Ha diritto alla Naspi il detenuto scarcerato per affidamento terapeutico?

La Corte di Cassazione, con la pronuncia in esame, ha riconosciuto la non volontarietà della perdita dell’occupazione inframuraria nel caso di scarcerazione del detenuto ammesso alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico e, quindi, l’accesso alla Naspi.

La Naspi La Naspi, Introdotta dall'articolo 3 D.lgs. n. 22/2015, è un'indennità a sostegno del reddito dei lavoratori subordinati che si trovano in una situazione di disoccupazione involontaria e che possiedano specifici requisiti contributivi (almeno 13 settimane nei 4 anni precedenti). Nel caso in esame il Giudice di primo grado aveva respinto la domanda di riconoscimento della Naspi proposta da un detenuto che aveva svolto per anni attività lavorativa a favore della Casa Circondariale quale addetto alla cucina e che aveva cessato il rapporto di lavoro inframurario a seguito della scarcerazione per ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico, escludendo da un lato l'equiparabilità del lavoro carcerario a quello libero e dall'altro la qualificazione come involontaria della cessazione del rapporto. La Corte d'Appello invece ha riformato la decisione di primo grado. Il lavoro inframurario La Suprema Corte ha esaminato in modo molto approfondito l'evoluzione normativa del lavoro svolto dai detenuti a favore dell'istituto penitenziario ovvero del Ministero di Giustizia esaminando dapprima l'articolo 1 del R.D. n. 787/1931, poi l'articolo 20 della L. n. 354/1975 anche alla luce degli interventi della Corte Costituzionale (con le decisioni n. 158/2001 e n. 341/2006) nonché l'ultima riforma del sistema penitenziario attuata con il D.lgs. n. 124/2018 che ha esplicitamente equiparato il lavoro intramurario a quello ordinario, stabilendo che «il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato» e prevedendo l'applicazione anche al lavoratore detenuto della tutela previdenziale e assistenziale (cfr articolo 20 Dlgs n. 124/2018). Il requisito della involontarietà della perdita dell'occupazione Secondo la Suprema Corte l'involontarietà non si riscontra solo nel caso in cui la perdita del lavoro avvenga per iniziativa del datore, poiché l'articolo 3 del d.lgs. n. 22/2015, ammettendo al beneficio anche i lavoratori che si siano dimessi per giusta causa o che abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro nei casi ivi previsti, ma anche nei casi in cui la perdita dell'occupazione, pur in presenza di una manifestazione di volontà del lavoratore di cessare il rapporto, deriva da una risoluzione, in concreto, da ascrivere ad un comportamento datoriale. Già la Corte di Cassazione in altra decisione (n. 396/2024) aveva ritenuto l'involontarietà dello stato di disoccupazione nella situazione similare di cessazione del lavoro intramurario per fine pena, essendo la cessazione comunque estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore; né dipendendo la scarcerazione dalla volontà del detenuto il quale neppure potrebbe rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro. Del tutto irrilevante è stato ritenuto il fatto che al momento dell'assunzione il detenuto possa magari già sapere quando sarà scarcerato e, quindi, quando il rapporto cesserà, trattandosi di situazione esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore assunto a tempo determinato, cui comunque spetta la NASPI. L'affidamento terapeutico La Suprema Corte ha quindi ritenuto la non volontarietà della perdita dell'occupazione inframuraria per il detenuto che cessi l'attività lavorativa a causa dell'ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico. Con riguardo a tale misura alternativa la Suprema Corte, analizzando l'articolo 94 del DPR n. 309/1990 ha chiarito che l'applicazione della stessa, pur presupponendo una preventiva richiesta dell'interessato, richiede un procedimento valutativo della sussistenza dei requisiti di legge ed un provvedimento dell'autorità Giudiziaria che escludono che la perdita dell'occupazione lavorativa intramuraria possa ricondursi ad una decisione unilaterale del lavoratore detenuto.

Presidente Esposito Relatore Magnanensi Fatti di causa Ma.Fr. aveva adito il Tribunale di Monza per vedere riconosciuto il proprio diritto al trattamento NASpI esponendo: di essere stato detenuto presso la Casa Circondariale di Monza dal 10 giugno 2016 al 12 maggio 2020, svolgendo attività per il Ministero di Giustizia come addetto alla cucina; che il 13 maggio 2020 era cessato il rapporto di lavoro a seguito di scarcerazione per ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico; di aver avanzato domanda di NASpI, che INPS ha respinto. Il Tribunale di Monza aveva rigettato il ricorso e la Corte d'Appello di Milano, con sentenza n. 568/2022, ha riformato la decisione. INPS censura detta sentenza sulla base di due motivi, illustrati da memoria. Ma.Fr. resiste con controricorso. La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte per il rigetto del ricorso. In sede di camera di consiglio, il Collegio ha riservato termine di 90 giorni per il deposito del provvedimento. Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso INPS lamenta violazione e falsa applicazione degli articolo 1,2,3 e 7 del D.Lgs. n. 22/2015, in relazione all'articolo20 della legge n. 354/1975 per avere il Giudice d'appello ritenuto che il lavoro carcerario intramurario prestato in favore dell'Istituto Penitenziario sia equivalente al lavoro esterno dei detenuti e che i detenuti che abbiano svolto solo lavoro carcerario in favore del Ministero della Giustizia, poi scarcerati, rientrino nell'ambito soggettivo dell'assicurazione contro la disoccupazione ed oggettivo dello stato di disoccupazione involontaria . Con il secondo motivo è dedotta violazione e falsa applicazione dell'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015 con riferimento all'articolo 94 del D.P.R. n. 309/1990, per avere il Giudice d'appello ritenuto sussistente il requisito dell'involontario stato di disoccupazione per la cessazione del lavoro carcerario di un detenuto in conseguenza della scarcerazione a seguito di ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico . Ad avviso dell'Istituto, la Corte avrebbe fatto mal governo delle norme de quibus riconoscendo l'indennità per la disoccupazione involontaria a chi, come il ricorrente, è stato scarcerato in quanto ammesso a misura alternativa, alla luce del fatto che il lavoro carcerario, per le sue peculiarità, non è pienamente equiparabile al lavoro libero e poiché la cessazione del rapporto di lavoro, nella specie, non è qualificabile come involontaria, non essendo avvenuta per un provvedimento e volontà del datore di lavoro ma su richiesta del prestatore. I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, per l'intima connessione che li lega, e sono infondati. Come già più volte affermato da questa Corte, la disciplina del lavoro intramurario ha subìto modifiche con l'evoluzione dei diritti del lavoratore e l'attuazione del principio costituzionale della finalità rieducativa delle pene detentive. Il Regolamento penitenziario di cui al R.D. n. 787/1931, all'articolo 1, prevedeva che in ogni stabilimento carcerario le pene si scontano con l'obbligo del lavoro : il lavoro svolto all'interno degli istituti carcerari ed alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria era considerato parte integrante della pena e modalità di esecuzione della stessa, di tal ché, traendo origine da un obbligo legale, non poteva equipararsi al lavoro libero, avente, invece, natura contrattuale. La legge n.354/1975 di riforma dell'Ordinamento Penitenziario ha superato tale impostazione e, valorizzando la prospettiva rieducativa ex articolo 27 Cost., ha impostato una nuova disciplina del lavoro carcerario in senso meno afflittivo. Il testo originario dell'articolo 20 della legge n. 354/1975 prevedeva che negli istituti penitenziari deve essere favorita in ogni modo la destinazione al lavoro dei detenuti e degli internati e che il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato , sancendone poi l'obbligatorietà per i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro. La Corte costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo l'articolo 20, comma 16, della legge cit. nella parte in cui non riconosceva il diritto al riposo annuale retribuito al detenuto che prestasse la propria attività lavorativa alle dipendenze dell'amministrazione carceraria, dopo aver premesso che il lavoro dei detenuti, che nella concezione giuridica posta alla base del regolamento carcerario del 1931 si poneva come un fattore di aggravata afflizione, cui dovevano sottostare quanti erano stati privati della libertà, è oggi divenuto, a seguito delle innovazioni dell'ordinamento penitenziario ispirate all'evoluzione della sensibilità politico-sociale, un elemento del trattamento rieducativo e che lo stesso carattere obbligatorio del lavoro penitenziario dei condannati e degli internati si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo , ha statuito che, se è vero che il lavoro del detenuto, specie quello intramurario, presenta le peculiarità derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di lavoro e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell'ambiente carcerario, per cui è ben possibile che la regolamentazione di tale rapporto conosca delle varianti o delle deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale , tuttavia, né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato (Corte cost. n. 158/2001). La Corte costituzionale si è, poi, nuovamente espressa sul lavoro inframurario con la sentenza n. 341/2006, fissando tre punti fermi nella materia (...). Il primo consiste nella necessaria tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro instauratisi nell'ambito dell'organizzazione penitenziaria. Tali diritti non sono soltanto quelli dei detenuti, ma anche quelli degli altri soggetti del rapporto, quali i datori di lavoro, che non devono subire indirettamente menomazioni della propria sfera giuridica per il solo fatto di aver stipulato contratti con persone sottoposte a restrizione della libertà personale. Il secondo punto consiste nella possibilità che il legislatore ponga limiti ai diritti in questione in rapporto alla condizione restrittiva della libertà personale cui è sottoposto il lavoratore detenuto. La configurazione sostanziale e la tutela giurisdizionale dei diritti nascenti dai rapporti di lavoro dei detenuti possono quindi non coincidere con quelle che contrassegnano il lavoro libero, se ciò risulta necessario per mantenere integre le modalità essenziali di esecuzione della pena, e per assicurare, con la previsione di specifiche modalità di svolgimento del processo, le corrispondenti esigenze organizzative dell'amministrazione penitenziaria. In altre parole, i diritti dei detenuti devono trovare un ragionevole bilanciamento nel diritto della collettività alla corretta esecuzione delle sanzioni penali. Il terzo punto, derivante dai primi due, è costituito dalla illegittimità di ogni irrazionale ingiustificata discriminazione , con riguardo ai diritti inerenti alle prestazioni lavorative, tra i detenuti e gli altri cittadini (sentenza n. 49 del 1992) . L'articolo 20 della legge n. 354/1975 è stato oggetto, negli anni, di ripetute modifiche. In particolare, la legge n. 296/1993 ha inciso sul comma 6, eliminando la discrezionalità del provvedimento del direttore del carcere nell'assegnazione al lavoro ed indicando i relativi criteri di priorità (anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione, carichi familiari, professionalità, precedenti e future attività) nonché le procedure (graduatorie in due liste, una generica e l'altra per qualifica o mestiere). Una svolta decisiva si è avuta, poi, con il D.Lgs. n. 124/2018 che, in attuazione della delega di cui all'articolo 1, commi 82, 83 e 85, lettere g), h) e r), della legge n. 103/2017, ha dettato la Riforma dell'ordinamento penitenziario in materia di vita detentiva e lavoro penitenziario: l'articolo 2 ha sostituito l'articolo 20 cit., il cui nuovo testo prevede ora, al comma 1, che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A tal fine, possono essere organizzati e gestiti, all'interno e all'esterno dell'istituto, lavorazioni e servizi attraverso l'impiego di prestazioni lavorative dei detenuti e degli internati. Possono, altresì, essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da enti pubblici o privati e corsi di formazione professionale organizzati e svolti da enti pubblici o privati . Se è rimasta la previsione secondo cui il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato , è, invece, stato eliminato il riferimento all'obbligatorietà del lavoro, che era in contrasto con il carattere non afflittivo del medesimo, ed è stato precisato, al comma 3, che l'organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale . All'obbligo del lavoro, su cui ancora si modulava l'oggettiva determinazione di criteri di assegnazione introdotti dalla legge n.296/1993, si è affiancato il riconoscimento di vari diritti soggettivi, quali la durata delle prestazioni lavorative non superiore ai limiti stabiliti dalle leggi vigenti, il riposo festivo (cui è stato aggiunto anche il diritto al riposo annuale retribuito) e la tutela assicurativa e previdenziale (cui si aggiunge la tutela contro gli infortuni e le malattie professionali, garantita dall'articolo4 n.9 della legge n.1124/1965). Alla luce del quadro come sopra sommariamente ricostruito, questa Corte ha già, pertanto, affermato che il lavoro intramurario (ha) sempre più perduto i tratti di specialità che all'inizio lo caratterizzavano ed (ha) visto il riconoscimento in favore del lavoratore detenuto dei diritti spettanti a tutti i lavoratori in genere e delle azioni a tutela innanzi al medesimo giudice del lavoro , risultando decisivo al riguardo che la causa tipica del rapporto di lavoro costituita dallo scambio tra attività lavorativa e remunerazioneresta centrale anche nel lavoro intramurario: anche qui, invero, la funzione economico sociale principale del rapporto lavorativo va vista nello scambio sinallagmatico tra prestazione lavorativa e compenso del lavoro (Cass. n. 396/2024). Di tal ché, le peculiarità derivanti dalla connessione tra profili del rapporto di lavoro ed organizzativi, disciplinari e di sicurezza propri dell'ambiente carcerario non elidono la configurazione tipologica e strutturale del rapporto subordinato intramurario né scalfiscono il nucleo essenziale dei diritti del lavoratore nell'ambito delle tutele costituzionalmente garantite e disciplinate dall'ordinamento (Cass. n. 4741/2025). Il fine di rieducazione e di reinserimento sociale non influisce, dunque, sui contenuti della prestazione e sulla modalità di svolgimento del rapporto, che va considerato come un ordinario rapporto di lavoro, nonostante la sua particolare regolamentazione normativa. Non si sottrae a tale equiparazione (già più volte affermata da questa Corte a diversi fini, cfr. Cass. n. 5605/1999 in tema di giurisdizione sulle controversie per differenze retributive, n.9969/2007 in tema di decorrenza del termine prescrizionale dei diritti del lavoratore, n.21573/2007 e n.3062/2015 su voci retributive e trattenute datoriali, n. 27340/2019 e n. 8055/1991 in tema di responsabilità datoriale ed obblighi di sicurezza articolo 2087 cod. civ., n.12205/2019 e n.20055/2009 in tema di competenza territoriale) la tutela previdenziale spettante ai lavoratori detenuti. Il novellato articolo 20 della legge n. 354/1975, al comma 13, espressamente statuisce che la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale . Alcune specifiche prestazioni sono, poi, espressamente riconosciute: è così, ad esempio, per gli assegni familiari, dovuti ai lavoratori detenuti o internati, per le persone a carico, nella misura e secondo le modalità di legge (articolo 23, co. 1, O.P.); per l'indennità di disoccupazione ordinaria o speciale, poiché l'articolo 19 della legge n. 56/1987, superando le letture restrittive che venivano date dell'articolo 20 O.P., prevede che lo stato di interdizione non costituisce causa di decadenza dal diritto all'indennità di disoccupazione; per l'assistenza sanitaria, in relazione alla quale l'articolo 17 del D.P.R. n. 230/2000 prevede che i detenuti e gli internati usufruiscono dell'assistenza sanitaria secondo le disposizioni della vigente normativa e che l'assistenza sanitaria viene prestata all'interno degli istituti penitenziari, salvi i casi previsti dall'articolo 11 O.P. di impossibilità di cure o accertamenti diagnostici da parte dei servizi sanitari degli istituti, ove si fa luogo al trasferimento del detenuto o internato. Come già affermato da questa Corte nella sent. n. 396/2024, quindi, dall'esame della disciplina generale e dei singoli istituti emerge che il lavoro intramurario è equiparato al lavoro subordinato anche ai fini previdenziali ed assistenziali, e che anzi le norme speciali previste sono norme di maggior favore. 30. La conclusione è confortata anche dalle indicazioni in materia che derivano dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, che si è occupata della previsione della Convenzione EDU che consente il lavoro carcerario purché si tratti di lavoro normalmente richiesto alle persone in stato detentivo (articolo 4 Convenzione). 31. La Corte, in particolare, nel caso Stummer v. Austria (r.g. n. 37452/02), deciso il 7.7.11 dalla Grande Camera, è stata chiamata a verificare se sia lavoro normale quello prestato dal detenuto senza affiliazione al regime previdenziale (in un ordinamento nazionale in cui era però comunque riconosciuta allo stesso la tutela contro la disoccupazione). Al di là della soluzione del problema specifico sottoposto ad essa (che, come detto, riguardava la compatibilità con la Convenzione EDU della mancata previsione nella legislazione nazionale austriaca di contribuzione per il lavoro carcerario ai fini della maturazione della pensione, in presenza peraltro di tutela contro la disoccupazione), la Corte ha evidenziato, nell'esaminare la doglianza relativa alla dedotta violazione degli articolo 14 della Convenzione (che prevede il divieto di discriminazione) in combinato disposto con l'articolo 1 del Protocollo 1 (che prevede la tutela dei beni), che le peculiarità del lavoro carcerario rispetto al lavoro ordinario in sé non rilevano ai fini della soluzione del problema in questione, perché le dette peculiarità restano del tutto estranee al thema decidendum e sono inidonee come tali a fondare la soluzione del problema sottoposto. 32. Scrive la Corte EDU: Il lavoro carcerario differisce sotto molti aspetti dal lavoro svolto dai dipendenti ordinari. Ha lo scopo primario di riabilitazione e risocializzazione. L'orario di lavoro, la retribuzione e l'utilizzo di parte di essa come contributo di mantenimento riflettono il particolare contesto carcerario. Inoltre, nel sistema austriaco, all'obbligo di lavorare dei detenuti corrisponde l'obbligo delle autorità penitenziarie di fornire loro un lavoro adeguato. In effetti, tale situazione è ben lontana da un regolare rapporto datore di lavoro-dipendente. Si potrebbe sostenere che, di conseguenza, il ricorrente -in quanto detenuto che lavoravanon si trovava in una situazione sostanzialmente simile a quella dei dipendenti ordinari. Tuttavia, secondo la Corte, né il fatto che il lavoro penitenziario miri al reinserimento e alla risocializzazione, né il carattere obbligatorio del lavoro penitenziario sono decisivi nel caso di specie. Inoltre, la Corte ritiene che non sia decisivo se il lavoro viene svolto per le autorità penitenziarie, come nel caso del ricorrente, o per un datore di lavoro privato, sebbene in quest'ultimo caso sembri esserci una maggiore somiglianza con un regolare rapporto di lavoro. Ciò che è in discussione nel caso di specie non è tanto la natura e lo scopo del lavoro penitenziario in sé, quanto piuttosto la necessità di provvedere alla vecchiaia. La Corte ritiene che a questo riguardo il ricorrente, in quanto detenuto che lavorava, si trovava in una situazione sostanzialmente simile a quella dei dipendenti ordinari (par. 93) . In conclusione, può rilevarsi che, per i profili che qui interessano, il lavoro inframurario è del tutto equiparabile al lavoro ordinario anche ai fini previdenziali e le peculiarità che lo connotano non influiscono sulla soluzione del problema relativo alla spettanza o meno della tutela previdenziale, stanti la natura e la funzione della stessa. Nel caso portato oggi all'attenzione di questa Corte viene in considerazione l'invocato diritto alla NASpI da parte di un detenuto che ha cessato l'attività lavorativa alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria in quanto scarcerato a seguito dell'ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico: pacifico il possesso da parte dell'interessato dei requisiti di accesso al beneficio richiesti dall'articolo3 del D.Lgs. n. 22/2015, permane in contestazione solo la sussistenza della natura involontaria della perdita dell'occupazione. Con la più volte richiamata sentenza n. 396/2024 questa Corte ha già affermato la riconoscibilità dell'indennità NASpI in favore del detenuto che viene scarcerato per fine pena, cessando, così, la prestazione lavorativa inframuraria precedentemente resa. Si è osservato che la funzione del trattamento è quella di fornire una tutela di sostegno al reddito di lavoratori con rapporto di lavoro subordinato che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione: tale involontarietà non si riscontra solo nel caso in cui la perdita del lavoro si colleghi alla sfera di iniziativa o influenza del datore o alle sue prerogative imprenditoriali, poiché l'articolo 3 del D.Lgs. n. 22/2015, ammettendo al beneficio anche i lavoratori che si siano dimessi per giusta causa o che abbiano risolto consensualmente il rapporto di lavoro nei casi ivi previsti, evidentemente riconosce l'involontarietà della perdita dell'occupazione anche laddove, pur in presenza di una manifestazione di volontà del lavoratore di risolvere il rapporto, la risoluzione è in concreto da ascrivere ad un comportamento datoriale e non ad una libera scelta del prestatore. A sostegno è stata richiamata la sentenza n. 269/2002 con cui la Corte Costituzionale, giudicando non fondata nei sensi di cui in motivazione la questione di legittimità dell'articolo 34, comma 5, della legge n. 448/1998, laddove statuisce che la cessazione del rapporto per dimissioni intervenuta con decorrenza successiva al 31 dicembre 1998 non dà titolo alla concessione della indennità di disoccupazione , ha ritenuto che le dimissioni per giusta causa non sono riconducibili alla libera scelta del lavoratore in quanto ascrivibili al comportamento di altro soggetto: le dimissioni indotte da una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato, così grave da impedirne persino la provvisoria prosecuzione (articolo 2119 cod. civ.), comportano, dunque, come rilevato dallo stesso giudice a quo uno stato di disoccupazione involontaria e devono ritenersi non comprese, in assenza di una espressa previsione in senso contrario, nell'ambito di operatività della disposizione censurata, potendosi pervenire a tale risultato attraverso una interpretazione conforme a Costituzione della stessa . Cass. n. 396/2024 ha, quindi, concluso che, anche nella cessazione del lavoro intramurario per fine pena, lo stato di disoccupazione è involontario, essendo la cessazione del rapporto comunque estranea alla sfera di disponibilità del lavoratore; del resto, né la scarcerazione dipende dalla volontà del detenuto né il detenuto può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro. 38. A tali fini, ancora, non può nemmeno rilevare che al momento dell'assunzione il detenuto possa magari già sapere quando sarà scarcerato e, conseguentemente, quando il suo rapporto cesserà, trattandosi di situazione esattamente sovrapponibile a quella del lavoratore assunto a tempo determinato, cui spetta comunque la NASPI anche se la cessazione del rapporto è in qualche modo riconducibile alla volontà che egli ha manifestato all'atto dell'assunzione a termine. Non va infatti sottaciuto, sul piano strettamente giuridico, che la tutela verso la disoccupazione compete anche, per espressa previsione di legge, in relazione ad eventi obiettivi, quale la scadenza del termine apposto al rapporto temporaneo, a prescindere dalla volontà delle parti . Tali considerazioni, che il Collegio condivide appieno, valgono anche nel caso oggi affrontato: anche per il detenuto che cessi l'attività lavorativa a causa dell'ammissione alla misura alternativa dell'affidamento terapeutico non può che evidenziarsi la non volontarietà della perdita dell'occupazione inframuraria. Non porta a conclusioni diverse, come invece ritenuto dall'Istituto, la disciplina che regola detto affidamento, id est l'articolo 94 del TU stupefacenti D.P.R. n. 309/1994, in forza del quale Se la pena detentiva deve essere eseguita nei confronti di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi, l'interessato può chiedere in ogni momento di essere affidato in prova al servizio sociale per proseguire o intraprendere l'attività terapeutica sulla base di un programma da lui concordato con una azienda unità sanitaria locale o con una struttura privata autorizzata ......Alla domanda è allegata, a pena di inammissibilità, certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica o da una struttura privata accreditata per l'attività di diagnosi prevista dal comma 2, lettera d), dell'articolo 116 attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, la procedura con la quale è stato accertato l'uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, l'andamento del programma concordato eventualmente in corso e la sua idoneità, ai fini del recupero del condannato....... . Se è vero che l'applicazione della misura alternativa presuppone una previa richiesta dell'interessato, non può, peraltro, sottacersi che l'applicazione in concreto è frutto di una valutazione e di una scelta che competono all'autorità giudiziaria, il cui provvedimento è imprescindibile condizione perché la misura venga attuata, secondo quanto stabilito dallo stesso articolo 94 cit.: in sostanza, la possibilità di fare ricorso alla misura viene sì vagliata a seguito di iniziativa dell'interessato, che presenta apposita istanza, ma la concessione e la concreta attivazione della misura richiedono un procedimento valutativo circa la sussistenza dei presupposti di legge ed un provvedimento dell'autorità giudiziaria, di tal ché non si può affermare che siano frutto di una decisione unilateralmente assunta dal lavoratore. Inoltre, l'attuazione dei principi di cui agli articolo 3 e 38 della Costituzione impone che la tutela contro la disoccupazione involontaria operi in modo tanto più incisivo quando la perdita dell'attività lavorativa sia oggettivamente determinata dalla necessità del soggetto di tutelare la propria salute, a fronte di una condizione lavorativa con la stessa incompatibile, o il proprio diritto a forme di espiazione pena meno afflittive e, comunque, legate a specifiche e peculiari condizioni soggettive, poiché in tali casi la scelta del lavoratore di avanzare domanda all'amministrazione per l'applicazione di misura alternativa non può dirsi libera bensì necessitata dalla tutela di diritti di rango costituzionale: di conseguenza, la perdita dell'attività lavorativa, che costituisce l'effetto indiretto dell'ammissione alla misura, non può dirsi equiparabile ad una spontanea rinuncia al posto di lavoro, lavoro che, evidentemente, il detenuto non ha possibilità di proseguire se non sacrificando il suo diritto alla salute. Non vale in senso contrario la giurisprudenza di questa Corte in punto decorrenza della prescrizione del diritto all'adeguamento retributivo, laddove viene affermato che il rapporto di lavoro con l'Amministrazione va considerato come unico, non essendo configurabili interruzioni intermedie, volontariamente concordate, nei periodi in cui la persona privata della libertà è in attesa della chiamata al lavoro, rispetto alla quale il detenuto non ha alcun potere di controllo o di scelta e versa in una condizione di soggezione e di metus , di tal chè dette cessazioni intermedie sono irrilevanti ai fini della prescrizione proprio perché, a ben guardare, neppure sono realmente tali, configurandosi, piuttosto, come sospensioni del rapporto di lavoro (ex multis, Cass. n. 19007/2024). Sul punto si registra un orientamento ormai costante, ben espresso, ex multis, da Cass. n. 19007/2024 (altresì, solo da ultimo, n. 17484/2024, n. 3252172024, n. 5510/2025), nel caso di detenuto che aveva svolto attività alle dipendenze dell'Amministrazione presso diverse case circondariali ed in diversi periodi. La pronuncia ha preso le mosse dalla speciale forma organizzativa del lavoro carcerario, connotata dalla istituzione presso ogni istituto penitenziario di una commissione composta dal direttore o altro dirigente penitenziario delegato, dai responsabili dell'area sicurezza e dell'area giuridico-pedagogica, dal dirigente sanitario della struttura penitenziaria, da un funzionario dell'ufficio per l'esecuzione penale esterna, dal direttore del centro per l'impiego o da un suo delegato, da un rappresentante sindacale unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale e un rappresentante unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello territoriale, che ha il compito a) di formare due elenchi, uno generico e l'altro per qualifica, per l'assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati; b) di individuare le attività lavorative o i posti di lavoro ai quali, per motivi di sicurezza, sono assegnati detenuti o internati, in deroga agli elenchi di cui alla lettera a); c) di stabilire criteri per l'avvicendamento nei posti di lavoro alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria, nel rispetto delle direttive emanate dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. È stato, quindi, sottolineato che detto meccanismo pone i detenuti in una condizione di metus , che si desume da plurimi elementi, come a) l'essere rimessa alla direzione dell'istituto l'elaborazione e l'indicazione di un piano di lavoro in relazione al numero dei detenuti, all'organico del personale civile e di polizia penitenziaria disponibile e alle strutture produttive; b) l'inidoneità della previsione legislativa di una commissione interna a realizzare un sistema che non rimetta in concreto alla discrezionalità dell'istituto la scelta del detenuto da assegnare al lavoro (commissione autonoma nel deliberare criteri ed elenchi, posto che il comma 6 del nuovo articolo 20 cit. prevede che alle riunioni della commissione partecipa un rappresentante dei detenuti e degli internati ma senza potere deliberativo ); c) la notoria scarsezza dei lavori in rapporto al numero dei detenuti; d) la endemica carenza di risorse da investire in retribuzioni; e) la presenza di possibilità di lavoro solo in taluni istituti penitenziari e non in altri; f) l'assenza di regole generali e predeterminate tali da garantire una certa forma di controllo preventivo. Pertanto, in questo quadro, non rilevano ai fini della prescrizione le cessazioni intermedie che, a ben guardare, neppure sono realmente tali configurandosi piuttosto come sospensioni del rapporto di lavoro, se si considera che vi sono una chiamata e un prefissato periodo di lavoro secondo turni e per un tempo limitato, cui seguono altre chiamate in un unico contesto di detenzione : rileva, invece, solo la cessazione del rapporto. Ed allora, se certamente detta cessazione si ha con la fine dello stato di detenzione, che non dipende dalla volontà del recluso o internato il quale non può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro , ciò non esclude che non possano esservi anche cessazioni pur in costanza di detenzione, essendo onere dell'amministrazione individuare il momento nel quale il rapporto di lavoro sostanzialmente unico debba considerarsi concluso, qualora ciò sia avvenuto prima della fine dello stato di detenzione ed a tal fine, oltre alla cessazione della detenzione, possono rilevare altre circostanze (() come ad es. l'età, lo stato di salute o di idoneità al lavoro etc. ()) nonché, come nella specie, la scarcerazione per ammissione a misura alternativa alla detenzione. Ricondotto, in generale, il lavoro svolto dal detenuto alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria nel novero dei comuni rapporti di lavoro, ricordato che l'articolo 20 cit. garantisce ai detenuti la tutela assicurativa e previdenziale ed esclusa la volontarietà della cessazione del rapporto lavorativo, non vi sono ragioni che rendano il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento della NASPI. Del resto, non solo l'Amministrazione penitenziaria versa all'INPS i contributi per la disoccupazione anche per i detenuti lavoratori, il che corrobora la soluzione che riconosce all'ex-detenuto la tutela previdenziale richiesta, ma altresì non è rilevante che l'Amministrazione penitenziaria non persegua scopi di lucro, essendo pacifico che la NASPI spetta a tutti i lavoratori di cui all'articolo 1 del D.Lgs. n. 22, anche se dipendenti da enti che non perseguono scopi di lucro. Neppure rileva che i posti di lavoro vengano assegnati ai detenuti a rotazione , atteso che si tratta di modalità necessaria a conciliare l'impegno sancito a carico dell'Amministrazione di assicurare ai detenuti il lavoro (articolo 15, co. 2, O.P.) con la notoria scarsità quantitativa dell'offerta di lavoro in carcere, da cui non può dipendere alcuna conseguenza in termini di trattamento previdenziale. Per quanto concerne, poi, l'asserita impossibilità di soddisfare la condizione di cui all'articolo 3, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 22/2015, come osservato dalla Procura generale, il ricorrente ha chiesto la NASpI quand'era stato scarcerato a seguito di ammissione alla misura alternativa, di tal chè non solo era in condizioni di dichiarare al sistema informativo unitario delle politiche del lavoro la propria immediata disponibilità allo svolgimento di attività lavorativa e alla partecipazione alle misure di politica attiva del lavoro concordate con il Centro per l'impiego, come previsto dall'articolo 19 del D.Lgs. n. 150/2015 (per il quale i riferimenti normativi al stato di disoccupazione ai sensi dell'articolo 1, comma 2, lett. c) del D.Lgs. n. 181/2000 si intendono riferiti alla definizione di cui al presente articolo ) ma anche di aderire effettivamente all'offerta lavorativa o formativa come qualunque altro lavoratore libero. Infine, come già osservato in Cass. n. 4741/2025, infondata è l'ulteriore osservazione svolta da INPS sulla incompatibilità della condizione di disoccupazione involontaria del detenuto in ragione dell'indisponibile dichiarazione di incollocabilità al lavoro poiché è previsto sia l'inserimento del detenuto disponibile al lavoro nelle graduatorie interne formate a cura della Commissione di cui all'articolo 20 commi 4 e 5 L.354/75 (trattasi di elenchi per l'assegnazione al lavoro dei detenuti e degli internati, tenendo conto esclusivamente dell'anzianità di disoccupazione maturata durante lo stato di detenzione e di internamento, dei carichi familiari e delle abilità lavorative possedute ), sia la facoltà dei detenuti, a mente dell'articolo 19 co.2 L.56/87, di iscriversi nelle liste di collocamento e, finché permane lo stato di detenzione o di internamento, sono esonerati dalla conferma dello stato di disoccupazione. Su richiesta del detenuto o dell'internato, la direzione dell'istituto penitenziario provvede a segnalare periodicamente lo stato di detenzione o di internamento . Il ricorso va pertanto respinto. In considerazione della sopravvenienza degli arresti giurisprudenziali richiamati rispetto all'introduzione del giudizio, le spese di legittimità vengono compensate. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso. Ai sensi dell'articolo 52, comma 5, del D.Lgs. n. 196/2003 e ss. mm. la Corte dispone che, in caso di diffusione, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi di Ma.Fr. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di legittimità.