Nella liquidazione del danno da invalidità permanente, per la determinazione del pregiudizio patrimoniale subito dal danneggiato lavoratore dipendente, bisogna prendere a riferimento gli emolumenti che a questo spettano in concreto, al lordo delle ritenute diverse da quelle fiscali, che, invece, vanno escluse dal reddito considerato.
Con la sentenza in commento, la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione ha affrontato importanti tematiche inerenti al pregiudizio alla vita lavorativa del danneggiato in un sinistro e il rapporto fra la relativa indennità e il risarcimento del danno. La pronuncia della Suprema Corte conclude un complesso percorso processuale, iniziato con il giudizio promosso da un ciclista vittima di un sinistro stradale, nel quale lo stesso aveva riportato gravi lesioni, tali da comprometterne significativamente la capacità lavorativa e la stessa vita professionale, fino a determinarne il licenziamento, da parte della società presso la quale ricopriva mansioni dirigenziali. In primo grado, il tribunale adito aveva dichiarato la corresponsabilità della vittima e del responsabile civile, condannando quest'ultimo, insieme con la compagnia assicuratrice garante del suo motoveicolo, a corrispondere un cospicuo risarcimento all'attore, nonché a rifondere l'INPS delle somme già erogate a quest'ultimo, a titolo di assegno di invalidità e di ratei della pensione di inabilità già corrisposti, nonché da corrispondere in futuro. Questa pronuncia era stata impugnata presso la corte territoriale, che l'aveva parzialmente riformata, escludendo da un lato la corresponsabilità del danneggiato e dall'altro la personalizzazione del danno biologico, ritenendola non dovuta. La Corte, inoltre, aveva scelto di applicare, nella determinazione del calcolo, un coefficiente di capitalizzazione corrispondente all'età della vittima al momento della perdita del lavoro e non a quello del sinistro, come erroneamente deciso dal primo giudice. La somma risultante dalla capitalizzazione, veniva infine diminuita del 10%, per tener conto dello scarto tra vita fisica e vita lavorativa. Avverso tale pronuncia, la compagnia assicuratrice ricorreva innanzi alla Corte di Cassazione. La natura omogenea delle somme da compensare In prima battuta la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha esaminato il motivo di ricorso, con cui la ricorrente lamentava la mancata decurtazione, da parte del primo giudice, dall'importo riconosciuto quale risarcimento del danno patrimoniale, della somma corrisposta dal datore di lavoro, a titolo di incentivo all'esodo, sul rilievo che si trattasse, di poste erogate in conseguenza del medesimo fatto illecito e aventi entrambe anche funzione di indennità risarcitoria, per l'interruzione del rapporto di lavoro. La Suprema Corte, invece, confermando la valutazione dei giudici territoriali, ha voluto richiamare quanto già affermato dalle Sezioni Unite (Cass. n. 12564/2018; Cass. n. 12568 /2018), in tema di presupposti per operare lo scomputo di una data somma dal risarcimento spettante, a titolo di compensatio lucri cum damno, qualora non vi sia identità del debitore del risarcimento e dell'indennizzo. Detta operazione, infatti, presuppone che il vantaggio debba avere una funzione compensativa del pregiudizio causato dal danno e allo stesso tempo, che non sia frutto di scelte autonome e sacrificanti del danneggiato ed infine che la legge preveda un meccanismo di surroga o di rivalsa. Nel caso di specie, invece, non sussistono questi presupposti, poiché la somma corrisposta dal datore di lavoro al danneggiato, di cui la ricorrente chiedeva il diffalco, non aveva scopo compensativo, ma piuttosto finalità transattiva della causa di impugnazione del licenziamento, promossa dal secondo, in danno del primo. La correlazione fra pregiudizio alla vita lavorativa e trattamento pensionistico Fatta questa precisazione, i Giudici hanno dovuto affrontare il tema della capitalizzazione dei redditi perduti, richiamando una recente pronuncia (Cass. n. 34108/2024), secondo la quale non si verifica una sovrastima del danno, nel caso in cui il giudice faccia ricorso a un coefficiente corrispondente alla durata della vita media, ma senza applicare la riduzione per lo scarto tra vita fisica e lavorativa. Infatti, con la cessazione della vita lavorativa, il reddito da lavoro è sostituito dal trattamento pensionistico, il cui ammontare, tuttavia, in base al sistema contributivo, dipende dalla misura dei contributi previdenziali versati e questi ultimi, a loro volta, dipendono dalla combinazione del numero di anni di vita lavorativa e del reddito. Ciò implica che la riduzione del reddito da lavoro, inevitabilmente incide anche sul trattamento previdenziale. Pertanto, la riduzione del risarcimento per scarto tra vita fisica e vita lavorativa, in alcuni casi, porterebbe persino alla sottostima del risarcimento dovuto, anziché alla sovrastima. Ecco perché, secondo i giudici della Terza Sezione, il giudice di merito può legittimamente scegliere di non applicare lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, ove ritenga che la contrazione del reddito possa nuocere anche alla posizione pensionistica del danneggiato. Il danno patrimoniale del lavoratore dipendente Da ultimo, la Corte di Cassazione è stata chiamata ad offrire una lettura esplicativa dell'articolo 137 d.lgs. 209/2005, spiegando che, nella liquidazione del danno da invalidità permanente, per la determinazione del pregiudizio patrimoniale subito dal danneggiato lavoratore dipendente, bisogna prendere a riferimento gli emolumenti che a questo spettano in concreto, al lordo delle ritenute diverse da quelle fiscali, che, invece, vanno escluse dal reddito considerato. La citata norma prende in considerazione, ai fini della determinazione del danno alla persona, gli effetti del pregiudizio consistente nella perdita del guadagno assicurato dalla prestazione del lavoro, oggetto di inabilità e/o invalidità, che, in mancanza della inabilità o invalidità sofferte, il danneggiato avrebbe conseguito, per effetto della prestazione di lavoro. Ne consegue che, per il lavoro dipendente, il riferimento normativo al reddito di lavoro, «maggiorato dei redditi esenti e al lordo delle detrazioni e delle ritenute di legge», deve necessariamente essere inteso come relativo esclusivamente a quelle ritenute, la cui mancata applicazione costituisce una un mancato guadagno, come i contributi previdenziali non versati, ma non anche le ritenute fiscali, la cui perdita non comporta alcun mancato guadagno, per il danneggiato.
Presidente Frasca - Relatore Iannello Il testo integrale della pronuncia sarà disponibile a breve.