Qualificabile come furto in privata dimora il colpo messo a segno dal ladro nella sagrestia di una chiesa. Irrilevante il fatto che vittima del latrocinio non sia stato il parroco bensì una persona lì presente per svolgere attività di volontariato.
In provincia di Cremona una ladra metteva a segno un buon colpo, sottraendo, nel contesto della sagrestia di una chiesa, dalla borsa di una donna, una carta bancomat, poi prontamente utilizzata per prelevare complessivamente quasi 1.400 euro e per effettuare acquisti – per un valore pari a quasi 150 euro – in un centro commerciale. L’autrice del furto, poi identificata, veniva condannata in Appello per furto in abitazione, alla pena di quattro anni, sei mesi e dieci giorni di reclusione, e alla multa di 1.334 euro. Secondo la difesa non è possibile qualificare il fatto come furto in abitazione perché, si legge nel ricorso per cassazione: «la nozione di privata dimora può essere riferita unicamente al parroco, e non già alla vittima del furto, la quale si era recata all’interno della sagrestia solo come ospite per svolgervi attività di volontariato» e quindi «non aveva, pertanto, né la disponibilità della sagrestia né un rapporto di stabilità con la sagrestia, peraltro essendole precluso, a differenza del parroco, l’esercizio di un qualsiasi jus excludendi». Per i magistrati di Cassazione la ricostruzione fornita è assolutamente priva di fondamento. Di conseguenza, viene resa definitiva la condanna della ladra, così come pronunciata in appello. Per meglio inquadrare la questione, però, i giudici partono da un dato certo: «la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l’edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora, essendone l’ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità». Viene inoltre, aggiunto che «rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale». Nel caso di specie, «la disponibilità della sagrestia e del relativo jus excludendi dei terzi spettava, in via esclusiva, alla persona del parroco», ma questo dettaglio, spiegano i giudici di Cassazione, non può comportare «il conseguente esonero della responsabilità penale» della donna sotto processo solo perché «la sottrazione del bene è stata effettuata ina danno di una terza persona, e non già del parroco». Su questo fronte i magistrati fanno chiarezza: «la nozione di privata dimora, di rilievo in riferimento al reato di furto in abitazione, ha una natura esclusivamente obiettiva, riferendosi unicamente al luogo fisico e non già alla persona del derubato. Non è richiesto, cioè, quale necessario presupposto, che la persona offesa coincida con lo stesso soggetto cui appartenga Ia disponibilità del luogo, con» annesso «potere di escluderne l’eventuale accesso a terzi». In sostanza, una volta che, come nella vicenda in esame, venga concesso alla terza persona di accedere al luogo di privata dimora, «l’eventuale illecita sottrazione di un bene di proprietà del terzo non fa venir meno la qualificazione del reato come furto in abitazione, in quanto perpetrato in un luogo che, per l’appunto, si connota certamente quale luogo di privata dimora».
Presidente Dovere - Relatore D'Andrea Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 5 febbraio 2024 la Corte di appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Cremona del 5 luglio 2023, ha - per quanto di interesse in questa sede - in accoglimento dell'appello del Procuratore Generale, riqualificato il delitto di ricettazione originariamente contestato al capo 1) a L.S. nella diversa ipotesi di cui all'articolo 624-bis cod. pen., per l'effetto aumentando l'entità della già disposta pena nella misura di anni quattro, mesi sei, giorni dieci di reclusione ed euro 1.334,00 di multa. L'imputata, in particolare, è stata ritenuta responsabile di avere sottratto da un borsellino di proprietà di V.G., posto all'interno di una borsetta lasciata nella sagrestia della chiesa (OMISSIS) (CR) ove la donna si era recata per svolgere attività di volontariato, una carta bancomat rilasciata dalla (OMISSIS), intestata alla stessa V.G.. La L.S. è stata, quindi, condannata anche per il reato di cui agli articolo 81 cpv. e 493-ter cod. pen., contestatole al capo 2), per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, al fine di trarne profitto, indebitamente utilizzato la carta bancomat sottratta a V.G., effettuando quattro diversi prelievi di denaro presso lo sportello della Banca (OMISSIS) filiale di Vailate (CR), per una complessiva somma di euro 1.350,00, altresì effettuando acquisti per un importo di euro 149,00 presso un esercizio commerciale di Calvenzano (BG). 2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione L.S., a mezzo del suo difensore, articolando due motivi di ricorso, con il primo dei quali ha dedotto erronea applicazione dell'articolo 624-bis cod. pen., sul presupposto che la condotta contestatale, correttamente qualificabile come furto semplice, non integrerebbe la fattispecie del furto in abitazione, considerato che la nozione di privata dimora potrebbe essere riferita unicamente al parroco, e non già a lei, che si era recata all'interno della sagrestia solo come ospite, per svolgervi attività di volontariato. Non avrebbe avuto, pertanto, né la disponibilità né un rapporto di stabilità con la sagrestia della chiesa, peraltro essendole precluso, a differenza del parroco, l'esercizio di un qualsiasi jus excludendi. Con la seconda doglianza la L.S. ha lamentato la mancata concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, in particolar modo eccependo carenza motivazionale sul punto. 3. Il Procuratore generale ha rassegnato conclusioni scritte, con cui ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile. Considerato in diritto 1. Il ricorso è manifestamente infondato e deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile. 2. In primo luogo priva di ogni fondamento è l'introduttiva censura, considerato che, per come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, la sagrestia, in quanto funzionale allo svolgimento di attività complementari a quelle di culto, servente non solo l'edificio sacro ma altresì la casa canonica, deve ritenersi luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora , essendone l'ingresso di terze persone selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità (cfr., in questi termini, Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo, Rv. 279002- 01; Sez. 4, n. 40245 del 30/09/2008, Aljmi, Rv. 241311-01). Ciò si conforma al generale principio espresso dal Supremo Collegio di questa Corte, per cui, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'articolo 624- bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (così, espressamente, Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D'Amico, Rv. 270076-01). Accertato l'indicato aspetto, e ritenuto comprovato come la disponibilità della sagrestia e del relativo jus excludendi dei terzi perteneva, in via esclusiva, alla persona del parroco, deve essere osservato come da ciò non possa essere inferito, come invece auspicato da parte della ricorrente, il conseguente esonero della sua responsabilità penale, sul presupposto che la sottrazione del bene sarebbe stato effettuata, in danno di una terza persona, e non già del parroco. Si tratta, infatti, di un evidente errore prospettico, considerato che la nozione di privata dimora, di rilievo ai sensi dell'articolo 624-bis cod. pen., ha una natura esclusivamente obiettiva, riferendosi unicamente al luogo fisico, e non già alla persona del derubato. Non è richiesto, cioè, quale necessario presupposto, che la persona offesa coincida con lo stesso soggetto cui pertenga la disponibilità del luogo, con potere di escluderne l'eventuale accesso a terzi. Una volta che, come nel caso di specie, venga concesso alla terza persona di accedere al luogo di privata dimora, l'eventuale illecita sottrazione di un bene di proprietà del terzo non fa venir meno la qualificazione del reato come furto in abitazione, in quanto perpetrato in un luogo che, per l'appunto, secondo i canoni interpretativi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, si connota certamente quale luogo di privata dimora. Ne consegue il riconoscimento della corretta qualificazione giuridica del reato contestato sub 1) quale furto in abitazione, con conseguente affermazione della manifesta infondatezza del contrario motivo previsto da parte della ricorrente. 3. Del pari manifestamente infondata è la seconda censura, con cui la L.S. ha lamentato la mancata concessione in suo favore delle circostanze attenuanti generiche, in particolar modo lamentando carenza motivazionale rispetto all'analoga istanza avanzata nell'atto di appello. Il Collegio rileva, in termini antitesi, come la doglianza eccepita in appello avesse un contenuto particolarmente generico, essendosi limitata a lamentare l'erroneità della decisione con cui il primo giudice aveva negato il riconoscimento del beneficio ex articolo 62-bis cod. pen. sulla mera sussistenza di taluni precedenti a suo carico, laddove, invece, la concessione delle generiche «avrebbe consentito di meglio adeguare la pena alla gravità del fatto». In ragione di tale aspetto, allora, deve trovare applicazione, in termini troncanti, il principio espresso da parte di questa Suprema Corte per cui il giudice di appello non è tenuto a motivare il diniego delle circostanze attenuanti generiche sia quando nei motivi di impugnazione si ripropongano, ai fini del riconoscimento, gli stessi elementi già sottoposti all'attenzione del giudice di primo grado e da quest'ultimo disattesi, sia quando - come nella specie - si insista per quel riconoscimento senza addurre alcuna particolare ragione (così, espressamente, Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallane, Rv. 281999-02). 4. Ne deriva la declaratoria di inammissibilità del ricorso, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi ragioni di esonero (Corte Cost., sent. n. 186/2000). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.