Avvocato rinuncia al mandato e la causa è riformata in pejus: come si calcola il compenso?

Nella determinazione del valore della lite per il pagamento degli onorari controversi, spettanti al legale che ha rinunciato al mandato, è necessario aver riguardo al valore effettivo del credito stabilito all’esito della causa. Soltanto in tal modo si garantisce quella proporzione tra il compenso e il risultato ottenuto dal difensore nell’interesse del cliente che l’articolo 6 del D.M. 127/2004 (operativo ratione temporis) intende assicurare.

I compensi dopo la rinuncia al mandato del legale Un avvocato aveva richiesto la condanna di due uomini al pagamento dei compensi per la difesa prestata in un giudizio civile nei confronti della Corte dei conti, che aveva avuto quale esito la condanna a favore dei convenuti di un indennizzo ex articolo 2041 c.c. per l'impiego da parte della Corte di un software per la gestione del contenzioso pensionistico. Il Tribunale aveva liquidato oltre 77mila euro, al netto degli acconti ricevuti, più accessori e spese di lite. Nel 2019 la Corte territoriale aveva riformato in modo parziale il pronunciamento di primo grado, ritenendo operativo il D.M. 127/2004 in luogo del D.M. 140/2012 in relazione alla data di esaurimento del rapporto professionale, a cui il legale aveva posto fine tramite la rinuncia al mandato. Ulteriormente, aveva riconosciuto i valori tariffari massimi quantificati sul valore della causa determinato in base all'importo liquidato in primo grado nella causa ove era stato svolto il patrocinio, rigettando l'istanza di maggiorazione fino al quadruplo per l'eccezionale complessità della controversia, infine riconoscendo gli interessi con decorrenza dalla pronuncia di primo grado. Il ricorso di legittimità In Cassazione avverso la sentenza d'appello l'avvocato ha proposto ricorso in quattro motivi, tutti respinti, cui hanno replicato i due convenuti con controricorso e con ricorso incidentale, parzialmente accolto. Perciò, la sentenza è stata cassata in relazione ai due motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d'appello, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità. L'incidenza della reformatio in pejus nella determinazione del valore della causa e dei compensi Con uno dei due motivi accolti, relativi al ricorso incidentale, i due uomini hanno dedotto la violazione degli articolo 115,116,132, comma II, n. 4 c.p.c. e l'insufficiente ed erronea motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato la riforma in pejus della pronuncia del Tribunale del 2007 a opera della Corte territoriale con pronuncia del 2016, passata in giudicato, al fine di quantificare il valore della lite per il pagamento degli onorari controversi. Per la Cassazione il motivo risulta fondato. La sentenza di primo grado, che aveva liquidato ai ricorrenti l'importo di €. 917.000,000, era stata riformata con pronuncia passata in giudicato, col riconoscimento in appello di € 159.000,00 oltre accessori, per un importo finale di €. 228.587,49. Il Tribunale aveva ritenuto che di tale riduzione non potesse tenersi conto, occorrendo valutare il valore della lite al momento della cessazione del rapporto professionale. Ma tale assunto secondo i giudici romani non può essere condiviso: l'articolo 6 del D.M. 127/2004, ove ha riguardo alla somma concretamente attribuita alla parte vincitrice, non fa riferimento ai risultati eventualmente ottenuti nel singolo grado ovvero alla somma provvisoriamente attribuita, bensì al valore effettivo del credito stabilito all'esito della causa. Soltanto in tal modo, a dir del Collegio, si garantisce quella proporzione tra il compenso e il risultato ottenuto dal difensore nell'interesse del cliente che la disposizione intende assicurare. D'altronde, sempre secondo le osservazioni del Collegio, quando il difensore abbia svolto il patrocinio in plurimi gradi, il valore della lite sul quale si opera la liquidazione dei compensi per ogni grado, la quale non varia in relazione all'esito dei differenti gradi, bensì risulta quello cristallizzato dall'ultima decisione (Cass. n. 688/2024). Ulteriormente, i giudici di legittimità hanno rilevato che adottando il criterio condiviso dal giudice distrettuale, quando la parte risulti difesa da più difensori di cui uno solo di essi abbia rinunciato al mandato prima della riforma della pronuncia, in senso riduttivo, si realizzerebbe l'effetto irragionevole di adottare un valore differente per ogni avvocato, pur risultando unico l'esito della causa. In passato si era ritenuto che l'articolo 7 della legge n. 794/1942, dettando norme sugli onorari professionali per prestazioni giudiziali in materia civile, ove stabilisce che in ipotesi di revoca ovvero di rinuncia alla procura, il cliente deve all'avvocato gli onorari corrispondenti all'opera prestata, e che vuole che il compenso, in ipotesi di revoca del mandato, sia calcolato con riferimento al valore della controversia al momento in cui l'opera del legale venne a cessare e non con riferimento al risultato finale, conseguito alla definizione della controversia (Cass. n. 2742/1966), bensì se il risultato finale sia meramente l'effetto della corretta quantificazione della somma dovuta sin dall'inizio della causa e non sia dipesa da cause sopravvenute (come, ad esempio, un pagamento parziale), non vi è ragione per non assumere quest'ultima a base di calcolo delle spettanze professionali, proprio per assicurare la dovuta proporzione con impegno e opera svolta. L'indispensabilità del parere dell'Ordine professionale Con l'altro motivo accolto, i due uomini hanno dedotto la violazione degli articolo 115,116,132, comma II, n. 4 c.p.c., dell'articolo 118 disp. att. c.p.c., nonché dell'articolo 342 c.p.c., per avere la Corte territoriale dichiarato inammissibile il motivo di gravame avente per oggetto l'omessa preventiva richiesta del pagamento degli onorari tramite apposita notula asseverata dal parere del competente ordine professionale. Per il Collegio di legittimità il compenso dovuto per le prestazioni d'opera intellettuale, ove non risulti convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe ovvero gli usi, viene determinato dal giudice, sentito il parere dell'ordine professionale a cui il professionista appartiene (articolo 2233 c.c.). La disposizione assegna prevalenza alla convenzione intervenuta fra le parti e, in subordine, alle tariffe, agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, previo parere dell'associazione professionale. Le tariffe sono impiegate quale criterio di riferimento nella determinazione del compenso al legale, se e in quanto difetti un accordo tra cliente e professionista, ovvero non esistano tariffe obbligatorie, per tali dovendo intendersi quelle che prevedono parametri fissi che per il loro contenuto integrano in modo diretto il contenuto del contratto. Nelle ulteriori ipotesi, e se quindi le tariffe prevedono valori minimi e massimi da graduare in base alle peculiarità della fattispecie concreta, l'esercizio a opera del giudice del potere discrezionale di liquidazione del compenso va esercitata previa obbligatoria acquisizione del parere della competente associazione professionale, dal quale può legittimamente discostarsi con adeguata motivazione (ex multis, Cass SU n. 19427/2021). Il parere dell'ordine professionale di appartenenza è diretto ad assicurare le parti che all'organo giudicante siano fornite le più opportune indicazioni per l'esercizio in concreto del potere di determinazione del corrispettivo, ha carattere inderogabile (Cass. n. 6438/1994), nel senso che è obbligatorio sentire, pure se non è vincolante, e può essere acquisito sia su richiesta d'ufficio del giudice, ex articolo 213 c.p.c., sia su produzione diretta del legale, esplicando in tale ipotesi identità di effetti (Cass., 21.8.1985). Per l'effetto, dovendo il giudice liquidare gli onorari per i quali il D.M. 127/2004 contempla importi contenuti tra un minimo e un massimo, doveva acquisire il parere dell'ordine professionale, adempimento cui provvederà il giudice di rinvio.

Presidente Manna Relatore Fortunato Fatti di causa 1. L'avvocato Ce.Fu. ha chiesto la condanna di Gu.Sa. e In.Fe. al pagamento dei compensi per la difesa in un giudizio civile nei confronti della Corte dei conti, conclusosi con la condanna a favore dei convenuti di un indennizzo ex articolo 2041 c.c. per l'utilizzazione da parte della Corte di un software per la gestione del contenzioso pensionistico. Il Tribunale ha liquidato l'importo di Euro 77.748,61, al netto degli acconti ricevuti, oltre accessori e spese di lite. Con sentenza n. 1873/2019, la Corte d'Appello ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado, ritenendo applicabile il DM 127/2004 e non il DM 140/2012 in relazione alla data di esaurimento del rapporto professionale, conclusosi con la rinuncia al mandato; ha riconosciuto i valori tariffari massimi calcolati sul valore della causa determinato in base all'importo liquidato in primo grado nella causa in cui era stato svolto il patrocinio, respingendo la richiesta di maggiorazione fino al quadruplo per l'eccezionale complessità della lite, riconoscendo gli interessi con decorrenza dalla pronuncia di primo grado. Per la cassazione della sentenza d'appello l'avv. Ce.Fu. ha proposto ricorso in quattro motivi, cui hanno replicato Gu.Sa. e In.Fe. con controricorso e con ricorso incidentale in sette motivi. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte. Le parti hanno illustrato le rispettive difese con memorie ex articolo 378 c.p.c. Ragioni della decisione 1. È utile premettere l'esame del ricorso incidentale. 2. Con il primo motivo di detto ricorso si deduce la violazione dell'articolo 9, comma terzo, D.L. 1/2012, per avere la Corte d'Appello applicato il D.M. 127/2004 anziché il D.M. 140/2012, benché la liquidazione dei compensi professionali pretesi dall'avv. Ce.Fu. sia avvenuta il 10 ottobre 2013, data di redazione della sentenza di primo grado. Il motivo è infondato. Dispone l'articolo 41 del D.M. 140 del 2012, che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nell'articolo 9, comma 2, D.L. 1/2012, conv. dalla L. 27/2012, che le disposizioni con cui detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando la liquidazione è operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all'entrata in vigore del medesimo decreto. La norma deve essere letta nel senso che i nuovi parametri devono trovare applicazione sempre che la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché essa abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate (Cass. SU 17405/2012; Cass. 13628/2015; Cass. 7285/2023; Cass. 3042/2023). Il compenso evoca, difatti, la nozione di un corrispettivo unitario, che ha riguardo all'opera professionale complessivamente prestata (Cass. SU 17405/2012). Deriva da tali principi che il dato cronologico temporale ai fini della individuazione della tariffa applicabile per l'espletamento dell'incarico professionale è costituito dal momento in cui l'attività professionale viene ad esaurirsi, non il momento –eventualmente successivoin cui tale determinazione venga effettivamente operata in sede contenziosa, giacché, diversamente opinando, dovrebbe ammettersi che eventuali slittamenti temporali nella determinazione dei compensi siano in grado di incidere sul regime normativo applicabile, con un non ammissibile effetto finale di diversa quantificazione dei compensi per attività parimenti esauritesi sotto un regime normativo ma oggetto di quantificazione in momenti differenti (Cass. 3042/2023). Poiché nel caso in esame l'attività si è esaurita con la rinuncia al mandato nel 2009, i compensi sono stati correttamente quantificati in applicazione del criterio tariffario del DM 127/2004. 2. Il secondo motivo deduce la violazione dell'articolo 5 D.M. 140/2012 e dell'articolo 6 D.M. 127/2004, per avere la Corte di merito liquidato i compensi sulla base del decisum e non del deductum, dovendo inoltre considerarsi la domanda di valore indeterminato, non essendo stato chiesto il pagamento di una somma già quantificata. Il motivo è infondato. Il comma 1 dell'articolo 6 del D.M. 127/2004, prevede che ai fini della determinazione del valore della controversia e per la liquidazione delle spese a carico del soccombente si applicano le norme del codice di procedura civile (articolo 10 e ss.) e nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, si guarda alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata; il comma secondo dispone, inoltre, che nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile; deve poi, per la determinazione del valore effettivo della controversia, aversi riguardo al valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti. Il riferimento al valore della lite richiama le disposizioni in base alle quali viene individuato il valore della domanda e quindi gli articolo 10 e 14 c.p.c. secondo cui, nelle cause relative a somme di danaro, il valore si determina in base alla somma indicata dall'attore, che costituisce l'oggetto della domanda. L'oggetto della domanda, considerato nel momento iniziale , svolge tuttavia un ruolo diverso al fine dell'individuazione del giudice competente per valore ed al fine della determinazione degli onorari d'avvocato, giacché nel primo caso vale a fissare un parametro oggettivo per individuare in limine litis il giudice competente, nell'altro si tratta di un riferimento solo iniziale per determinare un parametro da utilizzare al momento della decisione della lite al fine di quantificare il rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente o i compensi del difensore. È principio consolidato che, nei rapporti tra avvocato e cliente, diversamente che ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente, sussiste la possibilità di adeguare il valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione con quello derivante dall'applicazione delle norme del codice di rito. Tale interpretazione risponde al principio generale di proporzionalità ed adeguatezza dei compensi dell'opera professionale effettivamente prestata (Cass. SU 19014/2007), suggerendo di far riferimento al criterio del decisum integrato da quello del disputatum, senza che tra loro ci sia effettiva antinomia (Cass. SU 19014/2017). Se è vero che l'articolo 5 del D.M. 55/2014 distingue tra compenso a carico del cliente e compenso alla parte vincitrice , ciò non esclude che il giudice, anche nel rapporto difensore-cliente, debba verificare se la somma domandata sia manifestamente diversa rispetto al valore effettivo della controversia , determinato anche in ragione dell'entità economica dell'interesse sostanziale (Cass. 28885/2023). In conclusione, il riferimento contenuto nell'articolo 6 al valore della controversia determinato a norma del codice di procedura civile riguarda l'ipotesi in cui la domanda sia accolta integralmente e vi sia corrispondenza tra disputatum e decisum. Se la domanda è accolta solo parzialmente si impone sempre un adeguamento degli onorari all'effettiva portata della controversia che è espressa dal decisum. Nel caso della liquidazione degli onorari a carico del cliente, l'indagine cui è tenuto il giudice consiste nel verificare l'attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare, tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l'importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo o se si riveli del tutto inadeguato rispetto all'effettivo valore della controversia, come nel caso in cui il legale abbia esagerato la misura della pretesa azionata, in evidente sproporzione rispetto a quanto poi attribuito alla parte assistita. In tal caso il compenso preteso non può essere considerato corrispettivo della prestazione espletata, stante la sua obiettiva inadeguatezza rispetto alla attività svolta (Cass. 19250/2015; Cass. 1805/ 2012; Cass. 13229/2010; Cass. S.U. 19014/2007; Cass. 15685/ 2006). Se invece la riduzione della somma o del bene attribuito è effetto di un adempimento successivo, il giudice può tener conto del disputatum ove riconosca la fondatezza dell'intera pretesa (Cass. Su 19014/2007). Nel caso in esame la domanda era stata inizialmente formulata per Euro 7.000.000,00, salva la maggior o minor somma ritenuta equa, ma ai ricorrenti era stato liquidato un importo notevolmente inferiore rispetto a quella atteso (Euro 910.000,00, ridotti in appello ad Euro 159.000,00), per cui il parametro da prendere in considerazione era il decisum non il deductum. 4. Il terzo motivo deduce la violazione degli articolo 115,116,132, secondo comma, n. 4 c.p.c. e l'insufficiente ed erronea motivazione della sentenza impugnata per non aver considerato la riforma in pejus della sentenza del Tribunale n. 3813/2007 da parte della Corte d'Appello con pronuncia n. 2009/2016, passata in giudicato, al fine di determinare il valore della controversia per il pagamento degli onorari di cui è causa. Il motivo è fondato. La sentenza di primo grado, che aveva liquidato ai ricorrenti l'importo di Euro. 917.000,000 a favore degli assistiti, è stata riformata con pronuncia passata in giudicato, con il riconoscimento in appello di Euro 159.000,00 oltre accessori, per un importo finale di Euro. 228.587,49. Il Tribunale ha ritenuto che di tale riduzione non potesse tenersi conto, occorrendo valutare il valore della lite al momento della cessazione del rapporto professionale. Tale assunto non può essere condiviso. L'articolo 6 del D.M. 127/2004, ove ha riguardo alla somma concretamente attribuita alla parte vincitrice, non fa riferimento ai risultati eventualmente ottenuti nel singolo grado o alla somma provvisoriamente attribuita, ma al valore effettivo del credito stabilito all'esito della causa. Solo in tal modo si assicura quella proporzione tra il compenso ed il risultato ottenuto dal difensore nell'interesse del cliente che la disposizione intende assicurare. D'altronde quando il difensore abbia svolto il patrocinio in più gradi, il valore della lite su cui si opera la liquidazione dei compensi per ciascun grado non varia in relazione all'esito dei diversi gradi ma è quello cristallizzato dall'ultima decisione (Cass. 688/2024); adottando il criterio condiviso dal giudice distrettuale, allorquando la parte sia difesa da più difensori di cui uno solo di essi abbia rinunciato al mandato prima della riforma della pronuncia, in senso riduttivo, si realizzerebbe l'effetto irragionevole di adottare un valore diverso per ciascun difensore pur essendo unico l'esito della causa. In passato si è ritenuto che l'articolo 7 della legge 13 giugno 1942, n.794, dettando norme in tema di onorari all'avvocato per prestazioni giudiziali in materia civile, ove stabilisce che nel caso di revoca o di rinuncia alla procura il cliente deve all'avvocato gli onorari corrispondenti all'opera prestata e che vuole che il compenso, nel caso di revoca del mandato, sia calcolato con riferimento al valore della controversia al momento in cui l'opera del professionista venne a cessare e non con riferimento al risultato finale, conseguito alla definizione della controversia (Cass. 2742/1966), ma se il risultato finale sia semplicemente la conseguenza della corretta quantificazione della somma dovuta sin dall'inizio della causa e non sia dipesa da cause sopravvenute (ad es. un pagamento parziale), non vi è ragione per non assumere quest'ultima a base di calcolo delle spettanze professionali, proprio per garantire quella giusta proporzione con l'impegno e l'opera svolta. 5. Il quarto motivo deduce la violazione degli articolo 115,116,132, secondo comma, n. 4 c.p.c., 345 e 118 disp. att. c.p.c., per avere la Corte erroneamente dichiarato inammissibile il motivo di appello relativo all'insussistenza dei presupposti per l'applicazione dei massimi tariffari in luogo dei valori minimi. Il motivo è assorbito per effetto dell'accoglimento della precedente censura, dovendo il giudice di rinvio procedere ad una nuova liquidazione delle spettanze in base al valore effettivo della lite. 6. Il quinto motivo deduce la violazione degli articolo 115,116,132, secondo comma, n. 4 c.p.c., dell'articolo 118 disp. att. c.p.c., nonché dell'articolo 342 c.p.c., per avere la Corte d'Appello dichiarato inammissibile il motivo di gravame con cui era stata denunciata la illegittima riduzione operata dal Tribunale degli acconti versati all'Avv. Ce.Fu. sulla base di una dichiarazione testimoniale del consulente intervenuto nel giudizio presupposto, che aveva separatamente agito verso i clienti per ottenere il compenso e che perciò non poteva testimoniare, sostenendo infine che la prova del pagamento non poteva esser data per testimoni. Il motivo è infondato. Ha chiarito il giudice distrettuale che parte degli acconti versati erano imputabili a spese vive e il difensore li aveva versati al c.t.u. a titolo di compenso, estinguendo un debito dei ricorrenti. Il teste non era incapace di deporre per aver agito verso i ricorrenti per ottenere il pagamento del compenso, occorrendo al più vagliarne l'attendibilità tenendo conto del contenzioso con le parti; l'incapacità o eventuali limiti di ammissibilità della prova andavano comunque eccepiti sia prima, che dopo l'assunzione del mezzo istruttorio (Cass. Su 9456/2023; Cass. 29714/2023). 7. Il sesto motivo deduce la violazione degli articolo 115,116,132, secondo comma, n. 4 c.p.c., dell'articolo 118 disp. att. c.p.c., nonché dell'articolo 342 cod. proc. civ., per avere la Corte di merito dichiarato inammissibile il motivo di appello avente ad oggetto la mancata preventiva richiesta del pagamento degli onorari mediante apposita notula asseverata dal parere del competente ordine professionale. Il motivo è fondato. Il compenso dovuto per le prestazioni d'opera intellettuale, se non è convenuto dalle parti e se non può essere stabilito secondo le tariffe o gli usi, è determinato dal giudice, sentito il parere dell'associazione professionale a cui il professionista appartiene (articolo 2233 c.c.). La disposizione assegna prevalenza alla convenzione intervenuta fra le parti e, in subordine, alle tariffe, agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, previo parere dell'associazione professionale. Le tariffe sono utilizzate quale criterio di riferimento nella determinazione del compenso al professionista, se ed in quanto manchi un accordo tra professionista o non esistano tariffe obbligatorie, per tali dovendo intendersi quelle che prevedono parametri fissi che per il loro contenuto integrano direttamente il contenuto del contratto. Negli altri casi, e se quindi le tariffe prevedono valori minimi e massimi da graduare in base alle particolarità del caso concreto, l'esercizio da parte del giudice del potere discrezionale di liquidazione del compenso va esercitata previa obbligatoria acquisizione del parere della competente associazione professionale, dal quale può legittimamente discostarsi con adeguata motivazione (Cass. 12681/2017; Cass. 236/2011; Cass SU 19427/2021). Il parere dell'associazione (o ordine) professionale di appartenenza è diretto ad assicurare le parti che all'organo giudicante siano fornite le più opportune indicazioni per l'esercizio in concreto del potere di determinazione del corrispettivo, ha carattere inderogabile (Cass. 6438/1994), nel senso che è obbligatorio sentire (anche se non è vincolante), e può essere acquisito sia su richiesta d'ufficio del giudice, ai sensi dell'articolo 213 c.p.c., sia su produzione diretta del professionista, esplicando in tal caso identità di effetti (Cass.21.8.1985 n. 4460). Ne consegue che, dovendo il giudice liquidare gli onorari per i quali il D.M. 127/2004 prevede importi compresi tra un minimo e un massimo (in aggiunta ai diritti di procuratore che sono oggetto di tariffe fisse e perciò obbligatorie), doveva acquisire il parere dell'ordine professionale, compito cui provvederà il giudice di rinvio. 8. Il settimo motivo deduce la violazione dell'articolo 9, comma terzo, D.L. 1/2012, per avere la Corte erroneamente liquidato il compenso, riconoscendo i valori massimi, anziché i minimi. Il motivo è assorbito. 9. Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia la violazione dell'articolo 5, comma 5, del D.M. 127/2004 e l'omesso esame di un fatto decisivo, per aver la sentenza affermato che tra la norma che prevede un compenso unico maggiorato nel caso di difesa di più parti aventi la medesima posizione processuale, e il comma successivo, che riconosce al difensore un compenso unico ridotto del 30% ove il giudice abbia dovuto esaminare per una delle parti situazioni particolari in fatto e in diritto, sussiste un rapporto di genere a specie, essendo invece le due disposizioni destinate a regolare ipotesi distinte. Il riconoscimento di un compenso distinto sarebbe previsto per il caso in cui la posizione di una parte richieda l'esame di questioni autonome a prescindere dalla loro fondatezza e dal fatto che il giudice le abbia ritenute rilevanti. Nel caso in esame, il difensore aveva dovuto esaminare e superare le eccezioni della Corte dei conti scaturite dal fatto che In.Fe. aveva proposto istanza di mediazione, assumendo di aver svolto mansioni superiori e si era qualificato non come ideatore ma come mero sviluppatore del software, assunto sfavorevole alla parte e difatti coltivato dalla Corte dei conti sia in primo grado che in appello, per cui la liquidazione doveva essere duplice, in relazione a ciascuna parte patrocinata. Il motivo è infondato. L'articolo 5, comma quarto, del decreto 127/2004 prevede che, qualora in una causa l'avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa posizione processuale, l'onorario unico può essere aumentato per ogni parte oltre la prima del 20% fino a un massimo di dieci e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per ciascuna parte oltre le prime dieci e fino a un massimo di venti. La stessa disposizione trova applicazione, ove più cause vengano riunite, dal momento dell'avvenuta riunione e nel caso in cui l'avvocato assista e difenda una parte contro più parti quando la prestazione comporti l'esame di particolari situazioni di fatto o di diritto. Il comma successivo vuole che nella ipotesi in cui, pur nell'identità di posizione processuale dei vari clienti, la prestazione professionale comporti l'esame di loro situazioni particolari di fatto o di diritto rispetto all'oggetto della causa, l'avvocato abbia diritto al compenso secondo tariffa, ridotto del 30%. La norma, nelle sue diverse disposizioni, è incarnazione del principio di proporzionalità del compenso in rapporto alle attività effettivamente svolte nelle situazioni in cui l'identità di posizioni comporta di norma attività ripetitive o l'identità di prestazioni anche riguardo alle questioni affrontate. In caso di prestazione difensiva unica a favore di diversi clienti (unico esame della controversia, unico apprestamento del sistema difensivo, unica assistenza al processo, unica, formalmente o sostanzialmente, redazione delle difese scritte, unica discussione orale, ecc.), al professionista spetta un unico compenso, distinguendosi nel sistema tariffario la posizione dell'avvocato da quella del procuratore, che, anche nella ipotesi di unica posizione processuale dei clienti, può avere svolto distinte attività procuratorie (autentiche di firme, fascicolazioni, corrispondenze, ecc.). A tale principio deroga il quinto comma laddove prevede la liquidazione di compensi separati ridotti del 30% se per una delle parti patrocinate la difesa comporti l'esame di situazioni particolari in fatto e in diritto, nel qual caso il fatto che l'attività sia solo in parte analoga comporta una riduzione del compenso, mentre la necessità di valutare profili distinti per una di esse, determina la scissione dell'unitarietà della prestazione professionale. Perché ciò accada non è sufficiente che vi siano aspetti particolari della lite che riguardino una sola parte, situazione che può dirsi fisiologica, ma è necessario che tale situazione abbia l'effetto di distinguere in maniera significativa la posizione difensiva. Si è affermato che il presupposto delle situazioni particolari in fatto e in diritto deve intendersi riferito all'esistenza di una posizione tanto diversa dalle altre da non consentire la sua riconduzione nel quadro difensivo generale, così da giustificare la compensabilità autonoma delle prestazioni rese necessarie dalle caratteristiche della posizione individuale (Cass. 2961/1983 con riferimento all'analoga formulazione del DM 26.9.1979; Cass. 10805/1993). Stabilire se l'opera defensionale sia stata unica, nel senso di trattazione di identiche questioni in un medesimo disegno difensionale a vantaggio di più parti, o se la stessa abbia comportato la trattazione di questioni differenti, in relazione alla tutela di non identiche posizioni giuridiche, è questione di merito, sindacabile solo per vizio di motivazione (Cass. 6607/1981; Cass. 11591/2015. Nell'insistere per l'applicazione del quinto comma dell'articolo 5 il difensore aveva infondatamente richiesto non un compenso per ciascuna parte ma l'aumento del compenso base, già calcolato nei massimi, del 70%, possibilità non contemplata e giustamente respinta dalla Corte di merito, che, per giunta, non ha ravvisato nella posizione di una dei due patrocinati alcuna differenza apprezzabile. Come si è detto, l'esame delle questioni in fatto e in diritto deve esser tale da differenziare la posizione di una delle parti e deve esser tale da non consentire la sua riconduzione al quadro difensivo generale, laddove la posizione di dipendenti dei due resistenti era identica (entrambi erano dipendenti della Corte dei conti e sostenevano di aver elaborato il software di cui si era avvalsa l'amministrazione di appartenenza, chiedendo di essere compensati), per cui le medesime questioni, circa la possibilità di invocare solo l'inquadramento superiore e non l'arricchimento ingiustificato, poteva profilavano per entrambi, non essendo decisivo che solo per uno di essi la questione si fosse concretamente posta. 10. Il secondo motivo deduce la violazione dell'articolo 5 D.M. 127/2004 nonché degli articolo 112,132 e 156, secondo comma, c.p.c., per avere la Corte di merito negato, sulla base di un non corretto esame dell'attività professionale espletata, la maggiorazione fino al quadruplo dei compensi massimi di cui all'articolo 5 cit. Assume il ricorrente che, una volta esclusa l'applicabilità del DM 140/2012 il giudice avrebbe dovuto nuovamente valutare la spettanza della maggiorazione, senza onerare il ricorrente di illustrarne le ragioni, avendo la Corte riconosciuto che la causa presentava profili di notevole complessità, gravosa era stata l''attività e notevoli i risultati ottenuti. Il terzo motivo deduce la falsa applicazione del D.M. n. 127 del 2004 e la violazione dell'articolo 112 c.p.c., per avere la Corte di merito operato una riliquidazione della fase di appello in modo non analitico rispetto alle voci di parcella, senza specificare le attività prese in considerazione, avendo riconosciuto somme inferiori a quella pretese senza alcuna motivazione. Il quarto motivo deduce la violazione dell'articolo 1282 c.c. per avere la Corte l'Appello calcolato gli interessi legali dalla sentenza e non dalla domanda. Tutti i precedenti motivi sono assorbiti, dovendo il giudice di rinvio effettuare una nuova liquidazione del compenso. In conclusione, sono accolti il terzo e il sesto motivo del ricorso incidentale e sono respinti i motivi, primo, secondo e quinto, assorbiti gli altri; è inoltre respinto il primo motivo del ricorso principale con assorbimento delle restanti censure. La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese di legittimità. P.Q.M. accoglie il terzo e il sesto motivo del ricorso incidentale, respinge i motivi primo, secondo e quinto, dichiara assorbiti gli altri, rigetta il primo motivo del ricorso principale con assorbimento delle restanti censure, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d'Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese di legittimità.