Le interruzioni nella convivenza non attenuano la gravità delle vessazioni compiute nei confronti della partner

I periodi temporanei di interruzione della convivenza sotto lo stesso tetto non possono bastare per ridimensionare i comportamenti aggressivi tenuti dall’uomo ai danni della partner. Impossibile, perciò, ipotizzare il mero reato di stalking. Confermata in via definitiva la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia.

Scenario della vicenda è la provincia siciliana dove un uomo è accusato di avere sottoposto, tra le mura domestiche, a vessazioni, insulti e aggressioni (fisiche e verbali) la compagna. A inchiodare l’uomo sono le dichiarazioni fornite dalla donna e confermate dalle parole di alcuni testimoni. Consequenziale, quindi, sia in primo che in secondo grado, la sua condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia, reso più grave dalla presenza, in occasione di alcuni episodi, della figlia minorenne della coppia. Per quanto concerne la pena, essa viene fissata in tre anni e sei mesi di reclusione. Col ricorso in Cassazione, la difesa prova a ridimensionare i fatti, sostenendo la ravvisabilità del reato di stalking, in ragione «della mancanza di stabile convivenza» e «della sopravvenuta cessazione del vincolo affettivo» tra l’uomo e la donna. Per i Giudici bisogna partire innanzitutto dall’accertamento dei fatti denunciati dalla donna. Su questo fronte, «il contributo narrativo della persona offesa è stato attentamente e criticamente vagliato» dai giudici d’Appello, i quali «si sono confrontati con la valenza confermativa delle dichiarazioni della madre e della sorella, le quali hanno offerto convergenti riscontri circa le ripetute angherie, violenze e vessazioni inflitte dall’uomo alla partner, nonché di due testi estranei alla cerchia familiare insieme, oltre che della operatrice dello “Sportello anti-violenza”». Senza dimenticare, poi, «le fotografie scattate nel corso dell’ultima aggressione» dalla donna e ritraenti lesioni compatibili con la dinamica dei fatti da lei descritta». Sulla base delle dichiarazioni della donna, poi, è stato confermato che «plurimi episodi hanno visto la figlia minorenne presente agli episodi di aggressione». Mentre è insostenibile la tesi difensiva mirata a evidenziare «la necessita di disporre una consulenza per verificare il danno patito dalla minore per avere assistito agli episodi di maltrattamento». Ciò perché «la cosiddetta violenza assistita è configurabile a prescindere dall’età del minorenne, purché il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi, cui il minorenne assiste, siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico». Ragionando in questa ottica, va sottolineata, tornando alla vicenda oggetto del processo, «la consapevole partecipazione della minore, fatta a sua volta oggetto di reprimende e tentativi di aggressione da parte del genitore». Appurate le condotte tenute dall’uomo, per la Cassazione è necessario parlare di maltrattamenti in famiglia. In premessa, viene richiamato il principio secondo cui «la cessazione della convivenza segna l’estinzione della relazione di fatto, dal momento che in tale ipotesi è proprio la coabitazione ad esprimere il rapporto di solidarietà che lega le persone», e, perciò, il reato di stalking «è destinato residualmente ad operare in situazioni in cui non vengano in considerazione condotte maturate in ambito familiare». Inoltre, «in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” nell’accezione più ristretta, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed affetti, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa. Sicché non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l’ipotesi aggravata di atti persecutori in presenza di condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell’altro» però «dopo la cessazione della convivenza». Invece, nella vicenda in esame, «non emerge affatto la interruzione della convivenza. Le condotte maltrattanti sono state realizzate in un periodo in cui la coabitazione fra l’uomo e la donna era solo, a tratti, parzialmente sospesa in ragione di momenti di più elevata criticità, ma», osservano i Giudici, «non era affatto venuto meno il vincolo relazionale, atteso che addirittura il rapporto sentimentale fra i protagonisti si era conservato. Nonostante le temporanee e circoscritte interruzioni, l’uomo e la donna avevano sempre ripreso la convivenza sino all’allontanamento definitivo da parte della donna». In definitiva, «la ricostruzione fattuale operata dai giudici di merito ha escluso l’episodicità degli eventi e la loro riconduzione a una conflittuale dinamica di coppia, là dove, viceversa, le aggressioni fisiche e psicologiche sono risultate caratterizzate da abitualità, sì da consentire di scrutinare positivamente tutti gli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti in famiglia».

Presidente Aprile - Relatore Giorgi Ritenuto in fatto 1. La Corte d'Appello di Palermo, con sentenza pronunciata il 18 giugno 2024, confermava quella di primo grado emessa dal Tribunale di Marsala il 25 ottobre 2022, che aveva ritenuto il ricorrente responsabile del reato di cui all'articolo 572, commi primo e secondo cod. pen., per avere, con vessazioni, insulti e aggressioni fisiche e verbali, maltrattato la convivente N.E.M. e la figlia A., condannandolo alla pena di anni tre e mesi sei di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile. La Corte ripercorreva nel merito le motivazioni svolte dal giudice di primo grado circa la responsabilità per i fatti contestati e riteneva non fondato il rilievo difensivo relativo all'inattendibilità della persona offesa che aveva reso dichiarazioni puntuali e consequenziali, peraltro riscontrate da quelle di testimoni escussi nel corso del dibattimento (in particolare la sorella e la madre della stessa, un'ospite della comunità dove la donna era stata accolta, un conoscente e il titolare del ristorante presso cui la donna aveva svolto attività di cameriera) nonché dalle fotografie che la persona offesa aveva scattato in occasione dell'aggressione fisica avvenuta il (OMISSIS). Disattendeva inoltre le censure relative alla sussistenza dell'aggravante contestata, dal momento che era emerso che la minore, essendo sempre in compagnia della persona offesa, aveva ripetutamente assistito alle condotte aggressive del padre, nonché, in alcune situazioni, era stata vittima ella stessa. I Giudici di appello ritenevano di non diversamente qualificare la fattispecie in esame nel reato di atti persecutori di cui all'articolo 612-bis cod. pen., dal momento che il compendio probatorio dimostrava il carattere abituale delle condotte maltrattanti. La Corte territoriale riteneva, infine, di non poter concedere le attenuanti generiche alla luce delle modalità della condotta protratta per un considerevole arco temporale a fronte della mancata presentazione di elementi suscettibili di positivo apprezzamento. 2. Il difensore dell'imputato ha proposto ricorso per cassazione avverso detta sentenza e ne ha chiesto l'annullamento, denunziando la violazione di legge e il vizio di motivazione con riguardo: 2.1 alla valutazione della prova dichiarativa, da un lato quanto alla ritenuta attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, dall'altro circa la sottovalutazione delle dichiarazioni rese dai testimoni della difesa; 2.2. alla sussistenza dell'aggravante di cui al comma secondo della norma incriminatrice, non avendo la Corte accertato l'abitualità delle condotte e la loro idoneità a cagionare uno stato di sofferenza psicofisica nella minore; inoltre è mancata anche una valutazione del danno effettivamente patito dalla minore (ad esempio tramite una consulenza medica), non potendo limitare l'indagine alla sola circostanza oggettiva della filiazione o della mera presenza della minore ai litigi fra i genitori; 2.3. alla qualificazione giuridica dei fatti, essendo ravvisabile semmai il delitto di cui all'articolo 612-bis cod. pen. in ragione della mancanza di stabile convivenza, della sopravvenuta cessazione del vincolo affettivo o comunque della mancanza di attualità del medesimo. 3. La parte civile ha depositato conclusioni scritte, con le quali insiste per il rigetto del ricorso. 4. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare. Considerato in diritto 1. Il ricorso va rigettato, in quanto proposto per motivi prevalentemente di merito, diversi da quelli consentiti dalla legge, oltre che per vari aspetti aspecifici, non misurandosi con il consequenziale iter motivazionale che caratterizza la sentenza impugnata. 2. Sono sicuramente tali le censure con le quali il ricorrente denuncia la violazione di legge e il vizio motivazionale circa il giudizio di attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e quindi la configurabilità degli elementi costitutivi del reato di maltrattamenti. I relativi motivi di ricorso, infatti, appaiono sostanzialmente orientati a riprodurre un quadro di argomentazioni già esposte dinanzi ai giudici di merito e ampiamente vagliate e correttamente disattese dalla Corte distrettuale, ovvero intese a sollecitare una rivisitazione delle risultanze processuali, in tal guisa richiedendo, sul presupposto di una valutazione alternativa delle fonti di prova, l'esercizio di uno scrutinio improponibile in questa sede, a fronte della logica consequenzialità che caratterizza la scansione delle sequenze motivazionali dell'impugnata decisione, che ha linearmente ricostruito il compendio storico-fattuale posto alla base dei temi d'accusa. In particolare, il contributo narrativo della persona offesa è stato attentamente e criticamente vagliato dalla Corte territoriale, che si è confrontata con la valenza confermativa delle dichiarazioni della madre e della sorella, le quali hanno offerto convergenti riscontri circa le ripetute angherie, violenze e vessazioni inflitte dall'imputato, nonché dei testi B. e T., estranei alla cerchia familiare insieme, oltre della operatrice dello sportello anti-violenza B.. A questo si aggiungono le fotografie scattate nel corso dell'ultima aggressione ritraenti lesioni compatibili con la dinamica dei fatti descritta dalla persona offesa. 3. Lo specifico motivo di ricorso, relativo alla sussistenza dell'aggravante, è generico e riproduttivo della medesima doglianza genericamente prospettata in appello, oltre che manifestamente infondato, risolvendosi nella prospettazione di enunciati ermeneutici in contrasto con il dato normativo e con la giurisprudenza di legittimità. Anche a voler seguire un recente e rigoroso indirizzo di legittimità secondo cui, ai fini della integrazione della fattispecie aggravata dei maltrattamenti commessi in presenza del minore, ai sensi dell'articolo 572, comma secondo, cod. pen., non è sufficiente che il minore assista ad un singolo episodio in cui si concretizza la condotta maltrattante, ma è necessario che il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico (Sez. 6, n. 31929 del 25/06/2024, C., Rv. 286867), va considerato che la Corte territoriale ha esaminato i plurimi episodi che hanno visto la minore presente agli episodi di aggressione, descrivendoli nei particolari. Inconferente è la rappresentata necessità di disporre una consulenza per verificare il danno patito dalla minore per avere assistito agli episodi di maltrattamento. La Corte d'appello, richiamando in tal senso la giurisprudenza di legittimità, ha sottolineato che è configurabile la fattispecie aggravata della c.d. violenza assistita , a prescindere dall'età del minorenne, purché il numero, la qualità e la ricorrenza degli episodi cui questi assiste siano tali da lasciare inferire il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico. (Sez. 6, n. 47121 del 05/10/2023, M., Rv. 285479). Peraltro, dalle sentenze di merito si evince la consapevole partecipazione della minore fatta a sua volta oggetto di reprimende e tentativi di aggressione da parte del genitore. 4. Infondata è, infine, la terza doglianza, relativa alla riconducibilità della condotta al diverso reato di cui all'articolo 612-bis cod. pen. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la cessazione della convivenza segna l'estinzione della relazione di fatto, dal momento che in tale ipotesi è proprio la coabitazione ad esprimere il rapporto di solidarietà che lega le persone (Sez. 6, n. 22915 del 07/05/2013, I., Rv. 255628), e che il reato di cui all'articolo 612-bis cod. pen. è destinato residualmente ad operare in situazioni in cui non vengano in considerazione condotte maturate in ambito familiare (Sez. 6, n. 25498 del 20/04/2017, S., Rv. 270673). In epoca più recente, è stato chiarito che, in tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di famiglia e di convivenza di cui all'articolo 572 cod. pen. nell'accezione più ristretta, di una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed affetti, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continuativa (basti pensare al caso frequente di coloro che, per ragioni di lavoro, dimorino in luogo diverso dall'abitazione comune per periodi più o meno lunghi, ma comunque circoscritti). Sicché non è configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia, bensì l'ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all'articolo 612-bis, comma secondo, cod. pen. in presenza di condotte vessatorie poste in essere da parte di uno dei conviventi more uxorio ai danni dell'altro dopo la cessazione della convivenza (Sez. 6, n. 15883 del 16/03/2022, D., Rv. 283436). Nel solco di tale giurisprudenza, cui il Collegio intende dare seguito, si osserva che nel caso di specie, a ben vedere, non emerge affatto la interruzione della convivenza. Le condotte maltrattanti sono state realizzate in un periodo nel quale la coabitazione fra i due era solo, a tratti, parzialmente sospesa in ragione di momenti di più elevata criticità, ma non era affatto venuto meno il vincolo relazionale, atteso che addirittura il rapporto sentimentale fra i protagonisti si era conservato. Nonostante le temporanee e circoscritte interruzioni, imputato e persona offesa avevano sempre ripreso la convivenza sino all'allontanamento definitivo da parte della donna, avvenuto nell'ottobre 2020, data che segna anche la chiusura della contestazione del reato. La ricostruzione fattuale operata dai giudici di merito ha escluso l'episodicità degli eventi e la riconduzione degli stessi a una conflittuale dinamica di coppia, là dove, viceversa, le aggressioni fisiche e psicologiche erano caratterizzate da abitualità, sì da consentire di scrutinare positivamente tutti gli elementi costitutivi della fattispecie contestata. 5. Il ricorso deve essere pertanto respinto, con la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. L'imputato va altresì condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile N.E.M., liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile N.E.M. che liquida in complessivi euro 2.000,00, oltre accessori di legge.