Le Sezioni Unite sull’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali ed offensività in concreto

Le Sezioni Unite penali hanno affermato che l’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall’articolo 30 legge n. 646/1982, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell’ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto.

La Corte di appello confermava la sentenza emessa dal Tribunale, condannando l'imputato per il reato di cui agli articolo 30 e 31 legge n. 646/1982 . La Corte di appello ha respinto i motivi di impugnazione, quanto alla inoffensività del fatto, affermata dall'imputato perché l'incremento patrimoniale non comunicato nei termini è derivato da una successione ereditaria, ritenendo violata la finalità della norma, di consentire un controllo sui beni dei condannati per il delitto di cui all'articolo 416-bis cod. pen., e quanto all'asserita assenza di dolo perché, essendo il reato punito a titolo di dolo generico, è sufficiente la coscienza e volontà di non rispettare il precetto normativo e non può essere addotta, quale giustificazione, l'ignoranza del suo contenuto. Proposto ricorso in Cassazione, la prima sezione ha rimesso alle Sezioni Unite la questione se l'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall'articolo 30 della legge n. 646 del 13/09/1982 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell'ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria. In ordine al tema rilevante ai fini della decisione si registrano due contrapposte interpretazioni emerse nel panorama della giurisprudenza di legittimità. Secondo l'orientamento prevalente, la norma sanziona l'omessa comunicazione anche nel caso di acquisti soggetti ad una pubblicità legale effettivamente applicata, presentando anche tale condotta l'offensività richiesta, cioè l'idoneità a porre in pericolo il bene giuridico protetto (che Sez. U, n. 16896 del 31/01/2019 ha ribadito dover essere individuato nell'ordine pubblico). Tale orientamento risale alle sentenze Sez. 5, n. 15220/2003; Sez. 5, n. 14996/2005. Muovendo dalla natura del bene giuridico protetto dalla norma, identificato nella tutela dell'ordine pubblico, che richiede un controllo tempestivo delle variazioni del patrimonio di un soggetto pericoloso in quanto condannato per specifici reati, quale quello di cui all'articolo 416-bis cod. pen. (Sez. 6, n. 31817/2009: «l'obbligo di comunicazione costituisce una misura di prevenzione di natura patrimoniale volta a esercitare un controllo preventivo e costante sui beni dei condannati o degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o camorristico al fine di accertare ogni forma di illecito arricchimento»), si è concluso che appare evidente che l'oggetto di tale controllo, ed anche la sua finalità, siano quelli di verificare l'eventuale disponibilità, da parte di tale soggetto, di beni che possano derivare dall'attività criminosa precedente o da collegamenti ancora in essere con detta attività, ovvero di verificare movimenti finanziari che possano far sorgere il sospetto di una circolazione di beni o denaro aventi una provenienza non lecita. Solo le movimentazioni di beni e denaro non completamente lecite possono, infatti, creare problemi di ordine pubblico e legittimare l'intervento dello Stato che, nel caso della condotta qui sanzionata, non si limita al controllo sulle varie operazioni, ma giunge alla ablazione del bene o della somma movimentate, mediante la sanzione della confisca, prevista dalla legge nel caso dell'omessa comunicazione. Altro formante giurisprudenziale ha ritenuto che l'ipotesi di un'acquisizione patrimoniale derivante da successione ereditaria risulta assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto (Sez. 1, n. 10024 /2002). Proprio avendo di mira lo scopo della norma di cui all'articolo 30 della legge n. 646/1982, ovvero la specificazione della tutela offerta al bene giuridico protetto nei termini sopra indicati, Sez. 6, n. 17691/2016, ha escluso l'obbligo di comunicazione per le rendite provenienti da beni già di proprietà del condannato (in particolare canoni di locazione) affermando che esso deve limitarsi alle variazioni derivanti dall'impiego di fonti patrimoniali o da assunzione di corrispondenti obblighi da parte del condannato (un'analoga conclusione negativa, ma solo in via incidentale, era stata espressa da Sez. 6, n. 41342/2011). L'orientamento prevalente ha ricevuto nuovo slancio per effetto della sentenza Corte Cost. n. 99/2017 che ha confermato che la condotta omissiva prevista dall'articolo 30 legge n. 646/1982 mantiene offensività 'in astratto' anche quando abbia ad oggetto acquisizioni soggette a pubblicità legale, pur precisandosi che possa essere ritenuta priva di offensività 'in concreto', e cioè risulti assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto. Invero, Sez. 2, n. 19647/2024 e Sez. 2, n. 24493/2023, hanno ribadito l'orientamento maggioritario, che ritiene soggetta all'obbligo di comunicazione qualunque variazione patrimoniale, anche se effettuata con atti che hanno avuto pubblicità legale ed anche se certamente proveniente da fonte lecita, richiamando il concetto di offensività in astratto della omissione di tali comunicazioni. La Corte di Cassazione però, si è molto raramente occupata di valutare la sussistenza della offensività in concreto dell'omessa comunicazione di incrementi patrimoniali derivanti da successione ereditaria: assai contenuto è il numero di pronunce relative alla contestazione del delitto di cui all'articolo 30 legge n. 646/1982 per l'omessa comunicazioni di acquisizioni per via ereditaria (Sez. 5, n. 20088/2013). Le Sezioni Unite con la pronuncia in commento, dopo aver ricordato che la Corte Costituzionale ha ritenuto perfettamente legittimo il sistema delineato dal legislatore, non rilevando alcun contrasto con l'articolo 25, comma 2, Cost., anche nel caso in cui le variazioni patrimoniali dipendono da atti soggetti a pubblicità legale, non essendo rilevante ai fini della inoffensività della condotta la circostanza che la trascrizione e la registrazione determinano la conoscenza effettiva del negozio giuridico che ne forma oggetto, hanno precisato che nella fattispecie come quella odierna, ove l'incremento patrimoniale sia effetto di un atto pubblico soggetto a trascrizione, lo stesso giudice delle leggi demanda al giudice il compito di accertare la sussistenza dell'offensività in concreto. Dal momento che la sanzione penale incide sempre sulla dignità della persona, articolo 2-3 Cost., e – direttamente o indirettamente – sulla libertà personale, essa può giustificarsi, in termini di proporzione, solo a fronte dell'offesa ad un bene giuridico di rango comparabile. Infliggere una pena per un fatto inoffensivo contrasta inoltre con gli articolo 27 comma 1 e 3, Cost.: perché chi viene punito per un fatto in sé innocuo viene strumentalizzato per finalità di prevenzione generale e non potrebbe ragionevolmente accettare come legittimo un tale intervento statuale, venendo così meno la necessaria premessa per un intervento statuale in chiave di rieducazione. L'affermazione del principio di offensività, riconosciuto come canone costituzionale e la sua valenza, insieme a quella del bene giuridico, è criterio che ‘obbliga' il giudice ad ‘adattare' in via ermeneutica le norme penali conformandole a tale principio. In effetti, bisogna fare i conti con tale principio, che rappresenta una garanzia fondamentale a tutela della persona dagli eccessi del potere punitivo statuale. Tale principio difende un diritto penale del fatto e non dell'autore, un diritto penale dell'offesa e non della volontà o della pericolosità soggettiva. In numerose occasioni la Corte costituzionale ha imposto al giudice di applicare il principio di offensività quale principio interpretativo, escludendo la punibilità in assenza di una concreta lesività. In sostanza, la Corte ha rifiutato il controllo su struttura e contenuto significativo della fattispecie astratta ritenendo che tocchi al giudice, in base al principio costituzionale di cui all'articolo 25 Cost., negarne l'applicazione ai fatti concretamente inoffensivi del bene tutelato. Al riguardo si osserva che per quanto concerne la soglia della punibilità, dopo un primo periodo in cui si è dubitato della legittimità costituzionale dei reati privi di offesa, oggi si ritengono costituzionalmente legittimi sia i reati di pericolo astratto e/o presunto, sia i reati di scopo, ovvero tutti i reati in sé inoffensivi di beni preesistenti, ma finalisticamente orientati alla loro salvaguardia. È dato pacifico che, per la rispondenza delle fattispecie penali al canone della necessaria offensività, il primo stadio valutativo attiene al momento genetico della norma incriminatrice, vale a dire al momento della redazione della norma, alla quale si impone di cristallizzare comportamenti umani astrattamente idonei a cagionare un'offesa nei confronti del bene tutelato. Sotto questo profilo, la giurisprudenza costituzionale e quella di legittimità hanno chiarito che, quanto alla ammissibilità dei reati di pericolo, non confliggono con il principio di offensività i c.d. reati di pericolo presunto, a patto che la norma non appaia irrazionale o arbitraria, nel senso che la valutazione prognostica circa l'aggressione al bene giuridico deve costituire un dato plausibile secondo la massima empirica dell'id quod plerumque accidit

Presidente Cassano - Estensore Magi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 12 gennaio 2021 il Tribunale di Napoli ha affermato la responsabilità di Vi.Pa. per il reato di cui agli articolo 30 e 31 legge 13 settembre 1982 n. 646 (omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali) con condanna del medesimo, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 8.000 di multa e con confisca della somma di Euro 734.966,75. È stata espressamente esclusa l'incidenza della contestata recidiva. 1.1 Vi.Pa. risulta condannato per il delitto di cui all'articolo 416-bis cod. pen. con sentenza definitiva in data 6 aprile 2011. In fatto vengono evidenziate le seguenti circostanze: pur essendo obbligato a comunicare al Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza competente per territorio le variazioni intervenute nel suo patrimonio, per la durata di dieci anni dalla irrevocabilità della sentenza, nulla egli aveva comunicato a detto Nucleo. In particolare dagli atti di indagine era risultato che tra il 2011 e il 2017 aveva ricevuto proventi per locazioni di immobili e che nel 2017 aveva ricevuto quota parte di beni per successione ex lege, denunziata in data 24 febbraio 2017 presso l'Agenzia delle Entrate di Napoli. 1.2. In sede di valutazione il Tribunale opera una distinzione tra gli incrementi di cassa derivanti dalla riscossione dei canoni di locazione ed i beni ricevuti per successione ereditaria. Con riferimento ai primi ha ritenuto non rilevante l'omessa comunicazione, trattandosi di rendite provenienti da beni già in proprietà dell'imputato, in termini di fruttificazione del proprio patrimonio immobiliare (Sez. 6, n. 17691 del 28/4/2016, Puccio, non mass.). Di contro, con riguardo ai beni ricevuti per successione legittima (in ragione della morte di Vi.Co., padre di Vi.Pa., avvenuta in data 31 gennaio 2016) il Tribunale ha ritenuto rilevante l'omissione ed integrato il reato contestato. 2. La Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 13 ottobre 2023, ha confermato la prima decisione. In motivazione la Corte di secondo grado si sofferma - in risposta ai motivi di gravame - sui seguenti aspetti: quanto alla dedotta carenza di offensività in concreto, premessa la ricognizione dei contenuti delle decisioni della Corte costituzionale intervenute sul tema, evidenzia che il consistente valore dei beni caduti in successione (la quota dell'imputato è stimata in oltre 700.000,00 Euro) rendeva di certo necessario il controllo da parte degli organi della Polizia Tributaria a ciò deputati e dunque il fatto non può dirsi inoffensivo; quanto al profilo della carenza di dolo, rileva che il reato richiede il dolo generico e non specifico. L'avvenuta presentazione della denunzia di successione non è fatto da cui poter desumere la carenza di dolo. Lo stesso imputato si è difeso allegando la mancata conoscenza del precetto. Si tratta tuttavia, secondo la Corte di merito, di un precetto non oscuro e facilmente conoscibile, data la qualità soggettiva di Vi.Pa., con conseguente esclusione dell'ipotesi della ignoranza inevitabile di cui all'articolo 5 cod. pen. 3. Avverso la predetta sentenza, Vi.Pa., per mezzo del proprio difensore avv. Angelo Loizzi, ha proposto ricorso per cassazione articolando tre motivi. 3.1. Con il primo motivo si deduce vizio di motivazione in riferimento alla intervenuta affermazione di responsabilità e alla statuizione di confisca. Si ritiene omessa la motivazione in punto di offensività in concreto della condotta. Si osserva che le questioni di legittimità costituzionale delle norme incriminatrici, proposte nel 2001 dal Tribunale di Trapani, sono state dichiarate inammissibili illo tempore per difetto di rilevanza, ma sono in realtà fondate. Contrasta con il principio di proporzionalità della pena la previsione di un obbligo di comunicazione, sanzionato penalmente, anche quando manca una concreta offensività della omissione, come nel caso di specie, in cui l'incremento patrimoniale non è stato occultato in quanto, provenendo da una successione ereditaria, era conoscibile, essendo stato dichiarato tramite atti pubblici. L'applicazione della confisca, anche a beni acquisiti legittimamente, ha un carattere meramente punitivo, non essendo correlata all'accertamento della pericolosità del bene. Inoltre vi è una illegittimità, per disparità di trattamento in situazioni analoghe, rispetto alla confisca prevista per le violazioni di cui all'articolo 12-sexies legge n. 306 del 1992, ora trasfuso nell'articolo 240-bis cod. pen., nelle quali la dimostrazione della legittima provenienza del bene impedisce la confisca. Il giudice di appello avrebbe omesso di verificare l'offensività in concreto della mancata comunicazione, benché tale verifica fosse stata chiesta con i motivi di appello, in ragione dei contenuti di Corte cast., sent. n. 99 del 2017. La Corte di secondo grado non avrebbe tenuto conto neppure della giurisprudenza di legittimità, che ha escluso dall'obbligo di comunicazione tutte le acquisizioni che non derivino da un impiego di fondi patrimoniali da parte del condannato. Tale principio è stato applicato solo per escludere dall'obbligo di comunicazione i canoni di affitto degli immobili già di proprietà del ricorrente, ma - si osserva - anche la successione ereditaria è un incremento che non consegue ad un impiego di fondi patrimoniali. 3.2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce vizio di motivazione della sentenza in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo. Esso deve essere valutato con prudenza quando, come in questo caso, l'applicabilità della norma è dubbia, non essendovi certezza in ordine alla necessità di comunicare incrementi patrimoniali che risultano da atti pubblici. Il ricorrente non ha nascosto la sua qualità di erede, in quanto ha presentato egli stesso la denuncia di successione. Se avesse voluto occultare l'incremento patrimoniale che ne conseguiva avrebbe potuto rinunciare all'eredità, che sarebbe stata acquisita dai suoi figli. La Corte di appello, invece, ha valutato solo - ritenendola irrilevante - la giustificazione di avere ignorato l'esistenza del precetto. 3.3. Con il terzo motivo di ricorso deduce l'erronea indicazione dell'epoca di consumazione del reato, con conseguente omissione della declaratoria di prescrizione. L'imputazione indica, quale data di consumazione del reato, il 24 febbraio 2017, data di deposito della dichiarazione di successione. Tale adempimento non coincide però con l'acquisizione del patrimonio, risalente in realtà al 2016, come dimostrato dal fatto che, nella denuncia dei redditi presentata nel 2017 e relativa ai redditi percepiti nel 2016, è inserito il 25% dei canoni di affitto dei beni ereditati. Ad ulteriore conferma di tale anticipata acquisizione, si indica la richiesta di disdetta dell'utenza telefonica, effettuata dal ricorrente già in data 1 aprile 2016 dichiarando la propria qualità di erede. 4. La Prima Sezione Penale, assegnataria del ricorso, ha rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, con ordinanza in data 16 maggio 2024, in relazione alla questione se l'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall'articolo 30, legge 13 settembre 1982, n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell'ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria. Ha evidenziato che dall'analisi della giurisprudenza - costituzionale e di legittimità - può ricavarsi l'esistenza di un contrasto interpretativo. 4.1. Secondo l'orientamento interpretativo prevalente, al quale ha aderito il giudice partenopeo, la norma sanziona l'omessa comunicazione anche nel caso di beni pervenuti per successione ereditaria o per acquisti soggetti ad una pubblicità legale effettivamente applicata, presentando anche tale condotta l'offensività richiesta, cioè l'idoneità a porre in pericolo il bene giuridico protetto che Sez. U, n. 16896 del 31/01/2019, Stangolini, Rv. 275080-01, ha ribadito dover essere individuato nell'ordine pubblico (nel medesimo senso Sez. 2, n. 14332 del 05/04/2006, D'Aiello, Rv. 234248-01; Sez. 5, n. 14996 del 25/02/2005, Ruà, Rv. 231365-01; Sez. 5, n. 15220 del 08/02/2003, Gallico, Rv. 224379-01; Sez. 1, n. 45798 del 22/11/2001, Messina, Rv. 220377-01). Tali decisioni muovono dalla natura del bene giuridico protetto dalla norma, identificato nella tutela dell'ordine pubblico, che richiede un controllo tempestivo delle variazioni del patrimonio di un soggetto ritenuto pericoloso in quanto condannato per reati espressivi di un particolare allarme sociale (Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015, dep. 2016, Artale, Rv. 266381-01 secondo cui l'obbligo permette l'esercizio di un controllo patrimoniale più penetrante e analitico nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose, onde accertare per tempo se le variazioni patrimoniali dipendono o meno dall'eventuale svolgimento di attività illecite e Sez. 6, n. 31817 del 03/08/2009, Elefante, Rv. 244404-01 secondo cui l'obbligo di comunicazione costituisce una misura di prevenzione di natura patrimoniale volta a esercitare un controllo preventivo e costante sui beni dei condannati o degli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o camorristico, al fine di accertare ogni forma di illecito arricchimento ). Sulla base di tale premessa argomentano che l'oggetto di tale controllo, ed anche la sua finalità, siano la verifica dell'eventuale disponibilità di beni che possano derivare dall'attività criminosa precedente o da collegamenti ancora in essere con detta attività, ovvero di movimenti finanziari che possano far sorgere il sospetto di una circolazione di beni o denaro aventi una provenienza non lecita. Le movimentazioni di beni e denaro realizzate da soggetti destinatari di misura di prevenzione o condannati per particolari reati possono, infatti, creare problemi di ordine pubblico e legittimare l'intervento dello Stato che, nel caso della condotta qui sanzionata, non si limita al controllo sulle varie operazioni, ma giunge alla ablazione del bene o della somma. 4.2. Un diverso orientamento evidenzia come in caso di successione ereditaria vi è un aspetto che tende ad escludere l'integrazione della ratio della incriminazione, atteso che l'incremento patrimoniale non richiede alcuna iniziativa dell'agente e viene comunque disvelato attraverso una forma di pubblicità legale, con la conseguente esclusione del dolo (Sez. 5, n. 3079 del 17/1/2005, Cesara, Rv. 231417-01). La tesi del necessario dolo di occultamento - che sarebbe incompatibile con tutte le ipotesi di registrazione dell'atto a contenuto patrimoniale - è stata sostenuta anche da Sez. 1, n. 10024 del 30/01/2002, Le Pera, Rv. 221494-01, ripresa, in epoca posteriore, da Sez. 1 n. 6334 del 14/01/2010, Labate, Rv. 246559-01. Questa opzione esegetica è stata estesa a tutte le ipotesi di atti soggetti ad una specifica forma di pubblicità legale (Sez. 5, n. 25974 del 21/05/2013, Mazzagatti, Rv. 256655-01 e Sez. 5, n. 792 del 18/10/2012, dep. 2013, Seidita, Rv. 254387-01). 4.3. A fronte di un orientamento prevalente orientato nel senso della punibilità delle condotte omissive correlate al fenomeno della successione ereditaria - anche nel caso di avvenuta denunzia di successione a fini fiscali - la Sezione remittente evidenzia due aspetti bisognosi di approfondimento da parte delle Sezioni Unite ai fini della soluzione del contrasto. Il primo è rappresentato dalla evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività in concreto, anche lì dove il reato sia un reato di pericolo presunto. Al riguardo viene richiamata Corte cast., sent. n. 99 del 2017, intervenuta sulla fattispecie qui in rilievo. In detta decisione, pur confermandosi -sulla scia del diritto vivente - che l'esistenza di una forma di pubblicità legale dell'atto posto a monte dell'obbligo dichiarativo non esclude né punibilità né dolo, il giudice delle leggi ha affermato che l'eventuale scarto tra integrazione della fattispecie tipica e offensività in concreto della condotta è un aspetto che è compito del giudice comune verificare. Il secondo profilo degno di approfondimento è l'elaborazione giurisprudenziale relativa a decisioni che, pur non vertendo sulla materia dei beni ricevuti per successione ereditaria, hanno fornito letture della fattispecie incriminatrice orientate alla valorizzazione del principio di offensività in concreto. In particolare, Sez. 6, n. 17691 del 14/04/2016, Puccio, non mass., ha sostenuto una tesi interpretativa che tende a ridurre l'ambito applicativo della norma incriminatrice, escludendolo nella ipotesi in cui l'omissione riguardi le somme ricavate a titolo di canone di affitto di terreni già in proprietà del soggetto tenuto alla comunicazione. Si osserva in particolare che la variazione patrimoniale rilevante , e soggetta a comunicazione ai sensi dell'articolo 31, legge n. 646 del 1982, è solo quella la cui acquisizione abbia comportato un impiego di fonti patrimoniali, o assunzione di corrispondenti obblighi da parte del condannato . Ancora, Sez. 1, n. 27723 del 02/05/2023, Sorce, non mass., ha affermato che una particolare operazione del riscatto di azioni (con versamento sul conto dell'imputato del controvalore in denaro) non è atto soggetto a comunicazione, ai fini della disposizione in parola, non comportando una variazione rilevante e, soprattutto, non integrando una condotta idonea a porre in pericolo il bene protetto. Si tratta di decisioni che - secondo i contenuti della ordinanza di rimessione - potrebbero trovare applicazione, in base ai principi espressi, anche all'ipotesi di successione ereditaria e che - in ogni caso - impongono una verifica della tenuta dell'orientamento prevalente. 5. In data 15 luglio 2024, la Prima Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, disponendo la trattazione alla odierna udienza. 6. In data 30 ottobre 2024 il Sig. Procuratore generale ha depositato memoria scritta nella quale prospetta il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: Se l'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali previsto dall'articolo 30, legge 13 settembre 1982 n. 646 possa ritenersi configurabile, con rilevanza penale della sua violazione, nell'ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria . 2. La disposizione incriminatrice - introdotta nel nostro ordinamento dagli articolo 30 e 31, legge 13 settembre 1982 n. 646 - configura un reato omissivo proprio e di pericolo presunto. Come è stato più volte precisato in sede nomofilattica (v. per tutte Sez. 6 n. 33590 del 15/06/2012, non mass. sul punto), il precetto è contenuto nell'articolo 30, legge n. 646 del 1982 (per quanto riguarda i soggetti condannati in sede penale) e la sanzione nell'articolo 31 della medesima legge (in modo corrispondente, per i destinatari di misura di prevenzione personale, negli articolo 80 e 76, settimo comma, del D.Lgs. n. 159 del 2011). Dunque, ad essere oggetto di incriminazione è l'omissione comunicativa di un fatto, le cui caratteristiche verranno di seguito esaminate, posta a carico non della generalità dei consociati ma di due categorie specifiche di soggetti: a) i condannati con sentenza definitiva per taluno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. ovvero per il delitto di trasferimento fraudolento di valori attualmente descritto dall'articolo 512-bis cod. pen.; b) i soggetti già sottoposti, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011. La platea dei destinatari del precetto - come precisato dalla già citata Sez. U, Stangolini - risulta alquanto ampia in ragione delle stratificazioni normative intervenute nel corso del tempo (legge n. 646 del 1982, legge n. 136 del 2010, D.Lgs. n. 159 del 2011) che hanno comportato l'attrazione nel cono applicativo della disposizione incriminatrice dei soggetti destinatari di ogni tipologia di misura di prevenzione personale (anche per le ipotesi di cd. pericolosità semplice, lì dove in origine l'obbligo de quo era imposto ai soli destinatari di misura per ritenuta pericolosità qualificata). Si tratta di un numerus clausus di soggetti che in ragione degli esiti di un procedimento penale o di prevenzione (nei termini prima specificati) risultano gravati da uno specifico obbligo comunicativo - di pura creazione legislativa - che riguarda, in prima approssimazione, le proprie movimentazioni patrimoniali di una certa entità. L'obbligo comunicativo, in particolare, concerne: a) tutte le variazioni nella entità e composizione del patrimonio (tanto attive quanto passive) che riguardino elementi di valore non inferiore ad Euro 10.329,14; b) le variazioni intervenute nel corso di un anno, lì dove superino complessivamente la soglia di 10.329,14 Euro. Sono esclusi dall'obbligo di comunicazione i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. Nel primo caso la comunicazione - al nucleo di Polizia tributaria del luogo di dimora abituale - va operata entro trenta giorni dal fatto (intendendosi per tale il fatto generativo della singola variazione nella entità o composizione), mentre nella seconda ipotesi la scadenza dell'obbligo è fissata al 31 gennaio dell'anno successivo. Il monitoraggio sui comportamenti patrimoniali del soggetto già condannato per particolari reati (tra cui il delitto di cui all'articolo 416-bis cod. pen.) o destinatario di misura di prevenzione personale si estende per dieci anni, decorrenti dalla definitività dei provvedimenti giurisdizionali che hanno determinato lo status. Nelle decisioni di questa Corte e del giudice delle leggi succedutesi nel corso del tempo si è evidenziato che la ratio della disposizione è quella di permettere l'esercizio di un controllo patrimoniale più analitico e penetrante nei confronti di persone ritenute particolarmente pericolose (in rapporto all'evento giudiziario fondante l'obbligo), onde accertare per tempo se le variazioni dipendano o meno dall'eventuale svolgimento di attività illecite (v. Sez. 5, n. 13077 del 03/12/2015, dep. 2016, Artale, cit.). Dalla decisione giurisdizionale fondativa dello status deriverebbe - in altre parole - il fondamento razionale dell'obbligo comunicativo penalmente sanzionato, posto che il reato commesso (o l'accertamento della pericolosità in sede di procedura di prevenzione) concretizza una condizione di latente pericolosità che impone un periodo di osservazione ed una particolare attenzione verso le iniziative a contenuto patrimoniale del soggetto. La comunicazione rende, in tale chiave, possibile un tempestivo controllo circa la derivazione degli incrementi o circa la causale dei decrementi, a tutela del bene giuridico protetto, individuato nell'ordine pubblico (cfr. Sez. U, Stangolini, cit.). Peraltro, la collocazione sistematica delle disposizioni incriminatrici in testi di legge che hanno ad oggetto principale il sistema delle misure di prevenzione personali e patrimoniali porta a ritenere sussistente una finalità di fondo che è ben stata esplicitata da Corte cost., ord. n. 675 del 1988 che ha legittimato la estensione ai pericolosi generici di alcune disposizioni preventive di tipo inibitorio e repressivo originariamente dettate nel settore della prevenzione antimafia, lì dove si è affermato che ciò non appare irragionevole, essendovi la medesima ratio di impedire l'eventuale ingresso nel mercato di denaro ricavato dall'esercizio di attività delittuose o di traffici illeciti . In tal senso, il monitoraggio delle attività a contenuto patrimoniale della persona già condannata per particolari reati esprime una finalità preventiva, tesa ad assicurare il tempestivo controllo delle fonti da cui proviene il movimento finanziario e delle modalità della sua realizzazione. In caso di omessa comunicazione della variazione, se penalmente rilevante, il legislatore prevede una forma di confisca sanzionatoria, nel cui ambito non rileva - come si è detto - la eventuale dimostrazione di liceità dell'incremento patrimoniale: alla condanna segue, infatti, la confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonché del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati. 3. La disposizione incriminatrice, per le sue particolari caratteristiche, ha dato luogo nel corso del tempo a rilevanti questioni interpretative ed a dubbi di legittimità costituzionale, specie sul fronte della compatibilità con il principio di necessaria chiarezza e precisione della descrizione dell'illecito e con quello di necessaria offensività delle condotte di reato. Prima di passare ad esaminare lo specifico quesito posto dalla ordinanza di rimessione occorre, pertanto, illustrare, sia pure in sintesi, i contenuti delle decisioni emesse nel corso del tempo dalla Corte costituzionale, in riferimento al rapporto tra il contenuto descrittivo della fattispecie de qua e il principio di necessaria offensività della condotta costituente reato. In premessa, occorre ricordare - sia pure a grandi linee - la stessa evoluzione della giurisprudenza costituzionale sul principio di offensività, sia in chiave di criterio generale posto, in rapporto alle scelte del costituente, a presidio della selezione dei fatti meritevoli di punizione , che in chiave di parametro alla cui stregua il giudice è tenuto ad apprezzare la condotta concreta, pur se tipica, cui attribuire idoneità lesiva, con danno o messa in pericolo del bene protetto. 3.1. Con la sentenza n. 189 del 1987 la Corte costituzionale dichiarava la illegittimità costituzionale di alcune disposizioni incriminatrici contenute nella I. 24 giugno 1929 n. 1085 in tema di divieto di esposizione (senza autorizzazione delle autorità politiche locali) di bandiere estere. In detto contesto veniva rilevato che il fatto tipico, anche alla luce della esistenza di altre disposizioni incriminatrici in tema di vilipendio, era privo di ogni significatività e offensività, sicché la incriminazione della condotta era priva di ragionevolezza, per l'assenza di un reale bene giuridico tutelato: il diritto penale costituisce, rispetto agli altri rami dell'ordinamento giuridico dello Stato, l'extrema ratio, il momento nel quale soltanto nell'impossibilità o nell'insufficienza dei rimedi previsti dagli altri rami è concesso al legislatore ordinario di negativamente incidere, a fini sanzionatori, sui più importanti beni del privato . Con la sentenza n. 360 del 1995 la Corte costituzionale, nel dichiarare la infondatezza di più questioni relative alla rilevanza penale della condotta di coltivazione di piante da cui può essere estratta sostanza stupefacente, osservava, con riferimento al rapporto con il principio di offensività, che la verifica del rispetto del principio dell'offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa , ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che - come già rilevato - l'attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica - sottesa alla astratta fattispecie criminosa - di attentato al bene giuridico protetto . Si tratta di una affermazione esegetica di estremo rilievo, da cui prendono spunto - manifestando continuità al principio - le decisioni posteriori sulla categoria dei reati a pericolo presunto e sulla doppia valenza del principio di offensività. Premessa, infatti, la precisa identificazione del bene giuridico protetto, e della sua obiettiva consistenza, anche il reato di pericolo presunto (presunzione ex lege) può risultare conforme al principio di materialità e di necessaria offensività (derivante dagli articolo 25 e 27 Cost.) se ed in quanto vi sia - alla base della incriminazione della condotta - una congrua e ragionevole applicazione di una massima di esperienza che ricolleghi alla condotta - qui apprezzata nella sua dimensione astratta - un evento di pericolo per il bene tutelato. Il possibile scarto tra la presunzione legislativa di esposizione a pericolo del bene protetto, ritenuta ragionevole, e la dimensione concreta del fatto (pur rientrante nella tipicità) viene affidato - nei reati a pericolo presunto - alla valutazione del giudice, in riferimento al secondo versante del principio di offensività. Ciò è affermato con nettezza dalla Corte costituzionale in numerose decisioni, che chiariscono la doppia dimensione e la doppia valenza del principio. Ciò è chiaramente esposto nella sentenza n. 263 del 2000 (sul reato militare di violata consegna). Una volta esclusa la irragionevolezza della incriminazione in astratto (vi è ragionevole presunzione di idoneità della condotta a porre in pericolo un bene giuridico meritevole di particolare protezione) la Corte costituzionale afferma, infatti, che l'accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è... compito dell'autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l'eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l'integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L'articolo 25 Cost., quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale . Tirando le somme su tali aspetti, per rispondere al parametro costituzionale del diritto penale del fatto derivante dal testo dell'articolo 25 secondo comma Cost., è necessario, dunque, che il principio di offensività operi in modo ininterrotto, dal momento della produzione legislativa a quello della applicazione concreta, trattandosi di valore irrinunziabile dell'intero sistema penale. 3.2. Di particolare interesse ai nostri fini, tra le pronunzie della Corte costituzionale, è anche la sentenza n. 354 del 2002 con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell'articolo 688, secondo comma, cod. pen., che incriminava la ubriachezza manifesta in luogo pubblico se il fatto risultava commesso da chi ha riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o la incolumità individuale. Qui ad essere dichiarata incostituzionale è la scelta del legislatore di ritenere punibile la condizione di ubriachezza solo se commessa da soggetti già condannati per una determinata tipologia di condotte: la disposizione censurata è affetta dagli ulteriori vizi, anch'essi denunciati dal remittente, derivanti dalla violazione dei principi costituzionali di legalità della pena e di orientamento della pena stessa all'emenda del condannato. L'avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l'incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell'intento del legislatore, finisce col punire non tanto l'ubriachezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all'articolo 688 del codice penale. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d'autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte. Tale limite, desumibile dall'articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l'insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale . Ciò che si trae da detta decisione è che deve esservi un collegamento funzionale tra una precedente condanna e una condotta posteriore elevata a reato, posto che in assenza di tale nesso la incriminazione sarebbe frutto di una mera qualità personale di condannato, che non può essere un marchio indelebile e non può giustificare la disparità di trattamento con il resto dei consociati. 3.3. Tali principi sono stati ulteriormente ribaditi dalle sentenze n. 139 del 2023 (in tema di porto degli strumenti indicati nell'articolo 4, primo comma, legge n. 110 del 1975), n. 28 del 2024 (in tema di invasione di edifici, che richiama il dovere del giudice di verificare in concreto la attitudine lesiva del comportamento incriminato), legge n. 149 del 2024 (in riferimento alla comparazione delle circostanze ed applicazione della speciale causa di non punibilità di cui all'articolo 131-bis cod. pen.). Di particolare rilievo appare infine la precisazione operata nella sentenza n. 139 del 2023, lì dove si afferma che in rapporto ai reati di pericolo presunto il giudice comune, per dare attuazione al principio di offensività, deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno . 4. Al parametro dell'offensività, occorre, secondo queste Sezioni Unite, rifarsi anche al fine di orientare i poteri valutativi del giudice in relazione alla condotta sussumibile in una fattispecie di pericolo presunto: al giudice spetta, infatti, individuare il possibile scarto tra la presunzione operata dal legislatore (condotta idonea ad esporre a pericolo il bene protetto) e la realtà fenomenica (condotta inidonea a manifestare, in concreto, simile attitudine lesiva), ferma restando la integrazione della fattispecie tipica. La esposizione a pericolo del bene protetto richiede sempre e comunque la identificazione - quantomeno - di una ragionevole possibilità di produzione del danno in rapporto ad un bene giuridico dotato della necessaria concretezza e previamente delimitato. Si tratta, peraltro, di un inquadramento dogmatico richiamato in più occasioni dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, non mass. sul punto; Sez. U, n. 12348 del 19/12/2019, dep. 2020, Caruso, Rv. 278624-01; Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, non mass. sul punto; Sez. U, n. 45583 del 25/10/2007, Volpe, non mass. sul punto) anche in rapporto alla adesione ad interpretazioni che ne valorizzino il contenuto e le ricadute in punto di tipicità (cfr. Sez. U, n. 49686 del 13/07/2023, Giudice, Rv. 285435-01 in riferimento al reato di cui all'articolo 7 D.L. 28 gennaio 2019 n. 4). Particolarmente rilevanti appaiono, sul tema, le considerazioni svolte da Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, Rv. 286241-01 che, nell'analizzare il rapporto tra le diverse fattispecie incriminatrici di cui all'articolo 5 legge 20 giugno 1952, n. 645 e articolo 2, comma 1, D.L. 26 aprile 1993, n. 122, ha testualmente ricordato come: quantomeno ai fini della presente decisione, la distinzione tra un pericolo concreto ed un pericolo astratto o presunto finisca, a ben vedere, per divenire, nei fatti, evanescente, una volta che si prenda contestualmente atto di come... anche le previsioni contrassegnate da un pericolo presunto debbano coniugarsi con il principio di offensività . 5. Tanto premesso, in merito al reato di pericolo presunto e al principio di offensività, occorre analizzare le decisioni della Corte costituzionale intervenute in modo specifico sulla condotta di reato oggetto del presente giudizio. La prima decisione è - in ordine cronologico - la sentenza n. 442 del 2001, con cui viene dichiarata la inammissibilità della questione relativa all'articolo 30 e la manifesta infondatezza della questione relativa all'articolo 31 legge 13 settembre 1982 n. 646. In detta sentenza si afferma che la incriminazione non contiene aspetti di evidente irragionevolezza, ove si tenga conto della possibilità per il giudice comune di escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato quando sia di per sé impossibile l'occultamento degli atti soggetti a comunicazione . Viene dunque indicata la strada della più attenta verifica della ricorrenza - nei casi concreti -dell'elemento psicologico del reato. La seconda decisione di rilievo, ovvero la sentenza n. 81 del 2014, interviene a distanza di tredici anni dalla prima. Qui la Corte costituzionale si sofferma sulla natura del reato e sulla intervenuta evoluzione del diritto vivente, in particolare prendendo atto del progressivo superamento - da parte della giurisprudenza di legittimità - della tesi del necessario dolo di occultamento . Ciò rende non più possibile - nel caso di omessa comunicazione di atti pubblici soggetti a registrazione - l'importazione delle considerazioni espresse con la decisione n. 442 del 2001, in precedenza ricordata, pur richiamandosi gli indubbi profili di criticità del paradigma punitivo oggetto dell'incidente di legittimità costituzionale, non superabili attraverso le prospettazioni - eccessivamente creative - del giudice remittente. Si tratta, dunque, di una decisione che lascia inalterato l'assetto legislativo e che si limita a constatare come la tesi della necessaria caratterizzazione del dolo in termini di specificità sia stata accantonata nel panorama giurisprudenziale. Con la terza decisione, ovvero la sentenza n. 99 del 2017, lo scrutinio di costituzionalità si incentra in modo espresso sul rapporto tra il contenuto della incriminazione e le ricadute del principio di offensività. Il Giudice delle leggi riferisce la ratio di tutela al bene giuridico dell'ordine pubblico, in chiave di potenziale attivazione di un doveroso controllo sulle cause della variazione, funzionalmente correlato alla condizione (di pericolosità) del soggetto cui è imposto il dovere comunicativo. Ciò posto, non viene ritenuto sussistente alcun deficit di ragionevolezza secondo il parametro della offensività in astratto , atteso che occorre un monitoraggio costante sui beni delle persone pericolose gravate dal legislatore dell'obbligo in questione; monitoraggio che non può essere assicurato dalla registrazione e dalla trascrizione degli atti che determinano le variazioni patrimoniali . Trattandosi, tuttavia, di reato di pericolo presunto, viene ribadito il necessario controllo del giudice sulla offensività della specifica condotta oggetto di giudizio giacché, sempre che non si possa escludere il dolo, spetta... al giudice comune il compito di allineare il fatto oggetto del giudizio al canone dell'offensività in concreto , in quanto compete a questo giudice verificare se la singola condotta, rappresentata nel caso in esame dalla omessa comunicazione, risulta assolutamente inidonea, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, a porre in pericolo il bene giuridico protetto e dunque, in concreto, inoffensiva, escludendone in tal caso la punibilità . Ciò che maggiormente interessa rilevare è che in simile, delicato, equilibrio la Corte costituzionale muove - in tutte le decisioni intervenute sul tema - da una considerazione di base: la pericolosità soggettiva, derivante dal pregresso accertamento dello specifico reato (o della condizione di destinatario della misura di prevenzione) è ciò che giustifica la previsione dell'obbligo comunicativo della variazione, che altrimenti risulterebbe non conforme ai principi costituzionali (cfr. sent. n. 354 del 2002, cit.). Dunque, risulta costituzionalmente legittima, in tale chiave, la diversificazione di trattamento tra il comune cittadino (non gravato da alcun dovere di comunicazione dei propri movimenti economici superiori a una data soglia) e il soggetto condannato per un reato di criminalità organizzata (o destinatario della misura di prevenzione personale), atteso che l'obbligo di comunicazione - imposto solo al secondo - si ricollega alla pregressa manifestazione di pericolosità ed ha un contenuto potenzialmente utile a fini di tutela dell'ordine pubblico economico. 6. La giurisprudenza di legittimità, sinteticamente rievocata in parte narrativa, si è incentrata per molto tempo sul tema del dolo: le decisioni più recenti si sono confrontate con i principi enunciati dalla sentenza n. 99 del 2017 della Corte costituzionale. Nella giurisprudenza di legittimità non sono controversi la natura di reato di pericolo presunto e la identificazione del bene giuridico protetto in quello dell'ordine pubblico economico, in ragione della pericolosità del soggetto destinatario di condanna per determinate ipotesi di reato o di misura di prevenzione personale definitiva. Al contrario, è mancata una compiuta analisi dei principi espressi dalla Corte costituzionale in tema di doverosa verifica della offensività in concreto dei reati di pericolo presunto. È da questi principi che occorre partire per fornire risposta al quesito interpretativo. L'offensività in concreto riguarda il rapporto tra la condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie incriminatrice e la effettiva lesione, o messa in pericolo, del bene giuridico protetto. Si tratta, quanto alla verifica di offensività in concreto, di un profilo logicamente e giuridicamente successivo rispetto alla verifica degli elementi costitutivi del reato; la inoffensività presuppone infatti l'integrazione della fattispecie tipica e del relativo coefficiente di colpevolezza. In assenza di indici testuali specifici deve poi ritenersi definitivamente superato l'orientamento interpretativo che evocava la necessità del dolo di occultamento (tesi risalente a Sez. 1, n. 10024 del 11/03/2002, Le Pera, Rv. 221494-01). Il reato in esame, ai fini della sua integrazione, necessita del solo dolo generico, la cui prova non è diversa in caso di omissione della comunicazione di atti sottoposti ad un regime di pubblicità legale (cfr. tra le altre, Sez. 2 n. 4667 del 19/11/2010, dep. 2011, Rv. 249658-01; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010, Rv. 246398 - 01; Sez. 1, n. 37408 del 25/10/2006, Cesara, Rv. 235142-01) atteso che il regime di pubblicità non garantisce l'effettiva conoscenza della variazione in capo all'organo di polizia titolare del potere di verificare la liceità delle fonti patrimoniali impiegate dal soggetto pericoloso . È indubbio che l'omessa comunicazione può riguardare anche atti soggetti a forme di pubblicità legale, tra cui i trasferimenti immobiliari e le stesse variazioni derivanti da fenomeni successori, atteso che la norma, nel suo tenore letterale e nella sua lettura sistematica e teleologica, non distingue le diverse tipologie di atti. La prova, dunque, non è diversa. L'orientamento prevalente, condiviso sul punto dal Collegio, ritiene dunque ininfluente, rispetto alla prova del dolo, la particolare modalità con cui si è realizzata la acquisizione patrimoniale, ferma restando la ovvia necessità di evitare forme presuntive di accertamento dell'elemento psicologico del reato (dolus in re ipsa). Va aggiunto che Sez. 6 n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, non mass., adotta una definizione dell'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali in termini di effetto legale tipico di una condanna per fatti di mafia o della imposizione di una misura di prevenzione personale , al fine di specificare come l'eventuale errore sulla esistenza dell'obbligo si traduce in errore sul precetto e non sul fatto. Tale affermazione, condivisa dal Collegio, toglie rilievo a ulteriori questioni relative alla ricorrenza - anche nel caso oggetto della presente decisione - del dolo. Allo stesso tempo, la presunzione ex lege circa l'idoneità astratta della condotta di omessa comunicazione delle variazioni - da parte delle categorie di soggetti già indicate - ad esporre a pericolo il bene giuridico protetto, non esime tuttavia il giudice dalla verifica in concreto della effettiva attitudine lesiva della condotta, al fine di superare il possibile scarto tra presunzione legislativa e realtà fenomenica, secondo le linee esegetiche in precedenza esposte. In tal senso merita di essere richiamata (oltre alle già citate decisioni Sez. 6, Puccio e Sez. 1, Sorce) Sez. 3, n. 50299 del 27/10/2023, Vandelli, Rv. 285589-01, che, in coerenza con il dictum della Corte costituzionale (sent. n. 99 del 2017, cit.) ha ritenuto necessaria la verifica in concreto della offensività della singola omissione, evidenziando come - specie nel caso di atti sottoposti a regime di pubblicità - il giudice del merito sia tenuto a fornire una motivazione in positivo che non si limiti alla verifica del dolo generico ma che investa il tema della idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto. Se si risale alla ratio della disposizione incriminatrice (come si è detto, la realizzazione di un doveroso monitoraggio sulle iniziative patrimoniali del soggetto riconosciuto come pericoloso) e alla più precisa individuazione del bene giuridico oggetto di tutela, ovvero l'ordine pubblico inteso, sul versante economico come assenza di alterazioni della libertà di concorrenza e della libertà di iniziativa a causa dell'agire di organizzazioni di stampo mafioso o assimilabili, è evidente che l'aver omesso di comunicare l'acquisizione di beni a titolo successorio, pur rientrando nella astratta dimensione tipica (si tratta, pur sempre di una variazione della consistenza patrimoniale) può essere ritenuto, in concreto, inoffensivo e dunque non punibile. In altre parole, la carenza di offensività in concreto, in rapporto alla specifica norma incriminatrice oggetto del giudizio, si realizza nei casi in cui la movimentazione patrimoniale ictu oculi non sia ricollegabile alla pericolosità latente del soggetto raggiunto dall'obbligo. La avvertita necessità di riempire di contenuti la indicazione fornita da Corte cost., sent. n. 99 del 2017 va dunque realizzata attraverso un esercizio motivazionale che verifichi in modo puntuale ed espresso se la omissione - pur aderente al paradigma della tipicità - non abbia alcuna attitudine offensiva in concreto. La verifica della concreta offensività - nei termini prima ricordati - della specifica condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali è sempre doverosa, da parte del giudice del merito, trattandosi del punto di equilibrio di una fattispecie incriminatrice che presenta, sin dalla sua introduzione, degli indubbi profili di criticità (cfr. Corte cost., sent. n. 81 del 2014). L' offensività in concreto della omissione deve quindi elevarsi a contenuto necessario e indefettibile della motivazione, che espliciti anche mediante un giudizio controfattuale l'attitudine offensiva della omissione astrattamente punibile, in quanto posta in essere da una persona ritenuta - per gli esiti giudiziari pregressi - portatrice di una latente pericolosità . 7. Sulla base delle considerazioni sinora svolte, non è possibile individuare categorie di atti di rilevo patrimoniale sottratti in quanto tali all'ambito applicativo della disposizione incriminatrice, che il legislatore non ha voluto circoscrivere a specifiche tipologie. Tale conclusione, oltre ad essere rispettosa del tenore letterale della disposizione, tiene conto della variabilità delle situazioni di fatto, che impediscono di impostare la risposta al quesito in termini categoriali . Non vi è dubbio che il fenomeno della successione ereditaria - come osservato dal Procuratore generale nella sua requisitoria - può atteggiarsi in forme giuridiche sensibilmente diverse e può avere ad oggetto compendi patrimoniali di diversa entità in ordine ai quali la verifica della assenza di condizionamenti - pregressi all'evento morte - sulla composizione e derivazione di quanto caduto in successione è doverosa anche per i riflessi sulla concreta offensività della condotta di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali. 8. Alla luce delle argomentazioni sin qui esposte la questione oggetto di rimessione deve essere risolta affermando il seguente principio di diritto: L'obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali, previsto dall'articolo 30, legge 13 settembre 1982, n. 646, è configurabile, con conseguente rilevanza penale della sua violazione, nell'ipotesi di una acquisizione proveniente da successione ereditaria, fermo restando l'onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l'idoneità della condotta tenuta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività in concreto . 9. Nel caso concreto oggetto di ricorso va constatata l'avvenuta estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Preliminarmente occorre infatti evidenziare che il ricorso non può dirsi inammissibile per manifesta infondatezza, avendo sollevato, tra gli altri, un profilo di critica la cui soluzione è stata oggetto della presente decisione (cfr. Sez. U, n. 42125 del 27/06/2024, Cirelli, non mass. sul punto), da ciò derivando la perdurante decorrenza del termine di prescrizione anche in costanza della fase di legittimità. La verifica della offensività in concreto - nella decisione impugnata -non è stata realizzata in modo congruo, essendo stato indicato esclusivamente il parametro del valore della quota dei beni caduti in successione, di pertinenza di Vi.Pa. Si tratta, alla luce delle considerazioni espresse nei paragrafi che precedono, di un aspetto non decisivo, atteso che da un lato il superamento del valore indicato dal legislatore nella previsione incriminatrice integra la tipicità ma non necessariamente realizza l'offensività in concreto, dall'altro, in caso di successione ereditaria, ad essere rilevanti potrebbero essere l'apprezzamento delle modalità della devoluzione (ex lege o in forza di disposizione testamentaria) e le particolari caratteristiche del bene di cui si parla (tra cui epoca di ingresso nel patrimonio del de cuius e possibilità o meno di una pregressa intestazione di comodo ricollegabile alle manifestazioni di pericolosità del condannato per reato di criminalità organizzata). Dunque, il profilo di critica sollevato dal ricorrente nella seconda parte del primo motivo non può dirsi - anche con valutazione in concreto -manifestamente infondato. Quanto all'individuazione del dies a quo, il reato in esame è un reato istantaneo (ex multis Sez. 6, n. 24874 del 30/10/2014, dep. 2015, Lo Bello, cit.) che si consuma alla inutile scadenza (condotta omissiva) del termine di comunicazione della variazione patrimoniale da parte del soggetto obbligato. Tuttavia il caso in esame impone una verifica ulteriore sul momento di consumazione, trattandosi di una variazione patrimoniale derivante, come già evidenziato, da un fenomeno successorio mortis causa. Ed allora, in proposito, la variazione patrimoniale si concretizza al momento della accettazione della eredità, accettazione che, secondo l'articolo 474 cod. civ., può essere espressa o tacita. A fini penalistici è tale il momento che determina l'insorgenza del dovere comunicativo di cui all'articolo 30 legge n. 646 del 1982, posto che la regola civilistica ex articolo 459 cod. civ., secondo cui l'effetto della accettazione risale al momento nel quale si è aperta la successione, porterebbe al paradossale effetto di ritenere già consumato il reato in tutte le ipotesi di accettazione intervenuta oltre trenta giorni dalla apertura della successione. Ai sensi dell'articolo 476 cod. civ. l'accettazione è tacita quando il chiamato all'eredità compie un atto che presuppone necessariamente la sua volontà di accettare e che non avrebbe il diritto di fare se non nella qualità di erede. Nel caso in esame il ricorrente assume che, a fronte del decesso di Vi.Co., avvenuto in data 31 gennaio 2016, l'acquisizione patrimoniale risalirebbe già al 2016, come dimostrato dal fatto che, nella denuncia dei redditi presentata nel 2017, relativa ai redditi percepiti nel 2016, è inserito il 25% dei canoni di affitto dei beni ereditati. Ad ulteriore conferma di tale cronologia della acquisizione, si indica la richiesta di disdetta dell'utenza telefonica, inviata dal ricorrente già in data 1 aprile 2016. In aderenza ai contenuti espressi, sul tema, in particolare da Sez. 2 civ., n. 7075 del 1999, Rv. 528409-01, occorre tuttavia rilevare che l'accettazione tacita può essere ricollegata ad una serie di atti che esprimano in modo inequivoco la volontà di accettare e che risultino nel loro insieme incompatibili con la volontà di rinunciare. In ossequio a tale principio, va riconosciuto che nel caso in esame si è realizzata una accettazione tacita attraverso l'intera sequenza di comportamenti tenuti dal Vi.Pa. che partono dalla disdetta dell'utenza telefonica (comportamento che in quanto tale non potrebbe dirsi univoco) e si concludono con la dichiarazione formale di successione del 24 febbraio 2017 (atto che, di per sé solo, non sarebbe interpretabile come accettazione tacita se non appunto unito ad altri atti). Dunque, il dies a quo di specie è quello del 24 marzo 2017 in riferimento all'inutile decorso dei trenta giorni rispetto al momento della accettazione tacita. In assenza di eventi idonei ad integrare un incremento dei termini il reato si è pertanto estinto per intervenuta prescrizione in data 24 settembre 2024. 10. Alla estinzione del reato consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata e la revoca della confisca. È pacifica, infatti, la natura sanzionatoria della confisca prevista dalle disposizioni qui in rilievo (articolo 31 I. n. 646 del 1982 e articolo 76, settimo comma, D.Lgs. n. 159 del 2011), atteso che non si tratta di beni direttamente correlati alla condizione soggettiva di pericolosità o frutto di condotte illecite precedenti alla loro acquisizione. Nel caso in esame la acquisizione al patrimonio dell'imputato si è verificata - per quanto sinora detto - il 24 febbraio del 2017. La disposizione di cui all'articolo 578-bis cod. proc. pen., introdotta dall'articolo 6, quarto comma, D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21, ha natura sostanziale e non può, pertanto, trovare applicazione, trattandosi di fatto avvenuto prima della sua entrata in vigore (cfr. Sez. U, n. 4145 del 29/09/2022, dep. 2023, Esposito, Rv. 284209-01). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione. Revoca la disposta confisca e manda alla Cancelleria per l'immediata comunicazione al Procuratore Generale in sede per quanto di competenza ai sensi dell'articolo 626 cod. proc. pen.