Fumatrice uccisa da un carcinoma polmonare: responsabilità addebitabile all’azienda produttrice di sigarette

Possibile il risarcimento, a carico dell’azienda produttrice di sigarette, per i familiari della donna che ha cominciato a fumare a metà degli anni Sessanta e ha smesso solo a metà degli anni Novanta, morendo poi a causa di un devastante carcinoma polmonare causato dai trent’anni di tabagismo.

Riflettori puntati sulla morte di una donna e, soprattutto, sulla connessione tra la patologia a lei fatale – un carcinoma polmonare – e il quotidiano consumo di sigarette – venti ogni giorno, per la precisione –, da parte sua, per ben trent’anni. Per i familiari della donna il nesso tra malattia e tabagismo è evidente e quindi è logico dedurre la responsabilità della società, colpevole, a loro avviso, di «non avere mai informato i consumatori dell’alta nocività delle sigarette “MS”, nonostante sin dal 1950 la letteratura scientifica avesse messo in relazione il carcinoma polmonare con il fumo attivo». Consequenziale, quindi, la richiesta di risarcimento, da parte del marito e dei figli della donna, per il danno morale subito. Per la società, invece, è palese l’assenza di illecito e, quindi, di responsabilità, «essendo sia la produzione che la vendita di tabacco attività lecite ed esercitate nel rispetto della normativa vigente». In primo grado i giudici danno ragione ai familiari della donna, qualificando la produzione e la vendita di tabacco quali attività pericolosa, con conseguente « onere in capo alla società di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, a prescindere dalla sussistenza di un obbligo giuridico di informare sulla nocività del fumo», e ritenendo lampante «il nesso di causalità tra produzione e vendita di sigarette senza informazioni sui rischi per la salute dei consumatori e lo specifico evento dannoso cui fumatori sono risultati esposti, essendo il carcinoma polmonare una conseguenza normale ed ordinaria del fumo». I giudici sottolineano però «il concorso di colpa – nella misura del 50% – della fumatrice deceduta, stante l’utilizzazione protratta nel tempo, da parte sua, delle sigarette, non essendo i danni da fumo del tutto ignoti e purtuttavia essendovi una diffusa consapevolezza solo generica degli effetti nocivi del fumo, ed essendo stata, nella specie, la consapevolezza specifica acquisita da parte della donna quando ormai la sua salute era irrimediabilmente compromessa». A sorpresa, però, in appello, arriva una pronuncia assolutoria per la società. Niente risarcimento, quindi, per i familiari della donna. Decisivo il riferimento alla «libera scelta della donna di fumare, nonostante la consapevolezza dei danni che avrebbero potuto derivargliene». Esclusa, quindi, secondo i giudici d’appello, la configurabilità del nesso di causalità tra la condotta della società produttrice di sigarette e il danno derivato alla donna dalla pratica del fumo. A modificare nuovamente gli equilibri provvedono i magistrati di Cassazione, accogliendo le obiezioni sollevate dai familiari della donna e ritenendo addebitabile una responsabilità alla società. In premessa, viene chiarito che «l’attività di produzione e commercializzazione di derivati del tabacco è certamente, dal punto di vista naturalistico, causa del danno, ma può non esserlo laddove la condotta oggettivamente colposa della vittima assuma il ruolo di causa sopravvenuta, dotata di efficienza causale esclusiva, neutralizzante l’apporto eziologico dell’attività dell’esercente, degradato al ruolo di mera occasione dell’evento dannoso». In sostanza, «la condotta del danneggiato può in astratto assumere invero rilievo causale meramente concorrente o» addirittura «esclusivo», premettono i giudici di Cassazione. Ciò detto, però, è evidente, sempre secondo i magistrati di Cassazione, l’errore compiuto in appello, laddove ci si è «limitati ad estrapolare la scelta di fumare dalle serie causali che hanno prodotto l’evento dannoso, senza enunciare le ragioni per cui ritenere che l’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco non abbia nella specie avuto efficienza causale alcuna nella determinazione dell’evento, relegando implicitamente tale azione a mero antefatto occasionale, inidoneo ad innescare la sequenza causale sfociata nell’evento lesivo». Invece, tenuto conto che alla società è stato imputato di non avere informato adeguatamente la donna della nocività del fumo, «al fine di verificare la colpa della vittima nella causazione del danno e accertarne l’efficienza causale esclusiva ovvero concorrente, si sarebbe dovuto invero dapprima valutare se l’evento dannoso si sarebbe verosimilmente verificato ove uno dei due soggetti coinvolti avesse mantenuto la condotta alternativa corretta, per poi ripetere l’operazione a parti invertite, avendo l’obbligo di apprezzare ogni fattore causale rilevante al fine di stabilire la relativa incidenza (con)causale nella determinazione dell’evento lesivo». Poi, a fronte della considerazione come pericolosa dell’attività di produzione e di commercializzazione del tabacco, i magistrati di Cassazione chiariscono che «ove l’attività considerata sia quella della produzione finalizzata al commercio e quindi all’uso da parte del consumatore, è ovvio che, se quell’attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all’uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo. E laddove l’attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, la caratteristica di pericolosità può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal fatto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo», come le sigarette, per l’appunto. In sostanza, «proprio in ragione della qualificazione come pericolosa dell’attività di produzione e commercio del tabacco, i giudici d’appello non avrebbero dovuto limitarsi a ritenere la scelta del consumatore – cioè la donna deceduta a causa di un carcinoma polmonare – una causa prossima di rilievo, in quanto la condotta del danneggiato non solo va valutata diversamente a seconda della pericolosità dell’attività, ma anche perché la disciplina delle attività pericolose richiede una prova liberatoria specifica e particolarmente rigorosa, che non coincide propriamente con la prova del caso fortuito, comprendente il fatto colposo della vittima, essendo innegabile che nella pratica «la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente». Anche l’argomentazione posta in appello a fondamento della ravvisata consapevolezza della vittima in merito ai danni cagionati dal fumo risulta invero «non essere stata assunta all’esito di un accertamento specifico della effettiva consapevolezza da parte della vittima della cancerogenicità del fumo, accertamento viceversa indispensabile per ritenere in colpa la donna, atteso che da ella si sarebbe potuto esigere una diversa condotta (non fumare, fumare meno, non aspirare il fumo, adottare altre cautele), solo ove, informata del rischio specifico cui risultava esposta in ragione del consumo di sigarette, si fosse ciononostante ad esso consapevolmente e volontariamente indotta». Non a caso, secondo la tesi dei familiari della donna, quest’ultima «non aveva consapevolezza, nel 1965, quando aveva iniziato a fumare, della correlazione tra il fumo di sigarette e il cancro», mentre i giudici d’appello si sono limitati ad affermare che «la nocività del fumo era un fatto socialmente notorio negli anni Settanta». Tuttavia, «la questione controversa non è se vi fosse una generica consapevolezza sociale e personale della donna in ordine alla nocività del fumo bensì se ella fosse specificamente stata informata e consapevole che il fumo è cancerogeno», precisano i magistrati di Cassazione. E in questa ottica bisogna considerare che «solo nel 1975 è stato introdotto in Italia il divieto di fumare in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico, e tale divieto è stato esteso solo molto più tardi – nel 1995 – a determinati locali della pubblica amministrazione o dei gestori di servizi pubblici. Il divieto di pubblicizzare direttamente o indirettamente qualsiasi prodotto da fumo risale al 1983 mentre il divieto di pubblicità televisiva – anche indiretta – delle sigarette è stato posto nel 1991. E la prima concreta misura di dissuasione diretta, frutto della certezza raggiunta dalla comunità scientifica che il fumo sia alla base di numerose forme di cancro e di un numero indefinito di altre gravi patologie, è stata introdotta nel 1990, ed è stata successivamente estesa e resa più rigorosa nel 2003» e poi sono arrivate «misure di intervento più incisive e concrete nella lotta al tabagismo». Per i magistrati di Cassazione, «essendo la nocività del fumo un fatto socialmente noto a partire dagli anni Settanta, tutt’altro che socialmente nota era invero all’epoca cui risalgono i fatti la correlazione specifica tra fumo e cancro (e altre gravi patologie). Va certamente escluso che nel 1965, allorquando la donna ha iniziato a fumare, fosse socialmente nota la correlazione tra fumo e cancro, e che la donna stessa fosse informata e conscia del rischio specifico di contrare il cancro e si sia ciononostante indotta a fumare fino a venti sigarette al giorno, in virtù di consapevole scelta edonistica». Difatti, «l’asimmetria informativa in Italia è stata colmata normativamente solo con una legge del 1990, persistendo peraltro in capo all’esercente un’attività  pericolosa l’obbligo, al fine di andare esente da responsabilità, di dimostrare di aver adottato ogni misura atta ad evitare il danno, come, ad esempio, l’adozione di filtri volti a contenere lo sprigionamento delle sostanze cancerogene provocate dalla combustione la produzione di sigarette con una più contenuta percentuale di catrame e di altre sostanze cancerogene, l’informazione sui rischi del fumo». Per i magistrati di Cassazione non ci sono dubbi: «solamente a fronte della conoscenza o della effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo, può configurarsi un concorso di colpa del consumatore fumatore». Tirando le somme, «l’esercente l’attività pericolosa è tenuto ad adottare, in relazione al contesto di riferimento, misure precauzionali anche al di là di quelle strettamente imposte dalla legge, anche e soprattutto sul piano dell’informazione, al fine di evitare il rischio d’impresa derivante dall’immissione sul mercato di un prodotto ontologicamente dannoso senza specifiche informazioni in ordine al tipo di danni alla salute (conducenti, come nella specie, addirittura alla morte) cui il consumatore risulta esposto, e il relativo consumo inconsapevole da parte del fumatore. Consumo inconsapevole dei rischi specifici cui rimane esposto in ragione dell’immissione in commercio delle sigarette, invero deponente per l’esclusione che la condotta del consumatore possa considerarsi improntata ad effettiva libertà di determinazione al riguardo e come tale possa pertanto assurgere a causa prossima di rilievo nella determinazione dell’evento dannoso», chiosano i magistrati di Cassazione.

Presidente Scarano – Relatore Gorgoni Fatti di causa I signori D.N.GI., D.N.R., D.N.A.M., D.N.G. e D.N.S. convenivano avanti al Tribunale di Potenza la società (OMISSIS) S.p.A., incorporante l'(OMISSIS) S.p.A. (già Azienda Autonoma dei Monopoli di Stato), perché: a) ne fosse accertata la responsabilità per la morte della signora A.S. per carcinoma polmonare (sviluppatosi a seguito del protratto uso, dal 1965 al 1995, di circa venti sigarette al giorno), non avendo mai informato i consumatori dell'alta nocività delle sigarette MS, nonostante sin dal 1950 la letteratura scientifica avesse messo in relazione il carcinoma polmonare con il fumo attivo; b) fosse condannata al risarcimento del danno morale loro spettante per la perdita della -rispettivamentemoglie e madre. La (OMISSIS) S.p.A. eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva e, nel merito, chiedeva il rigetto della domanda per l'assenza di illecito e, quindi, di responsabilità, essendo sia la produzione che la vendita di tabacco attività lecite ed esercitate nel rispetto della normativa vigente. Il Tribunale di Potenza, in accoglimento della domanda attorea, con sentenza n. 715/2018, ha dichiarato la responsabilità della società (OMISSIS) S.p.A., condannandola al risarcimento dei danni subiti dagli attori. In particolare, ha ritenuto: a) la produzione e vendita di tabacco attività pericolosa ai sensi dell'articolo 2050 cod.civ., con conseguente onere in capo alla convenuta di provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, a prescindere dalla sussistenza di un obbligo giuridico di informare sulla nocività del fumo; b) la sussistenza del nesso di causalità tra produzione e vendita di sigarette senza informazioni sui rischi per la salute dei consumatori e lo specifico evento dannoso cui i medesimi risultavano esposti, essendo il carcinoma polmonare una conseguenza normale ed ordinaria del fumo, rientrante nell'ambito delle linee di normale sviluppo della serie causale, secondo un criterio di probabilità scientifica; c) la sussistenza di un concorso di colpa nella misura del 50% della consumatrice deceduta stante l'utilizzazione protratta nel tempo delle sigarette da parte della medesima, non essendo i danni da fumo del tutto ignoti e purtuttavia essendovi una diffusa consapevolezza “solo generica” degli effetti nocivi del fumo, essendo stata nella specie la consapevolezza specifica acquisita da parte della vittima quando ormai la sua salute era irrimediabilmente compromessa. All'esito del gravame interposto dalla (OMISSIS) S.p.A., la corte di merito ha successivamente rigettato l'originaria domanda di risarcimento danni, ritenendo che la causa prossima di rilievo, costituita nella specie dalla libera scelta della vittima di fumare nonostante la consapevolezza dei danni che avrebbero potuto derivargliene, escluda la configurabilità del nesso di causalità tra la condotta dell'(OMISSIS) S.p.A. (al quale era subentrata la (OMISSIS) S.p.A.) e il danno alla medesima derivato dalla pratica del fumo. Avverso la suindicata sentenza della corte di merito i D.N., in proprio e quali eredi del D.N.GI. deceduto nelle more del giudizio di primo grado, propongono ora ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo, illustrato da memoria. Resiste con controricorso la (OMISSIS) S.p.A. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell'articolo 380-bis 1 cod.proc.civ. Ragioni della decisione 1) Con unico motivo i ricorrenti denunziano <<violazione e falsa applicazione>> degli articolo 2050 e 2043 cod.civ., in riferimento all'articolo 360, 1° co. n. 3, cod.proc.civ. Si dolgono non avere la corte d'appello considerato: i) che la danneggiata ha trascorso la sua vita nel Comune di Pietragalla, non era solita leggere riviste e quotidiani, guardava i più popolari programmi televisivi e frequentava con assiduità il cinema parrocchiale; ii) che l'esistenza del nesso di causalità fra l'attività di produzione e commercializzazione dei tabacchi lavorati ed i danni per cui è causa è da ravvisare proprio nell'atto del fumare, costituente <<la realizzazione dello scopo tipico per il quale esiste l'industria del tabacco>>, per cui il costo del danno è da imputare al soggetto che si trovava, prima del suo verificarsi, nella situazione maggiormente idonea ad evitarlo, non potendo ciò pretendersi dal tabagista, assuefattosi al consumo di nicotina; iii) che nella specie la vittima ha acquisito la necessaria consapevolezza specifica dei danni da fumo, come accertato dall'espletata C.T.U., solamente allorquando la sua salute era già irreversibilmente compromessa; iv) che l'applicazione del principio “della causa prossima di rilievo” postula la prova, mancante nella specie, della piena consapevolezza del danneggiato di poter interrompere con il suo facere il nesso eziologico tra il fumo della sigaretta e l'evento dannoso. Si dolgono avere la corte di merito erroneamente escluso la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta della produttrice odierna ricorrente e quella mantenuta dalla vittima per ben trent'anni, considerando quest'ultima quale unica responsabile in ragione della ravvisata sua libertà di autodeterminarsi ed esporsi a pratica pericolosa, atteso che la defunta aveva una consapevolezza solo generica e non specifica degli effetti nocivi del fumo, in difetto di idonea informazione specifica al riguardo che l'avrebbe certamente dissuasa. Lamentano l'avere il produttore immesso sul mercato un prodotto “fisiologicamente” dannoso per la salute, senza invero preoccuparsi dei rischi per la salute dei fumatori. 2) Il motivo è p.q.r. fondato e va accolto nei termini di seguito indicati. 2.1) Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, il nesso causale è elemento costitutivo dell'illecito (anche contrattuale), e rientra tra i compiti del giudice individuare, tra le possibili concause, gli antecedenti in concreto rilevanti per la verificazione del danno, mediante l'adozione di un criterio di selezione la cui scelta è censurabile in sede di legittimità laddove operata in violazione degli articolo 40 e 41 cod. pen. e 1127, 1° comma, cod. civ. La valutazione delle conseguenze derivanti dall'adottato criterio di selezione si risolve, invece, in un mero accertamento di fatto, come tale sottratto al sindacato di legittimità in presenza di congrua motivazione (cfr. Cass. 7/12/2005, n. 26997; Cass. 24/5/2017, n. 13096; Cass. 8/4/2020, n. 7760). 3) Orbene, nella specie la corte di merito ha ravvisato la sussistenza di <<un atto di volizione libero, consapevole ed autonomo>> della vittima, <<soggetto dotato capacità di agire>>, prescindendo invero da qualsivoglia considerazione in ordine all'accertamento di un'eventuale responsabilità ex articolo 2043 e 2050 cod.civ. della (OMISSIS) S.p.A. 3.1) La corte d'appello ha implicitamente applicato il principio secondo cui se la condotta della vittima si inserisce in una serie causale avviata da altri, concorrendo alla produzione dell'evento dannoso, il suo apporto non vale ad interrompere quella serie in quanto non è possibile distinguere fra cause mediate o immediate, dirette o indirette, precedenti o successive e si deve riconoscere a tutte la medesima efficacia; l'interruzione si verifica, invece, se la condotta della vittima, pur inserendosi nella serie causale già avviata, dia vita ad un'altra serie causale rispetto alla prima, idonea da sola a produrre l'evento dannoso, che sul piano giuridico assorbe ogni diversa serie causale e la riduce al ruolo di semplice occasione (v. Cass. 6/4/2006, n. 8096; Cass. 22/10/2013, n. 23915; Cass. 22/02/2021, n. 4662). 4) Diversamente da quanto in precedenza ritenuto, questa Corte ha sotto altro profilo affermato che l'individuazione del fatto interruttivo del nesso causale non è esclusivamente <<quello dell'atipicità ed eccezionalità della serie causale sopravvenuta>>, aderendo all'idea che la condotta del danneggiato possa rilevare causalmente anche quando sia oggettivamente colposa. Ciò perché in relazione causale con l'evento di danno (alla luce del principio disciplinato dall'articolo 41 cod.pen.) si pone non soltanto il caso fortuito (che deve avere i caratteri dell'eccezionalità e dell'imprevedibilità) ma anche il fatto dello stesso danneggiato. Si è al riguardo precisato che i concetti sono, quantomeno dal punto di vista strutturale, ontologicamente distinti. Il caso fortuito appartiene alla categoria dei fatti giuridici, senza intermediazione di alcun elemento soggettivo. La condotta del danneggiato rileva come atto giuridico, caratterizzato dalla colpa (articolo 1227 cod.civ.) (v. Cass. 27/4/2023, n. 11152). Riguardo alla condotta del danneggiato, per quanto rileva in questa sede, non è richiesto che essa sia <<autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile>>, ma è sufficiente che sia <<oggettivamente colposa>>, dovendo la colpa intendersi come <<oggettiva inosservanza di normale cautela correlata alla situazione di rischio percepibile con l'ordinaria diligenza>> (v. Cass. 1°/2/2018, n. 2483). Detta inosservanza si concretizza <<non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche di violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica, la quale può sostanziarsi in un comportamento, coevo o successivo al fatto illecito ovvero ad esso antecedente, purché legato da nesso eziologico con l'evento medesimo, ed estrinsecarsi con riferimento al danno-conseguenza della condotta di inadempimento o della condotta realizzante il fatto ingiusto e anche direttamente rispetto alla condotta costituente l'illecito, ovverossia giocare ed essere apprezzata come concausa della condotta di inadempimento stesso o di quella determinativa del fatto ingiusto, id est come concausa delle relative condotte illecite>> (Cass. 7/01/2025, n. 258; Cass. 15/3/2006, n. 5677; Cass., Sez. un., 21/11/2011, n. 24406). Né può trascurarsi il dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'articolo 2 Cost., fonte di una pretesa nei rapporti della vita di relazione all'adozione di un comportamento volto alla salvaguardia dell'utilità altrui nei limiti dell'apprezzabile sacrificio (ex multis cfr. Cass. 24/01/2024, n. 2376). 5) Sempre in termini generali va ribadito che la riconducibilità dell'evento dannoso ad una delle serie causali astrattamente idonea a cagionarlo non è naturalisticamente esclusa dal fatto umano (in assenza della suddetta serie causale non si sarebbe verificato il danno), bensì è giuridicamente ricondotta al principio di cui all'articolo 41 cod.pen., atteso che il comportamento della vittima si pone in termini di causa sopravvenuta che esclude il rapporto di causalità quando è stato da solo sufficiente a determinare l'evento (articolo 41, 2° comma, cod.pen.), in tal modo degradando il ruolo delle cause preesistenti a mera occasione del danno, e si pone in relazione causale con l'evento di danno non interrompendolo bensì più correttamente degradando al rango di mera occasione le cause preesistenti e deprivandole della loro efficienza in punto di causalità materiale, ma senza cancellarne l'efficienza naturalistica. 6) Orbene, l'attività di produzione e commercializzazione di derivati del tabacco è certamente, dal punto di vista naturalistico, causa del danno, ma può non esserlo laddove la condotta oggettivamente colposa della vittima assuma il ruolo di causa sopravvenuta dotata di efficienza causale esclusiva, neutralizzante l'apporto eziologico dell'attività dell'esercente, degradato al ruolo di mera occasione dell'evento dannoso. 7) La condotta del danneggiato può in astratto assumere invero rilievo causale meramente concorrente o esclusivo. In entrambe le ipotesi la specificazione della colpa del danneggiato rileva quale <<puntualizzazione del grado di prevenibilità e prevedibilità oggettive, che normalmente deve attendersi da chi si espone al rischio>> (Cass. 27/1/2025, n. 1902). 8) Questa Corte ha da tempo delineato i principi che debbono presiedere all'accertamento del nesso causale, evidenziando che <<un evento dannoso è da considerare causato sotto il profilo materiale da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della conditio sine qua non ): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante, non appaiano del tutto inverosimili (cosiddetta teoria della causalità adeguata o della regolarità causale, la quale in realtà, oltre che una teoria causale, è anche una teoria dell'imputazione del danno )>> e che occorre riconoscere <<rilievo, all'interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono ad una valutazione ex ante del tutto inverosimili, in base alle leggi generali di copertura proprie delle scienze esatte applicate ai fenomeni naturali, in tal senso giustificandosi il nesso relazionale causa-conseguenza secondo un giudizio di probabilità scientifica, ovvero -in assenza di tali leggiin base alla valutazione dei dati di esperienza e della rilevazione della intensità delle frequenze statistiche degli accadimenti, che consentano di desumere, per via induttiva, la esistenza del nesso eziologico … >> (Cass. 10/5/2000 n. 5962; Cass. 16/10/200, n. 12617; Cass. 22/10/2003, n. 15789; Cass. 19/07/2005, n. 15183; Cass. 22/10/2013, n. 23915; Cass. 12/11/2024, n. 29229), al netto della assenza di coincidenza dei criteri di accertamento del nesso eziologico in sede civile (preponderanza dell'evidenza) ed in sede penale (oltre ogni ragionevole dubbio). 9) Orbene, nell'impugnata sentenza la corte territoriale non ha correttamente applicato tali principi di diritto al caso di specie, essendosi limitata ad estrapolare la scelta di fumare dalle serie causali che hanno prodotto l'evento dannoso, senza enunciare le ragioni per cui ha ritenuto che l'attività di produzione e di commercializzazione del tabacco non abbia nella specie avuto efficienza causale alcuna nella determinazione dell'evento, relegando implicitamente tale azione a mero antefatto occasionale, inidoneo ad innescare la sequenza causale sfociata nell'evento lesivo (articolo 40 cod.pen.) (v. Cass. 24/5/2017, n. 13096). In particolare, tenuto conto che alla (OMISSIS) S.p.A. è stato imputato di non avere informato adeguatamente la danneggiata della nocività del fumo, al fine di verificare la colpa della vittima nella causazione del danno e accertarne l'efficienza causale esclusiva ovvero concorrente, la corte di merito avrebbe dovuto invero dapprima valutare se l'evento dannoso si sarebbe verosimilmente verificato ove uno dei due soggetti coinvolti avesse mantenuto la condotta alternativa corretta, per poi ripetere l'operazione a parti invertite (v. Cass. 4/9/2024, n. 23804; Cass. 9/5/2024, n. 12676), avendo l'obbligo di apprezzare ogni fattore causale rilevante al fine di stabilire la relativa incidenza (con)causale nella determinazione dell'evento lesivo (Cass. 29/9/2017, n. 22801). 10) Un tanto a fortiori nella specie, attesa la considerazione come pericolosa dell'attività di produzione e di commercializzazione del tabacco operata da questa Corte sicché, per recidere il nesso eziologico tra l'evento e l'attività pericolosa, la condotta del danneggiato deve essere adeguata alla natura e alla pericolosità della stessa (cfr. Cass. 22/12/2011, n. 28299), e va apprezzata in chiave necessariamente relazionale. 11) Questa Corte ha d'altro canto già avuto modo di porre in rilievo che <<ove l'attività considerata sia quella della produzione finalizzata al commercio e quindi all'uso da parte del consumatore, è ovvio che, se quell'attività sostanzialmente diffonde nel pubblico un rilevante pericolo, tale attività debba per sua natura definirsi pericolosa, tanto più se il pericolo invocato sia quello conseguente all'uso tipico e normale di quel prodotto e non ad un uso anomalo>>; altresì precisando che ove l'attività abbia ad oggetto la realizzazione di un prodotto destinato alla commercializzazione e poi al consumo, la caratteristica di pericolosità può riguardare anche tale prodotto, indipendentemente dal punto che esso sia altamente idoneo a produrre i danni non nella fase della produzione o della commercializzazione, ma nella fase del consumo>> (così Cass. 17/12/2009, n. 26516). Che la qualificazione di pericolosità possa trasferirsi dall'attività al prodotto – si parla di reificazione della pericolosità – è stato invero già affermato con riferimento ad altre attività (ad esempio, ma non solo, quella di distribuzione di bombole di gas) da Cass. 30/8/2004, n. 17369 (ed è stato, indirettamente, ribadito più di recente da Cass. 7/11/2019, n. 28626) che ha riconosciuto che l'articolo 2050 cod.civ. <<ben può prescindere dall'attività in sé e per sé, il che si verifica quando il pericolo si sia materializzato e trasfuso negli oggetti dell'attività medesima (…). Se è vero che di norma il danno è contestuale all'attività, il danno medesimo, peraltro, può prodursi in una fase successiva, purché ne dipenda in modo sufficientemente mediato (…) una volta accertato che il bene costituisce strumento pericoloso, anche se l'oggetto è uscito dalla sfera di controllo del produttore e sia passato nella sfera di disponibilità del danneggiato, in virtù dell'assunto secondo il quale, terminata la fase dinamica, il pericolo viene trasfuso dall'attività agli oggetti che ne sono il prodotto>>. 15) Né può costituire ostacolo a tale conclusione la tesi secondo cui la disciplina di cui all'articolo 2050 cod.civ. va riservata alle attività di prevenzione esclusivamente unilaterale (cioè quelle in cui è solo l'agente ad essere in grado di influire sulla probabilità e sulla gravità degli eventi dannosi), atteso che << la norma di cui all'articolo 1227, comma 1, cod.civ., opera per ogni figura di responsabilità, quindi anche per le ipotesi di responsabilità di indiscussa natura obiettiva, come quelle previste dagli articolo 2051 e 2052 cod.civ. Il dovere di comportamento diligente del danneggiato (dunque, anche il mancato rispetto dello stesso) è un elemento esterno al singolo paradigma normativo di responsabilità, per cui il dovere di prevenzione dell'incidente, che grava anche sul danneggiato sempre, non costituisce elemento per il perfezionamento della fattispecie legale>> (così Cass. 17/12/2009 n. 26516). 16) La corte territoriale, in sostanza, proprio in ragione della qualificazione come pericolosa dell'attività di produzione e commercio del tabacco non avrebbe dovuto limitarsi a ritenere la scelta del consumatore una causa prossima di rilievo, in quanto la condotta del danneggiato non solo va valutata diversamente a seconda della pericolosità dell'attività, ma anche perché la disciplina delle attività pericolose richiede una prova liberatoria specifica e particolarmente rigorosa, che non coincide propriamente con la prova del caso fortuito (comprendente il fatto colposo della vittima), essendo innegabile che nella pratica <<la differenza con il limite del fortuito si attenui sensibilmente>> (Cass. 13/5/2003, n. 7298). 17) Anche l'argomentazione posta dalla corte di merito a fondamento della ravvisata consapevolezza della vittima dei danni cagionati dal fumo risulta invero non essere stata assunta all'esito di un accertamento specifico della effettiva consapevolezza da parte della vittima della cancerogenicità del fumo. Accertamento viceversa indispensabile per ritenere quest'ultima in colpa, atteso che dalla medesima si sarebbe potuto esigere una diversa condotta (non fumare, fumare meno, non aspirare il fumo, adottare altre cautele), solo ove, informata del rischio specifico cui risultava esposta in ragione del consumo di sigarette, si fosse ciononostante ad esso consapevolmente e volontariamente indotta. 18) La tesi dei ricorrenti, fatta propria anche dal giudice di primo grado, era infatti che nel 1965, quando aveva iniziato a fumare, non avesse consapevolezza della correlazione tra il fumo di sigarette e il cancro, laddove il giudice di merito si è limitato ad affermare che la nocività del fumo era un fatto socialmente notorio negli anni settanta. La questione controversa però non è se vi fosse una generica consapevolezza sociale e personale dell'odierna vittima in ordine alla nocività del fumo bensì se quest'ultima fosse specificamente stata informata e consapevole che il fumo è cancerogeno. 19) Anche senza considerare che solo nel 1975 (con la L. n. 584/1975) è stato introdotto in Italia il divieto di fumare in determinati locali e sui mezzi di trasporto pubblico, e che tale divieto è stato esteso solo molto più tardi (dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 14 dicembre 1995) a determinati locali della pubblica amministrazione o dei gestori di servizi pubblici; e che il divieto di pubblicizzare direttamente o indirettamente qualsiasi prodotto da fumo risale alla L. n. 52/1983, mentre il divieto di pubblicità televisiva -anche indirettadelle sigarette è stato posto dal D.M. n. 425/1991, va sottolineato che la prima concreta misura di dissuasione diretta, frutto della certezza raggiunta dalla comunità scientifica che il fumo sia alla base di numerose forme di cancro e di un numero indefinito di altre gravi patologie, è stata introdotta dalla L. n. 428/1990, successivamente estesa e divenuta più rigorosa con il D.lgs. n. 184/2003, cui hanno fanno seguito misure di intervento più incisive e concrete nella lotta al tabagismo. 19) A tale stregua, essendo la nocività del fumo un fatto socialmente noto a partire dagli anni settanta, tutt'altro che socialmente nota era invero all'epoca cui risalgono i fatti di causa la correlazione specifica tra fumo e cancro (e altre gravi patologie). 20) Va certamente escluso che nel 1965, allorquando la vittima ha iniziato a fumare, fosse socialmente nota la correlazione tra fumo e cancro, e che la medesima fosse informata e conscia del rischio specifico di contrare il cancro e si sia ciononostante indotta a fumare fino a 20 sigarette al giorno, in virtù di consapevole sceltaedonistica. L'asimmetria informativa in Italia è stata –come dettocolmata normativamente solo con l'emanazione della L. n. 428 del 1990, persistendo peraltro in capo all'esercente un'attività come nella specie pericolosa, al fine di andare esente da responsabilità, l'obbligo di dimostrare di aver adottato ogni misura atta ad evitare il danno (es., l'adozione di filtri volti a contenere lo sprigionamento delle sostanze cancerogene provocate dalla combustione; la produzione di sigarette con una più contenuta percentuale di catrame e di altre sostanze cancerogene; l'informazione sui rischi del fumo). Va al riguardo osservato che invero già anteriormente all'emanazione della richiamata legge vi fosse invero tenuta alla stregua della diligenza qualificata e della buona fede o correttezza (v. Cass. 28/4/2022, n. 13342; Cass. 6/5/2020, n. 8494; Cass., 29/5/2018, n. 13362; Cass. 20/8/2015, n. 16990) cui avrebbe dovuto improntare la propria condotta nei rapporti della vita comune di relazione (v. Cass. 2/4/2021, n. 9200; Cass. 15/2/2007, n. 3462). Solamente a fronte della conoscenza o effettiva conoscibilità dei rischi specifici connaturati alla pratica del fumo può infatti configurarsi un concorso di colpa del consumatore fumatore. 21) Costituisce ius receptum che l'esercente l'attività pericolosa è tenuto ad adottare, in relazione al contesto di riferimento, misure precauzionali anche al di là da quelle strettamente imposte dalla legge (Cass. 21/05/2019, n. 13579), anche e soprattutto sul piano dell'informazione, al fine di evitare il rischio d'impresa derivante dall'immissione sul mercato di un prodotto ontologicamente dannoso senza specifiche informazioni in ordine al tipo di danni alla salute (conducenti come nella specie addirittura alla morte) cui il consumatore risulta esposto, e il relativo consumo inconsapevole da parte del fumatore. Consumo inconsapevole dei rischi specifici cui rimane esposto in ragione dell'immissione in commercio delle sigarette invero deponente per l'esclusione che la condotta del consumatore possa considerarsi improntata ad effettiva libertà di determinazione al riguardo e come tale possa pertanto assurgere a causa prossima di rilievo nella determinazione dell'evento dannoso nei termini dalla corte di merito erroneamente ravvisati nell'impugnata sentenza. 22) Della medesima, attesa la fondatezza nei suindicati termini del motivo -con assorbimento di ogni altra questione e diverso profilos'impone pertanto la cassazione in relazione, con rinvio alla Corte d'Appello di Potenza, che in diversa composizione procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei suindicati disattesi principi. Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione. Cassa in relazione l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d'Appello di Potenza, in diversa composizione.