Lavoro carcerario: da quando decorre la prescrizione per i crediti retributivi del detenuto?

In materia di lavoro carcerario, la prescrizione dei crediti retributivi decorre dalla cessazione definitiva della detenzione, in quanto le cessazioni intermedie rappresentano solo sospensioni e non reali interruzioni del rapporto lavorativo.

Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione è intervenuta nuovamente in materia di lavoro carcerario e prescrizione dei crediti retributivi, pronunciandosi sul ricorso presentato da un detenuto avverso il Ministero della Giustizia. Il caso in esame trae origine da una parziale riforma, da parte della Corte d’Appello di Roma, della decisione del Tribunale che aveva riconosciuto al detenuto un adeguamento retributivo per il lavoro svolto in carcere. In appello, il Ministero aveva ottenuto il riconoscimento della prescrizione per le differenze retributive maturate negli anni 2006-2008, ritenute estinte in quanto, secondo la giurisprudenza richiamata, la prescrizione decorre dalla cessazione dell’attività lavorativa, anche se questa non coincide con la fine della detenzione. Avverso tale decisione, il detenuto adiva la Suprema Corte, la quale – accogliendo il motivo del ricorso relativo alla questione dell’effettiva cessazione del rapporto di lavoro ai fini della prescrizione - ha ribadito che le cessazioni intermedie del lavoro svolto in carcere non assumono rilievo, in quanto non costituiscono vere e proprie cessazioni del rapporto lavorativo, ma piuttosto semplici sospensioni. Questo accade perché il lavoro carcerario si svolge secondo turni e periodi predeterminati, con successive chiamate all’interno dello stesso periodo detentivo. Il rapporto di lavoro può considerarsi effettivamente concluso solo con la cessazione dello stato di detenzione, evento che prescinde dalla volontà del detenuto, il quale non ha la possibilità di mantenere il rapporto oltre la fine della pena. Prima di tale momento, la natura stessa del lavoro in carcere – organizzato su turni, finalizzato alla rieducazione e al reinserimento sociale, e regolato tramite elenchi e avvicendamenti – esclude che si possa parlare di rapporti a termine come avviene nel lavoro libero, dove durata e modalità sono disciplinate dalla legge e concordate tra le parti. «In ogni caso», secondo i Giudici, «è onere dell’amministrazione individuare il momento nel quale il rapporto di lavoro sostanzialmente unico debba considerarsi concluso, qualora ciò sia avvenuto prima della fine dello stato di detenzione ed a tal fine, oltre alla cessazione della detenzione, possono rilevare altre circostanze (come ad es. l’età, lo stato di salute o di idoneità al lavoro etc.)».

Presidente Di Paolantonio - Relatore Garri Fatti di causa La Corte di appello di Roma ha accolto parzialmente l'appello proposto dal Ministero della Giustizia avverso la sentenza del Tribunale che l'aveva condannato a corrispondere a S.P. la somma di € 2.326,74, a titolo di adeguamento della retribuzione spettante al detenuto per il lavoro carcerario prestato ai sensi delle tariffe sindacali di settore. La Corte distrettuale, dichiarata inammissibile l'eccezione riproposta dal S.P. in appello quanto alla ritualità della costituzione del Ministero (rilevando che a fronte della pronuncia implicita doveva essere proposto appello incidentale), ha richiamato la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la prescrizione rimane sospesa solo durante lo svolgimento del lavoro carcerario, decorrendo, pertanto, dalla cessazione dello stesso, anche se non coincidente con la cessazione della detenzione. Ha di conseguenza ritenuto prescritte, in applicazione dei principi di diritto sopra riassunti, solo le differenze maturate negli anni 2006/2008 in quanto la brevissima cesura verificatasi nel mese di marzo 2015 rispetto alla medesima attività di porta vitto/scopino non aveva determinato l'effettiva interruzione del rapporto. Avverso la sentenza ricorre S.P. sulla base di due motivi cui resiste con controricorso l'amministrazione. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione dell'articolo 417 bis c.p.c. in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c.. Il ricorrente eccepisce nuovamente la irritualità della costituzione del Ministero e ne trae la conseguenza che, non potendosi quest'ultimo costituire a mezzo di funzionario, l'eccezione di prescrizione doveva essere ritenuta non proposta. Al riguardo, è da osservarsi come la Corte distrettuale ha ritenuto non esaminabile in appello l'eccepito vizio di costituzione in giudizio del Ministero a mezzo del suo funzionario non avendo il S.P. specificamente impugnato con appello incidentale la pronuncia implicita del Tribunale in ordine alla validità della predetta costituzione, con conseguente ritualità della proposta eccezione di prescrizione. Conseguentemente, il motivo è inammissibile. Va premesso che il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, l'esposizione dei motivi per i quali si richiede la cassazione della sentenza impugnata, aventi i requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata (Cass., 25/02/2004, n. 3741; Cass., 23/03/2005, n. 6219; Cass., 17/07/2007, n. 15952; Cass., 19/08/2009, n. 18421; Cass. 24/02/2020, n. 4905). In particolare, è necessario che venga contestata specificamente, a pena di inammissibilità, la «ratio decidendi» posta a fondamento della pronuncia oggetto di impugnazione (Cass., 10/08/2017, n. 19989). Ciò posto, la censura non si confronta con la ratio decidendi della pronuncia impugnata fondata sulla necessità dell'appello incidentale piuttosto che sulla validità della costituzione a mezzo di funzionario. 2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli articolo 2948 c.c. e 20 e seguenti della legge 354/1975. Il ricorrente, dato atto della giurisprudenza di questa Corte richiamata dal giudice d'appello, evidenzia che in quei casi non si discuteva delle “cessazioni intermedie”, che non integrano una cessazione del rapporto di lavoro in senso proprio, perché fino a quando il detenuto resta tale si verifica una sorta di “quiescenza” del rapporto medesimo, che può essere sempre ripristinato nella sua funzionalità nel rispetto dei turni di rotazione e dell'avvicendamento fra i diversi detenuti. Il motivo è fondato. Questa Corte di recente ha affermato il principio secondo cui «non rilevano ai fini della prescrizione le cessazioni intermedie, che, a ben guardare, neppure sono realmente tali configurandosi piuttosto come sospensioni del rapporto di lavoro, se si considera che vi sono una chiamata e un prefissato periodo di lavoro secondo turni e per un tempo limitato, cui seguono altre chiamate in un unico contesto di detenzione. Certamente, una cessazione del rapporto di lavoro vi è con la fine dello stato di detenzione che non dipende dalla volontà del recluso o internato il quale non può rifiutarla, al fine di mantenere il rapporto di lavoro (come affermato da questa Corte nella già citata recente Cass. 5 gennaio 2024, n. 396 la cessazione per fine pena del rapporto di lavoro intramurario svolto alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria dà luogo ad uno stato di disoccupazione involontaria rilevante ai fini della tutela previdenziale della NASPI). Ma prima di questo momento, le peculiari caratteristiche dell'attività lavorativa e la sua funzione rieducativa e di reinserimento sociale che, per tali motivi, prevede la predisposizione di meri elenchi per l'ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento, escludono la configurabilità di periodi di lavoro, come quelli dei contratti a termine, volontariamente concordati in un sistema legislativamente disciplinato quanto a causali, oggetto e durata. 15. In ogni caso, è onere dell'amministrazione individuare il momento nel quale il rapporto di lavoro sostanzialmente unico debba considerarsi concluso, qualora ciò sia avvenuto prima della fine dello stato di salute o di idoneità al lavoro etc.) che non possono qui essere esaminate in dettaglio, non venendo in evidenza nel caso di specie.» (cfr. Cass. n. 17484/2024). Alla luce del suesposto principio, condiviso dal Collegio e qui ribadito per le ragioni indicate nella motivazione della sentenza richiamata (alla quale si rinvia ex articolo 118 disp. att. c.p.c.), la censura va accolta con cassazione e rinvio alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame, provvedendo anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e dichiara inammissibile il primo motivo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.