In tema di impresa familiare, è illegittima l’esclusione del convivente di fatto dalla qualifica di familiare ai sensi dell’articolo 230-bis, comma 3, c.c., ove risulti un apporto effettivo e continuativo del convivente all’impresa stessa.
Tale interpretazione si impone in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 2024, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-bis, comma 3, e dell'articolo 230-ter c.c., nella parte in cui non prevedevano tutele equivalenti a quelle riconosciute al coniuge e ai parenti, per violazione degli articolo 2,3,4,35 e 36 Cost., nonché dell'articolo 8 CEDU. La ricorrente, convivente con il titolare di un'impresa agricola dal 2000, chiedeva il riconoscimento della propria partecipazione all'impresa familiare ex articolo 230-bis c.c., prestata tra il 2004 (anno di iscrizione nel registro delle imprese) e il 2012 (anno di decesso del convivente). Il Tribunale di Fermo rigettava la domanda, ritenendo che l'articolo 230-bis cod. civ. fosse applicabile ai soli rapporti di coniugio, parentela o affinità, e non anche alla convivenza di fatto. La Corte d'appello di Ancona, confermando la decisione del Tribunale di primo grado, rilevava ulteriori circostanze ostative all'ipotizzata partecipazione all'impresa familiare: la formale permanenza del matrimonio del de cuius con un'altra donna; l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, di durata limitata, tra la convivente e l'impresa agricola; il contestuale impiego della convivente presso la Regione Lombardia; la cessazione del rapporto di convivenza nel 2012, ossia in epoca anteriore all'entrata in vigore della l. 76/2016 (c.d. Legge Cirinnà), la quale ha esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare. A seguito del ricorso per cassazione promosso dalla convivente, la Sezione Lavoro sospendeva il giudizio e rimetteva gli atti al Primo Presidente, ritenendo che l'articolo 230-bis necessitasse del vaglio costituzionale, alla luce degli interventi legislativi e giurisprudenziali favorevoli al riconoscimento della convivenza di fatto. In particolare, la Suprema Corte richiamava: l'introduzione, ad opera della l. 76/2016, dell'articolo 230-ter c.c., che riconosce e tutela la partecipazione del convivente di fatto all'impresa familiare; la giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha valorizzato la convivenza more uxorio nelle ipotesi di lesione di diritti fondamentali, quali il diritto sociale all'abitazione (sentenze n. 559/1986 e 404/1988) ovvero il diritto alla salute (sentenze n. 213/2016); la rilevanza degli articolo 2 e 3 Cost., della giurisprudenza della Corte EDU e del diritto UE; la necessità di ricondurre la convivenza stabile nel concetto di “vita familiare”, come delineato dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell'articolo 8, par. 1, CEDU. La Corte, perciò, riteneva indispensabile l'intervento nomofilattico delle Sezioni Unite al fine di chiarire se l'articolo 230-bis c.c. potesse essere oggetto di un'interpretazione evolutiva, tale da estenderne la portata anche al convivente di fatto, purché la convivenza presenti un comprovato grado di stabilità. La controversia veniva quindi rimessa alla Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 148/2024, dichiarava l'illegittimità costituzionale: dell'articolo 230-bis, terzo comma, c.c. nella parte in cui escludeva il convivente di fatto tra i soggetti legittimati a partecipare all'impresa familiare, per violazione del diritto fondamentale al lavoro (articolo 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (articolo 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (articolo 2 Cost.), nonché del principio di uguaglianza sostanziale (articolo 3 Cost.); e, conseguentemente, dell'articolo 230-ter c.c., nella misura in cui riconosceva al convivente una tutela differenziata e inferiore rispetto a quella prevista per i familiari. La convivente allora proponeva ricorso in riassunzione deducendo: l'irrilevanza del proprio impiego presso la Regione Lombardia ai fini dell'esclusione della sua partecipazione all'impresa, con cui aveva effettivamente collaborato; la natura meramente simulata, ai soli fini assicurativi, del rapporto di lavoro subordinato, instaurato con l'azienda agricola del de cuius; l'erroneità della statuizione della Corte territoriale, per non aver tenuto conto delle mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che delle aperture della giurisprudenza di legittimità e costituzionale; la derogabilità, in ambito civile, del principio di irretroattività, non essendo questo coperto da riserva costituzionale, a condizione che tale deroga risulti ragionevole e conforme a criteri di maggiore giustizia. Con un deciso cambio di prospettiva rispetto alla tradizionale interpretazione dell'articolo 230-bis c.c., le Sezioni Unite – alla luce della sentenza n. 148/2024 resa dalla Corte Costituzionale – hanno accolto il ricorso, rinviando alla Corte d'Appello di Ancona per una revisione dell'intero impianto decisionale. Nello specifico, la Corte territoriale è chiamata ad accertare l'apporto lavorativo prestato in concreto nell'impresa dalla convivente, in termini di continuità ed effettività, accertamento che in prima battuta non era stato condotto proprio sul presupposto dell'inapplicabilità ratione temporis dell'articolo 230-ter c.c. e dell'impossibilità di applicare estensivamente l'articolo 230-bis c.c. L'ordinanza in commento non si pone come atto di composizione di un contrasto giurisprudenziale, in quanto — fino alla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 148/2024 — l'orientamento della giurisprudenza di legittimità risultava sostanzialmente uniforme nel negare l'applicabilità dell'articolo 230-bis c.c. al convivente di fatto, in ragione del carattere ritenuto eccezionale della norma e della conseguente insuscettibilità di interpretazione analogica (Cass. 22405/2004). Al contrario, il contributo nomofilattico delle Sezioni Unite si connota non tanto per l'adozione di un indirizzo interpretativo nuovo, quanto per la funzione di implementazione della regola di giudizio scaturente dalla dichiarazione di incostituzionalità, secondo un modello che potremmo definire di nomofilachia costituzionalmente orientata . Difatti, l'intervento della Corte Costituzionale ha inciso direttamente sulla portata della norma, rimuovendo il limite soggettivo rappresentato dalla nozione tradizionale di “familiare” e imponendo una lettura dell'articolo 230-bis c.c. conforme ai principi fondamentali della Costituzione. La portata sistemica dell'ordinanza in commento si coglie nella sua capacità di riorganizzare l'assetto giuridico dell'impresa familiare: il riconoscimento del convivente di fatto quale legittimato alla partecipazione e alle connesse pretese economico-patrimoniali produce effetti che travalicano il singolo caso, incidendo su un'area del diritto civile tradizionalmente impermeabile alle trasformazioni della realtà sociale. Si assiste, così, all'emersione di una concezione funzionale e non più meramente formale della “famiglia”, in linea con l'evoluzione giurisprudenziale e legislativa in tema di unioni affettive non matrimoniali. L'ordinanza acquista, pertanto, valore paradigmatico, poiché cristallizza l'ingresso a pieno titolo del convivente more uxorio nel perimetro soggettivo dell'impresa familiare, e lo fa riconoscendo che la protezione del lavoro prestato in ambito familiare non può dipendere esclusivamente dalla forma del legame affettivo, ma deve fondarsi su parametri sostanziali quali la stabilità della convivenza e l'effettività e continuità dell'apporto lavorativo. Si tratta di un passaggio fondamentale nel percorso di costituzionalizzazione del diritto privato, nel quale la giurisprudenza — sia costituzionale che di legittimità — si fa carico di garantire l'effettività dei diritti fondamentali anche all'interno delle relazioni familiari non formalizzate, riconoscendone la rilevanza giuridica in funzione del lavoro prestato e del contributo all'incremento patrimoniale dell'impresa.
Presidente D'Ascola – Relatore Marotta Fatti di causa 1. La Corte d'appello di Ancona confermava la decisione del Tribunale di Fermo, che aveva respinto la domanda proposta dalla sig.ra U.I. nei confronti dei figli-eredi del sig. E.D., volta ad accertare l'esistenza dell'impresa familiare relativa all'azienda agricola “(OMISSIS) di D. E.” nel periodo dal 2004 al 28.11.2012, data del decesso del sig. E. D., nonché ad ottenere condanna dei coeredi del D. alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe all'impresa. La ricorrente aveva dedotto di aver convissuto con il sig. D. - già sposato con altra donna - sin dall'anno 2000 dopo aver intrapreso con lui, nel 1988, una relazione sentimentale. La convivenza stabile, iniziata in località (OMISSIS), era poi proseguita a (OMISSIS) ove la coppia si era trasferita nel 2008, avendo il D. acquistato un fondo rustico al quale erano via via susseguite altre acquisizioni e la costruzione di una cantina per la produzione del vino oltre che avviata un'attività di ricezione turistica. La U.I. aveva, quindi, dedotto di aver prestato attività lavorativa in modo continuo nell'azienda del D. denominata “(OMISSIS) di D. E.”, e ciò dal 2004 (anno di iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012 (anno di decesso del D.). Il Tribunale aveva respinto la domanda rilevando che il riconoscimento della quota di partecipazione all'impresa familiare ex articolo 230-bis cod. civ. presuppone la sussistenza di un rapporto di coniugio o di parentela o affinità a termini dell'articolo 230-bis cod. civ. e ritenendo non applicabile detta disciplina alla convivenza. 2. Egualmente la Corte territoriale, per quanto qui rileva, riteneva che l'articolo 230-bis cod. civ. non trovasse applicazione nei confronti del “convivente di fatto”, non potendo quest'ultimo essere considerato “familiare” ai sensi del comma 3 dell'articolo 230-bis cod. civ. Evidenziava che, in ogni caso, emergevano plurime circostanze ostative alla ipotizzata partecipazione all'impresa familiare: - l'essere il sig. E. D. rimasto fino alla morte formalmente legato in matrimonio con M. E. G.; - l'essere stato stipulato, sia pure per un periodo più limitato rispetto a quello dedotto dalla ricorrente (dal 2004 al 2012), un contratto di lavoro subordinato tra la sig. U.I. e l'azienda, condizione escludente l'applicazione dell'articolo 230-bis cod. civ., che espressamente prevede una residualità della disciplina dell'impresa familiare (comma 1: «Salvo che non sia configurabile un diverso rapporto […]»); - l'essere risultata la sig.ra Irene U.I. regolarmente assunta presso la Regione Lombardia. Aggiungeva che non poteva trovare applicazione l'articolo 230-ter cod. civ., essendo il rapporto di convivenza cessato nel 2012, ossia prima dell'entrata in vigore della legge n. 76/2016 che ha esteso ai conviventi la disciplina dell'impresa familiare. 3. Avverso tale sentenza Irene U.I. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 4. C. D., S. D. e M. D. hanno resistito con controricorso. 5. Il Collegio della Sezione Lavoro di questa Corte ha, quindi, emesso l'ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, depositata in data 24 gennaio 2023, con cui ha disposto la trasmissione del ricorso al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. L'ordinanza, dopo aver ricordato l'orientamento di legittimità secondo il quale presupposto per l'applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l'esistenza di una famiglia legittima con la conseguenza che l'articolo 230-bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza, ovvero alla famiglia cosiddetta “di fatto”, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di interpretazione analogica (così Cass., 29 novembre 2004, n. 22405), ha ritenuto che lo stesso fosse meritevole di una revisione alla luce sia degli interventi legislativi e/o per via giurisprudenziale realizzanti una “apertura” nei confronti della convivenza more uxorio. Ha così richiamato la recente introduzione dell'articolo 230-ter cod. civ., ad opera dell'articolo 1, comma 46, della legge 20 maggio 2016, n. 76 (c.d. legge Cirinnà), che ha previsto per il convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa dell'altro convivente una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, salvo che tra i conviventi non esista un rapporto di società o di lavoro subordinato. Ha, inoltre, richiamato le pronunce della Corte costituzionale che hanno attribuito rilevanza alla convivenza more uxorio nelle ipotesi in cui venga in considerazione la lesione di diritti fondamentali come il diritto sociale all'abitazione (sentenza n. 559 del 1986 e n. 404 del 1988) ovvero il diritto alla salute (sentenza n. 213 del 2016) nonché quelle che, nel settore penale, hanno affermato che può beneficiare della scriminante di cui all'articolo 384, comma 1, cod. pen. anche il convivente more uxorio (sentenze n. 416 e n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 140 del 2009). Considerata, poi, l'impossibilità di applicare retroattivamente la disciplina del 2016 e dato atto dell'evoluzione che si è avuta nella società con sempre maggiore diffusione della convivenza more uxorio (di cui hanno tenuto conto sia il legislatore con la riforma del 2016 sia la Corte costituzionale) ha sottolineato che una esclusione del convivente che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare dalla tutela di cui all'articolo 230-bis cod. civ. si porrebbe in contrasto non solo con gli articolo 2 e 3 Cost. ma soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE. Ha richiamato Cass. Pen., Sez. Un., 17 marzo 2021, n. 10381 che, in difformità rispetto ai precedenti di legittimità nel senso della insuscettibilità di una interpretazione estensiva o analogica, ha affermato che l'articolo 384, comma primo, cod. pen., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi abbia commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente “more uxorio” da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore. Ha evidenziato che in detta pronuncia il Giudice di legittimità ha precisato come la vita dei conviventi di fatto rientri nella concezione di “vita familiare” ormai da tempo elaborata dalla Corte EDU in sede di interpretazione dell'articolo 8, par. 1, CEDU. Ha sottolineato che la Corte EDU, pur avendo ricondotto la tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza di fatto, ha tuttavia considerato legittima la limitazione di tale diritto (ad esempio, in ragione dell'esigenza di tutelare gli interessi connessi all'amministrazione della giustizia penale) riconoscendo altresì la possibilità di bilanciamenti differenziati per le coppie sposate e le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del legislatore. Ha ritenuto perciò indispensabile un intervento nomofilattico al fine di chiarire “se l'articolo 230-bis, comma terzo, cod. civ. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione del mutamento dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli articolo 2,3,4 e 35 Cost. sia all'articolo 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità”, questione «di massima di particolare importanza», da sottoporre alle Sezioni Unite. 6. Il Primo Presidente, in ragione della particolare importanza della questione di massima, ha assegnato la controversia a queste Sezioni unite. 7. Fissata l'udienza di pubblica discussione e discussa la causa all'udienza del 24.10.2023, con l'acquisizione delle conclusioni anche scritte del procuratore Generale (che ha chiesto rigettarsi il ricorso) questa Corte, con ordinanza interlocutoria n. 1900/2024, ha sospeso il giudizio e rinviato gli atti alla Corte costituzionale. Ha premesso che nel caso in esame, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'articolo 230-ter cod. civ. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'articolo 230-bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), era stato del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la U.I. come familiare ai sensi dell'articolo 230-bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della predetta nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa. Ha valutato la non incidenza, ai fini della rilevanza, degli ulteriori elementi indicati dalla Corte territoriale (a) l'esistenza di un formale rapporto di coniugio del titolare dell'impresa; b) l'aver avuto, la ricorrente, un rapporto di lavoro subordinato, ancorché per un periodo limitato; c) l'avere in corso, la ricorrente, un rapporto di lavoro con la Regione Lombardia), dovendosi ricordare che l'articolo 230-bis al comma 3 qualifica la partecipazione del convivente familiare quale “collaborazione” all'attività economica. Ha quindi posto, ritenendola non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 230-bis cod. civ. nella parte in cui non include nel novero dei familiari anche il convivente di fatto per violazione degli articolo 2,3,4,35 e 36 Cost., nonché dell'articolo 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'U.E., ed ancora, per il tramite dell'articolo 117, comma 1 Cost., degli articolo 8 e 12CEDU. Ha, altresì, evidenziato che le prospettate censure di incostituzionalità si riverberavano, in termini di illegittimità derivata, anche sull'articolo 230-ter cod. civ. che non ha riconosciuto al convivente di fatto la stessa tutela del coniuge/familiare ma una tutela differenziata ed inferiore (il che non rendeva percorribile, data l'insuperabilità della lettera dell'articolo 230-bis cod. civ. e gli evidenziati rischi di distonia del sistema, la strada di una interpretazione della disposizione qui in esame conforme alla Costituzione ed alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea). 8. La Corte costituzionale, con sentenza n. 148 del 2 luglio 2024, depositata in data 25 luglio 2024, pubblicata in G.U. 31 luglio 2024 n. 31 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-bis, terzo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevedeva come familiare anche il convivente di fatto e come impresa familiare quella cui collabora anche il convivente di fatto, ciò per la violazione del diritto fondamentale al lavoro (articolo 4 e 35 Cost.) e alla giusta retribuzione (articolo 36, primo comma, Cost.), in un contesto di formazione sociale, quale è la famiglia di fatto (articolo 2 Cost.), nonché per violazione dell'articolo 3 Cost.; ha dichiarato, altresì, in via consequenziale, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11.3.1953 n. 87, l'illegittimità costituzionale dell'articolo 230-ter codice civile. 9. È stato presentato ricorso in riassunzione da Irene U.I. successivamente illustrato da memoria. 10. È stata fissata l'adunanza camerale con rituale invio dell'avviso alle parti costituite. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Sostiene che il rapporto di lavoro con la Regione Lombardia (iniziato nel 1989 e proseguito con contratto di lavoro al 100% fino al 31.12.2020, e poi, a partire dal 01.01.2012, con contratto part-time verticale al 50%) non abbia influito sulla sua partecipazione all'azienda, profusa sia nell'intrattenimento di rapporti esterni con i vari enti (Comune, Provincia, Regione, Asur ecc.), clienti, fornitori, professionisti e nell'organizzazione di eventi promozionali e nella creazione e sviluppo dell'azienda sotto il profilo della costituzione della rete commerciale, sia nella diretta attività nei campi (nei periodi di raccolta delle uve e delle olive) insieme con i braccianti che in precedenza aveva assunto e selezionato. Assume, inoltre, che il rapporto di lavoro subordinato intrapreso per brevi periodi con l'azienda agricola del D. sia stato simulato ai soli fini assicurativi e, pertanto, lo stesso dovrebbe essere letto nella prospettiva delle condizioni familiari in cui si è svolto. 2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 230-bis cod. civ., in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Deduce che la Corte territoriale ha statuito erroneamente laddove non ha considerato le mutate sensibilità sociali in materia di convivenza, oltre che le aperture della giurisprudenza di legittimità e della giurisprudenza costituzionale verso il convivente more uxorio; in tal senso, secondo la ricorrente, la disciplina dell'impresa familiare dovrebbe trovare applicazione anche in mancanza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base ad una lettura costituzionalmente orientata dell'articolo 230-bis cod. civ. 3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli articolo 230-bis e 230-ter cod. civ. e dell'articolo 11 delle Preleggi. Sostiene che, in ambito civile, il principio di irretroattività non è presidiato da una norma costituzionale e, pertanto, può essere derogato purché ciò risponda a criterio di ragionevolezza e di maggior giustizia. 4. Alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 148 del 2024 il ricorso, in tutti i motivi in cui è articolato, deve essere accolto. Le censure ruotano su una lettura costituzionalmente orientata dell'articolo 230-bis cod. civ., anche in relazione all'articolo 230-ter cod. civ., e pongono in rilievo la circostanza che la Corte territoriale, sul presupposto della inapplicabilità ratione temporis al caso di specie dell'articolo 230-ter cod. civ. e della impossibilità di un'applicazione estensiva dell'articolo 230-bis cod. civ. (nel senso di estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista per il familiare), ha del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in ragione del condizionamento derivante dalla ratio decidendi costituita dall'impossibilità di qualificare la U.I. come familiare ai sensi dell'articolo 230-bis cod. civ.) ogni accertamento in concreto circa l'effettività e la continuatività dell'apporto lavorativo della predetta nell'impresa familiare, apporto che si assume determinativo dell'accrescimento della produttività dell'impresa. È evidente che l'intera ratio decidendi va rivista alla luce del pronunciamento della Corte costituzionale. 5. Da tanto consegue che il ricorso va accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio della causa alla dinanzi alla Corte d'appello di Ancona che, in diversa composizione, procederà ad un nuovo esame tenendo conto della pronuncia del Giudice delle leggi interpretativa additiva dell'articolo 230-bis terzo comma cod. civ. ed in via conseguenziale demolitoria dell'articolo 230-ter cod. civ. 6. Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per il regolamento delle spese, alla Corte d'appello di Ancona, in diversa composizione.