della sanzione disciplinare – troppo lieve, secondo l’animalista, irrogata dall’ordine professionale al veterinario», chiosano i magistrati. La condotta tenuta dall’animalista quindi, seppur grave, va ritenuta non punibile. Ciò alla luce del principio secondo cui «in tema di diffamazione, ai fini dell’operare della esimente della provocazione, la contiguità temporale tra il fatto ingiusto e il conseguente stato d’ira può operare anche ove determinati accadimenti, di carattere oggettivo, rinnovino nell’autore della condotta diffamatoria il sentimento di rabbia correlato al fatto ingiusto avvenuto precedentemente».
Presidente Guardiano - Relatore Giordano Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata, la Corte di Appello di Ancona confermava la decisione di condanna dell'imputata per il delitto di diffamazione aggravata in danno di Renzo Re.Gr., derivante dall'aver offeso la reputazione di questo, pubblicando sul proprio profilo Facebook un post corredato da una foto dello stesso, del seguente tenore: GENTE!!!!!! VI PRESENTO LA MERDA DI VETERINARIO N. 1 IN ITALIA. Vogliamo farvi vedere il volto di Re.Gr.il veterinario alle dipendenze di (Omissis) artefice dell'uccisione di cani difettosi . 6023 cani uccisi tra il 2008 e il 2012. Non è stato radiato. Il 24 maggio 2018 tornerà ad esercitare: le istituzioni continuano ad essere complici . 2. Avverso la richiamata sentenza l'imputata ha proposto ricorso per cassazione con il proprio difensore di fiducia, avv. Fabio Luzi, formulando due motivi di impugnazione, di seguito ripercorsi entro i limiti strettamente necessari per la decisione. 2.1. Con il primo motivo deduce inosservanza o erronea applicazione dell'articolo 595 cod. pen. La Ba.Sa. evidenzia, innanzi tutto, che i fatti non potrebbero essere sussunti sotto la predetta norma incriminatrice bensì rientrerebbero, a tutto concedere, nella condotta, ormai priva di rilevanza penale, di ingiuria seppur rivolta a più persone, perché la vittima doveva considerarsi presente quando sono state formulate le accuse nei suoi confronti, con conseguente possibilità di replica immediata, essendo le stesse state effettuate sulla propria bacheca facebook. Evidenzia, a riguardo, che la presenza della persona offesa non deve essere intesa quale mera contiguità spazio-temporale e che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ben può essere virtuale. Del resto, il post era stato pubblicato nella data del 5 dicembre 2017, e già il 9 dicembre 2017, il Re.Gr. aveva presentato querela. 2.2. Mediante il secondo motivo la ricorrente contesta la congruità ed esistenza stessa della motivazione della decisione impugnata laddove non ha considerato l'assenza del dolo, l'esimente dell'esercizio del diritto di critica di fronte a fatti comunque veritieri, per come riportati all'epoca dagli organi di stampa, né - ulteriormente - quella della provocazione correlata alla pubblicazione lo stesso giorno nella pagina facebook Brescia Antispecista del post che annunciava il prossimo rientro al lavoro del veterinario ritenuto tra i colpevoli dei fatti avvenuti presso il canile della (Omissis). Considerato in diritto 1. Il primo motivo non è fondato. La giurisprudenza richiamata dalla ricorrente, nell'assumere che la diffamazione a mezzo social network può far ritenere presente la vittima che abbia un proprio profilo o, come il Re.Gr., possa facilmente accedervi attraverso quello di un congiunto (nel caso di specie, la moglie) non è pertinente, poiché riguarda ipotesi ben diverse nelle quali le condotte sono state poste in essere nell'ambito di chat o video-chat nelle quali era effettivamente presente anche la persona offesa. In tale prospettiva si è, ad esempio, ritenuto che integra il delitto di ingiuria aggravata dalla presenza di più persone, e non il delitto di diffamazione, la condotta di chi pronunzi espressioni offensive mediante comunicazioni telematiche dirette alla persona offesa attraverso una video chat , alla presenza di altre persone invitate nella chat , in quanto l'elemento distintivo tra i due delitti è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10905 del 25/02/2020, Sala, Rv. 278742, in relazione ad una fattispecie concernente una chat vocale sulla piattaforma Google Hangouts ). In assenza della presenza della persona offesa, invece, la giurisprudenza di legittimità ha sempre ritenuto integrato il delitto di diffamazione e non quello dell'ingiuria, sia nell'ipotesi di messaggi di posta elettronica indirizzati a più persone, tra cui l'offeso, stante la non contestualità del recepimento del messaggio (Sez. 5, n. 13252 del 04/03/2021, Viviano, Rv. 280814), sia, in taluni casi, finanche in quelle di chat nelle quali l'offesa non fosse stata percepita nell'immediatezza dalla vittima in quanto non collegata al momento del recapito (Sez. 5, n. 28675 del 10/06/2022, Ciancio, Rv. 283541). Pertanto, la pubblicazione di un post offensivo a mezzo facebook può essere considerata ingiuria aggravata e non diffamazione solo ove la presenza della vittima risulti con certezza dalla sua contestuale reazione al post. Il che non si è verificato nella fattispecie in esame, nella quale, come ha congruamente ricostruito, nel disattendere l'analogo motivo di gravame, la Corte territoriale, il Re.Gr. ha saputo del messaggio offensivo della propria reputazione solo in un momento successivo alla pubblicazione dello stesso da parte di un amico e, non essendo iscritto al social facebook, vi ha acceduto attraverso l'account della moglie, la quale ha confermato tale circostanza. * 2.2. Il secondo motivo è in parte fondato, entro i limiti e per le ragioni di seguito indicate. 2.2.1. Sotto un primo aspetto, invero, non si può accedere alla prospettazione difensiva dell'imputata poiché ella, pur a fronte di una notizia sostanzialmente veritiera, ha superato i limiti di continenza espressiva che devono essere rispettati anche nell'esercizio del diritto costituzionale di critica. Difatti, secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte, l'esimente del diritto di critica, sebbene correlata al fondamentale esercizio della libera manifestazione del pensiero, postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione (Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133). In particolare, il requisito della continenza non può essere evocato come strumento oggettivo di selezione degli argomenti sui quali fondare la comunicazione dell'opinione al fine di costituire legittimo esercizio del diritto di critica, selezione che, invece, spetta esclusivamente al titolare di tale diritto, atteso che, altrimenti, il suo contenuto ne risulterebbe svuotato, in spregio del diritto costituzionale di cui all'articolo 21 Cost. Il rispetto del canone della continenza esige, tuttavia, che le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell'informazione, e non si traducano, pertanto, in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato e, pertanto, il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato (Sez. 5, n. 18170 del 09/03/2015, Mauro, Rv. 263460). Nella fattispecie in esame, questi limiti sono stati valicati dalla Ba.Sa., la quale ha utilizzato espressioni inutilmente aggressive della sfera personale della parte civile, laddove ha definito la stessa la merda di veterinario n. 1 in Italia . 2.2.2. Il motivo è peraltro fondato nella sua seconda parte, in quanto ricorre l'esimente della provocazione. Occorre ricordare, in termini generali, che la causa di non punibilità della provocazione di cui all'articolo 599, comma 2, cod. pen. sussiste non solo quando il fatto ingiusto altrui integra gli estremi di un illecito codificato, ma anche quando consiste nella lesione di regole di civile convivenza, purché apprezzabile alla stregua di un giudizio oggettivo (tra le altre, Sez. 5, n. 21133 del 09/03/2018, Iachetta, Rv. 273131 - 01; Sez. 5, n. 25421 del 18/03/2014, Marrelli, Rv. 259882). In effetti, sebbene la Ba.Sa. sia un'attivista per i diritti degli animali che aveva seguito attentamente la vicenda dei cani di razza beagle sui quali la società (Omissis) effettuava sperimentazioni, al punto da adottare o reperire famiglie disposte ad adottare alcuni dei cani che erano stati rinvenuti nell'allevamento dove lavorava il Re.Gr., va considerato che le condotte poste in essere sia dai vertici della società che dalla stessa persona offesa sono state ritenute illecite anche dalle autorità competenti e, di qui, possono essere ben ricondotte alla nozione di fatto ingiusto cui fa riferimento l'articolo 599, comma 2, cod. pen. Del resto, lo stesso Re.Gr., oltre ad essere destinatario di un provvedimento disciplinare di sospensione dall'esercizio della professione, è stato condannato con sentenza irrevocabile per i reati di cui agli articolo 544-bis e 544-ter cod. pen. È vero che la provocazione opera, tuttavia, quale esimente della condotta diffamatoria solo se si realizza subito dopo al fatto ingiusto quale reazione rispetto a questo, sicché, pur nella elasticità con cui dev'essere interpretata in relazione a ciascuna fattispecie, non può trascurarsi il nesso eziologico tra fatto ingiusto e stato d'ira (Sez. 5, n. 29384 del 06/06/2006, Pitti, Rv. 235005), dovendo sussistere, tra l'insorgere della reazione ed il fatto ingiusto altrui, un'effettiva contiguità temporale (Sez. 5, n. 30502 del 16/05/2013, Quaretti, Rv. 257700). Nel caso in esame i fatti erano avvenuti anni prima rispetto al momento di pubblicazione del post offensivo. Occorre tuttavia considerare che, il giorno stesso della pubblicazione del messaggio offensivo, la ricorrente aveva avuto contezza, in ragione della pubblicazione di un post su una bacheca nell'ambito dello stesso social netwoork facebook, che il Re.Gr. era stato sanzionato per quei medesimi fatti dall'ordine professionale con la sospensione e non già, come ella auspicava, con la radiazione. Di qui, il post diffamatorio della Ba.Sa. costituisce una reazione immediata, poiché correlata al rinnovarsi del sentimento di rabbia nella stessa a fronte del fatto ingiusto commesso in precedenza dal veterinario (e, come tale, si ribadisce, sanzionato e dal competente ordine professionale e in sede penale), alla notizia che questi avrebbe ripreso presto l'esercizio della professione. In sostanza, se è vero che il fatto ingiusto si era verificato anni prima, la causa scatenante che ha rimesso in moto nell'imputata il sentimento di frustrazione causativo del post per quel fatto è la notizia, divulgata lo stesso giorno su un'altra bacheca facebook, della sanzione disciplinare, secondo l'imputata troppo lieve, irrogata dall'ordine dei veterinari al Re.Gr. Infatti, in tema di diffamazione, ai fini dell'operare della causa di non punibilità della provocazione di cui all'articolo 599 cod. pen., la contiguità temporale tra il fatto ingiusto e il conseguente stato d'ira può operare anche ove determinati accadimenti, di carattere oggettivo, rinnovino nell'autore della condotta il sentimento di rabbia correlato al fatto ingiusto avvenuto precedentemente. 3. Pertanto la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio in quanto l'imputata non è punibile ai sensi dell'articolo 599 cod. pen. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché l'imputata non è punibile ai sensi dell'articolo 599 cod. pen.