Responsabilità patrimoniale e natura del debito nel risarcimento da illecito

Nei casi in cui il profitto illecito derivi da una condotta penalmente rilevante durante l’esecuzione di un rapporto contrattuale valido, il risarcimento del danno ha natura di debito di valore, diretto a reintegrare il patrimonio del danneggiato e non semplicemente a restituire la somma oggetto dell’illecito.

Lo ha chiarito la Suprema Corte che, con la pronuncia in esame, conferma un importante orientamento sulla natura dell'obbligazione risarcitoria derivante da illecito. Nello specifico, la Corte d'Appello di Roma condannava l'imputato al risarcimento del danno per appropriazione indebita di somme destinate a un viaggio di nozze, liquidando un importo complessivo di 10.000 euro. Pur essendo intervenuta la prescrizione del reato ex articolo 646 c.p., la Cassazione ha ritenuto comunque persistente l'obbligo risarcitorio, evidenziando come – in presenza di illecito – il debito di valuta originariamente connesso alla restituzione di somme di denaro si converte in debito di valore. Tale qualificazione comporta che l'obbligazione sia sottratta al principio nominalistico di cui all'articolo 1224 c.c., con conseguente rivalutazione monetaria automatica fino alla data della liquidazione e possibilità di riconoscimento di interessi moratori in caso di ritardo. La Corte, inoltre, richiama la distinzione giurisprudenziale tra reato in contratto e reato contratto, precisando che anche nei casi in cui il profitto illecito derivi da una condotta penalmente rilevante durante l'esecuzione di un rapporto contrattuale valido, il risarcimento del danno ha natura di debito di valore, diretto a reintegrare il patrimonio del danneggiato e non semplicemente a restituire la somma oggetto dell'illecito. Ne consegue che il giudice del merito, nel liquidare il danno, deve tener conto della svalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, senza necessità che la parte danneggiata alleghi la prova del deprezzamento: in presenza di illecito extracontrattuale ex articolo 2043 c.c., infatti, la somma liquidata non si limita a rappresentare la mera restituzione della cifra indebitamente trattenuta, ma serve a reintegrare in modo pieno il patrimonio del soggetto leso, includendo anche il lucro cessante per il ritardato conseguimento della somma. Pertanto, la determinazione del quantum risarcitorio dovrà seguire la logica del debito di valore, con automatica rivalutazione e possibilità di computo degli interessi moratori anno per anno o secondo indice medio, come chiarito dalla giurisprudenza civile.

Presidente Petruzzellis – Relatore Pardo Ritenuto in fatto 1. La Corte di appello di Roma, con sentenza in data 5 novembre 2024, in parziale riforma della pronuncia del Tribunale di Roma del 14 giugno 2022, dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato di cui all'articolo 646 cod.pen. nei confronti di S.M.R., confermando la condanna della stessa al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili C.A.D. e S.M., già liquidato all'esito del giudizio di primo grado in complessivi € 10.000. 2. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l'avv.to Fabrizio Corsi difensore dell'imputata deducendo con distinti motivi: - violazione dell'articolo 1224 cod.civ. posto che il debito da restituzione di somme di denaro è debito di valuta così che sull'importo dovuto a titolo di danno patrimoniale doveva applicarsi il principio nominalistico indicato dalla suddetta norma del codice civile; - contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza in ordine all'asserita natura extracontrattuale del risarcimento complessivo, comprensivo oltre che del danno morale, anche di quello materiale, trattandosi di affermazione contraddittoria rispetto alla contestazione della aggravante di cui all'articolo 61 n. 11 cod.pen. che presuppone un rapporto contrattuale di base. Considerato in diritto 1. Il ricorso non è fondato e deve, pertanto, essere respinto. Ed invero, va innanzi tutto segnalato che la corte di appello, con le specifiche osservazioni svolte a pagina 6 della motivazione, ha sottolineato come, essendosi proceduto a valutazione equitativa del danno, complessivamente determinato in € 10.000, ha valutato che l'importo stabilito dal tribunale deve ritenersi congruo; a tale valutazione si è pervenuti confermando le considerazioni svolte dal giudice di primo grado circa la particolarità del momento in cui il reato veniva consumato in danno delle persone offese, che si vedevano sottratte somme destinate al loro viaggio di nozze ed erano state costrette a contattare i donanti al fine di calcolare gli importi loro illecitamente sottratti. E sotto tale profilo, pertanto, le pronunce di primo e secondo grado, avendo fatto riferimento a precisi elementi di fatto, appaiono non censurabili nella presente sede. 2. Quanto al motivo con il quale si è dedotta la natura di debito di valuta dell'obbligazione pecuniaria di restituzione delle somme trattenute indebitamente dalla S.M.R., lo stesso è anche esso non fondato. Va ricordato come nella giurisprudenza della Corte di legittimità sia stato enucleato un discrimen fra profitto conseguente da un reato contratto e profitto derivante da un reato in contratto . Nel primo caso - in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a prescindere dalla sua esecuzione - si determina un'immedesimazione del reato col negozio giuridico e quest'ultimo risulta integralmente contaminato da illiceità, con l'effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è, pertanto, assoggettabile a confisca; nel secondo caso - in cui il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale - è possibile enucleare aspetti leciti del relativo rapporto, perché il contratto è assolutamente lecito e valido inter partes, con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto dall'agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente (Sez. U, n. 26654 del 27/03/2008, Rv. 239924). Deve però affermarsi che anche nei reati in contratto, ove sia accertato che la realizzazione del profitto avente ad oggetto una somma di denaro sia frutto di una condotta illecita penalmente sanzionata, pur non procedibile per il maturarsi dell'effetto estintivo della prescrizione, il debito di valuta originariamente sussistente “perde” le sue caratteristiche iniziali e diviene, in conseguenza della consumazione del reato, proprio un debito di valore; a tale conclusione si perviene sulla base della fondamentale previsione dell'articolo 2043 cod.civ. in tema di risarcimento per fatto illecito ed in base al quale qualunque fatto doloso che cagiona ad altri un danno ingiusto obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno. Al proposito, poi, va ricordato come secondo la giurisprudenza civile della Corte di legittimità, l'obbligazione di risarcimento del danno derivante da illecito extracontrattuale configura un debito di valore, in quanto diretta a reintegrare completamente il patrimonio del danneggiato, per cui resta sottratta al principio nominalistico e va dal giudice, anche d'ufficio, quantificata tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta, secondo gli indici di deprezzamento della moneta e fino alla data della liquidazione, solamente da tale data in quest'ultimo caso spettando (in presenza della necessaria domanda di risarcimento del lucro cessante da ritardato pagamento della somma rivalutata) gli interessi moratori, al tasso legale, sulla somma rivalutata, giacché altrimenti il creditore verrebbe a conseguire più di quanto lo stesso avrebbe ottenuto in caso di tempestivo adempimento dell'obbligazione. Tale configurazione non è destinata a mutare per il fatto che l'evento dannoso coincide con la perdita della somma di danaro investito, giacché nella responsabilità aquiliana - ove la obbligazione risarcitoria mira alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato - ai fini del risarcimento del danno viene in rilievo la perdita del valore oggetto nella specie dell'operazione finanziaria, e ciò che il danneggiante deve non è la corresponsione di una data somma di danaro, ma l'integrale risarcimento del danno, di cui la somma originaria costituisce solo una componente, ai fini della relativa commisurazione. (Cass., Sez. 1 civ. 25 febbraio 2009, n. 4587). E si è anche affermato che, costituendo l'obbligazione di risarcimento del danno un'obbligazione di valore sottratta al principio nominalistico, la rivalutazione monetaria è dovuta a prescindere dalla prova della svalutazione monetaria da parte dell'investitore danneggiato, ed è quantificabile dal giudice, anche d'ufficio, tenendo conto della svalutazione sopravvenuta fino alla data della liquidazione. È altresì risarcibile il nocumento finanziario (lucro cessante) subito a causa del ritardato conseguimento della somma riconosciuta a titolo di risarcimento del danno, con la tecnica degli interessi computati non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione, ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio (Cass., Sez. 1 civ. 25 febbraio 2009, n. 4587). L'applicazione dei suddetti principi comporta il rigetto del motivo di ricorso, poichè correttamente il giudice di merito ha valutato l'obbligazione risarcitoria quale debito di valore. Al rigetto del ricorso consegue, per il disposto dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.