Riflettori puntati sul feroce scambio via e-mail tra il dirigente e il lavoratore, relativo alla possibilità, poi saltata, di una riunione in presenza, nonostante i problemi causati dal Coronavirus. Rilevante anche la successiva segnalazione, da parte del dipendente, in merito alla correttezza dell’operato dell’amministratore delegato.
Riflettori puntati sugli uffici di una società multinazionale e, nello specifico, sullo scontro via e-mail tra un dipendente e l’amministratore delegato. Pomo della discordia è l’organizzazione, nonostante la pandemia, di una riunione in presenza. Su questo punto, la posizione dell’amministratore delegato è netta: egli pretende la presenza fisica dei dipendenti convocati all’incontro. Per il lavoratore, invece, tale pretesa è assurda, essendoci la possibilità, soprattutto alla luce dei pericoli creati dalla diffusione del Coronavirus, per una riunione a distanza, senza presenza fisica, con esclusivo contatto virtuale tra i partecipanti. A fronte delle insistenze manifestate dall’amministratore delegato, la replica del dipendente è secca, caustica, fortemente critica, ed espressa con parole chiarissime inviate tramite e-mail proprio all’amministratore delegato. Per i vertici societari è inevitabile la rottura del rapporto di lavoro col dipendente. Di parere diverso, invece, i giudici di merito, i quali ritengono illegittimo il licenziamento, ma, allo stesso tempo, valutando non possibile l’ulteriore presenza in azienda del dipendente, riconoscono a quest’ultimo una indennità pari a venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto da lui percepita. A portare la questione in Cassazione è il lavoratore, che rifiuta l’idea di dovere rinunciare alla propria occupazione. E tale rifiuto è legittimo, riconoscono i magistrati di terzo grado, poiché la critica espressa alla posizione assunta dall’amministratore delegato va valutata come legittima. Per meglio inquadrare la questione, però, è necessario fare un riepilogo della vicenda. Tutto ha origine nel novembre del 2021, quando tra il dipendente e l’esponente di spicco della società si concretizza «uno scambio di comunicazioni email vertente sulle modalità di partecipazione a una riunione fissata per affrontare problematiche aziendali». A causare un contrasto è «l’intendimento dell’amministratore delegato di disporre la riunione in presenza tra i colleghi dell’ufficio, anziché a distanza tramite collegamenti web, alla luce della perdurante esigenza di attenersi ai protocolli di difesa anti-Covid». A colpire, secondo l’azienda e secondo i giudici di merito, «il modo particolarmente vivace e sentito» utilizzato dal dipendente, il quale «si è vivacemente opposto al tipo di incontro programmato dall’alta figura societaria». E, in particolare, per i giudici d’appello «la reazione avversativa espressa dal lavoratore non si è limitata, come subito avvenuto all’inizio da parte sua, a una piana e motivata contestazione della modalità partecipativa in presenza, siccome contrastante con le discipline aziendali di difesa pandemica, ma, partendo da questo aspetto, si è via via acuita sino a raggiungere, da parte del lavoratore, punte di massima asprezza critica, anche quando l’interlocutore, cioè l’amministratore delegato, nell’accogliere le rimostranze del dipendente, rimostranze basate anche sulla contrazione, nell’anno precedente, di uno stato morboso da Covid-19, ha rivisto l’organizzazione della riunione, fissandola con modalità web, da remoto, non senza ribadire al dipendente, in linea di principio, il carattere insindacabile delle decisioni attinenti alla tipologia delle riunioni da tenersi». Per i giudici di merito, quindi, visto «il tenore testuale della corrispondenza email dipanatasi tra i due soggetti in appena quattro giorni», va ravvisato nei messaggi inviati dal lavoratore «l’assestarsi di indebite ed eccessive considerazioni di ordine polemico e avversativo, a tratti ingiuriose, venate da insubordinazione, nonché in grado di screditare il ruolo professionale dell’interlocutore, cui si sono aggiunti inappropriati e pregiudizievoli riferimenti a un disagevole stato di molestie indotte dall’amministratore delegato». A rendere ancora più grave la posizione del lavoratore, sempre secondo i giudici di merito, «una sproporzionata forma di esposto, deliberatamente indirizzata (asseritamente per assecondare esigenze di “whistleblowing”) ai componenti del “Comitato anti Covid” e allo stesso presidente del consiglio d’amministrazione, figura di spicco nell’ambito dell’intero gruppo aziendale». Tirando le somme, per i giudici d’appello, letto il testuale dei messaggi e-mail, ci si trova di fronte ad «una palese e consistente trasgressione di rilievo disciplinare, non blando né lieve», poiché «la condotta del dipendente ha racchiuso, specie nella fase finale del suo percorso dialettico, tutti i segnali dell’esternazione di un indebito abuso critico rivolto a una figura di forte rilievo aziendale e non scevro di punte ingiuriose e persino in grado di evolversi, in pregiudizio dell’amministratore delegato, attraverso la segnalazione, deliberatamente rivolta in guisa di esposto» per un «approfondimento della professionalità e della storia lavorativa dell’amministratore delegato al fine di prevenire molestie e disagi» a causa, secondo il dipendente, «della impreparazione dell’amministratore delegato e della sua trascuratezza nel gestire le evenienze pratiche». Per i giudici d’appello, quindi, «il senso degli icastici interventi del lavoratore si è attestato a infiammato sviluppo di un sordo rancore serbato verso l’amministratore delegato, perlomeno rispetto a sue prassi e condotte, in termini di critiche e contestazioni mai venute alla luce di prima di allora. Non solo per questo, quindi, le iniziative dialettiche possono dirsi debordanti e fuori luogo, specialmente dopo che l’amministratore delegato aveva infine accolto il rilievo del dipendente, adoperandosi, di conseguenza. in vista di una riunione via web, senza che a ciò fosse» però «seguita una condotta di stemperamento dei temi e dei toni» da parte del lavoratore, pur in mancanza di «elementi provocatori da parte dell’amministratore delegato». Per meglio inquadrare la questione, però, i magistrati di Cassazione richiamano i principi fissati in materia di diritto di critica e in materia di tutela del cosiddetto “whistleblower”. Nello specifico, viene ribadito «il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero». E con specifico riferimento al rapporto di lavoro «il limite di continenza espressiva può dirsi esemplificativamente superato ove si attribuiscano all’impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l’addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira». Poi, sotto il profilo della continenza, «la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela» e «nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole», precisano i giudici, «quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell’impresa, come le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità». Di conseguenza, può essere ritenuta legittima la critica nei confronti del datore di lavoro laddove «il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l’impresa» Applicando questa prospettiva alla vicenda in esame, per i magistrati di Cassazione è evidente l’errore computo in appello, poiché in quel contesto «non è stata presa in esame l’intrinseca natura stricto sensu di critica connessa alla gestione delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa» e «non si è in alcun modo affrontato i limiti della pertinenza e della continenza, limitandosi a far riferimento ad un generico, quanto immotivato, indebito abuso critico rivolto ad una figura di forte rilievo aziendale». Tuttavia, «posto che la critica è per definizione espressione di dissenso, disapprovazione, di giudizi negativi sull’altrui operato, la offensività di una singola parola o di una specifica frase, estrapolata peraltro da un intero contesto, in tanto può oltrepassare la barriera della continenza formale in quanto sia veicolata con epiteti volgari, disonorevoli o infamanti, oppure qualora non abbia alcun nesso con la disapprovazione», e in questa ottica «anche un intero scambio epistolare può superare il limite della continenza solo ove non abbia alcun riferimento a motivazioni sostanziali e si traduca tout court in una aggressione gratuita e fine a sé stessa dell’altrui reputazione» Ma «i giudici d’appello non hanno compiuto alcuna verifica ed hanno giudicato esorbitante il comportamento del lavoratore, nonostante l’assenza di riferimenti a critiche volgari e gratuite in quanto del tutto esorbitanti rispetto alle modalità di gestione del rapporto di lavoro», annotano i magistrati di Cassazione. Invece, sarebbe stato necessario «procedere, partendo dalla appurata verità dei fatti storici e dalla assenza di gratuite espressioni» offensive, per verificare il rispetto del limite di continenza formale, ad una più attenta analisi, volta a stabilire se i toni più accesi fossero espressione di una ampia critica articolata, nei suoi plurimi profili, e dello stato d’animo descritto, con particolare riguardo a espliciti riferimenti ad una condizione di erronea gestione dei protocolli anti Covid, o se, invece, fosse stata veicolata un’offesa autonoma, in nessun modo agganciata alle rivendicazioni e al rammarico narrato, e avente quale unico o prevalente scopo quello di colpire, in modo gratuito e in nessun modo circostanziato, l’operato dell’amministratore delegato della società». Utile, poi, secondo i magistrati di Cassazione, il riferimento all’esposto presentato dal lavoratore al “Comitato anti Covid” e volto a sollecitare una verifica circa il corretto controllo e rispetto delle relative procedure da parte dell’amministratore delegato. Difatti, «la circostanza rilevante della integrale allegazione, da parte del lavoratore, di tutte le comunicazioni intercorse con l’amministratore delegato ed il tenore della segnalazione evidenziano come egli fosse convinto della bontà delle proprie affermazioni e della correttezza espositiva delle proprie ragioni che, altrimenti, non avrebbe sottoposto all’esame del “Comitato”». In quell’esposto, quindi, «si legge semplicemente la sollecitazione a verificare la diligenza e l’affidabilità dell’amministratore delegato alla luce dei rischi, sottostimati ad avviso del lavoratore, connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa senza il dovuto rispetto dei presidi anti Covid». Tirando le somme, «proprio contenuto e portata della segnalazione, unitamente ad altri elementi, conducono ad una necessaria tutela del “whistleblower”», chiosano i magistrati di Cassazione, sancendo il diritto del lavoratore non solo alla reintegrazione ma anche ad un adeguato risarcimento.
Presidente Manna – Relatore Piccone Rilevato che: 1. Con sentenza in data 7 giugno 2024, la Corte d'Appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Monza, ha condannato la (OMISSIS) S.r.l. e la (OMISSIS) S.p.A., in solido, a corrispondere a A.L.S., in luogo della riconosciuta indennità di sedici mensilità, una indennità ex articolo 18 comma IV L. 300/70 rapportata a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto con parziale compensazione delle spese di lite. 2. La Corte, in particolare, ha condiviso l'iter decisorio del Tribunale, che aveva respinto l'opposizione principale e quella incidentale proposte, rispettivamente, da A.L.S. e dalle (OMISSIS) S.r.l. e la (OMISSIS), in veste di resistenti opposte, avverso l'ordinanza conclusiva del procedimento intrapreso dall'A.L.S. (formalmente alle dipendenze solo della prima) diretto a contestare, essenzialmente sotto il profilo della ritorsività, il licenziamento per giusta causa intimato con lettera del 2 dicembre 2021 sulla base della contestazione disciplinare formulata mediante la comunicazione del 19 novembre 2021, relativa alle espressioni, reputate di rilievo disciplinare, contenute nella corrispondenza mail intercorsa fra l'A.L.S. e l'Amministratore Delegato F.L.. 3. Per la cassazione della sentenza propone ricorso assistito da memoria A.L.S., affidandolo a quattro motivi. 4. Resistono, con controricorso, (OMISSIS) S.r.l e (OMISSIS) S.p.A. Considerato che: 1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.lgs. n. 179/2017, in relazione a quanto previsto dal D. Lgs. N. 24/2023, con riguardo al Codice etico, incorporato nel contratto individuale, con conseguente violazione dell'articolo 2078 cod. civ., alla luce degli Accordi Interconfederali in sede di attuazione delle misure anti Covid, nonché la violazione e falsa applicazione dell'articolo 18 Statuto Lavoratori, in relazione all'articolo 1363 cod. civ. Rileva, al riguardo, parte ricorrente l'ascrivibilità della propria condotta nell'ambito della denuncia di comportamenti contrastanti con il Codice Etico e la conseguente riconducibilità della stessa nell'ambito del legittimo esercizio di corretta e protetta attività di “Whistleblowing”. 2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo18 comma IV dello Statuto dei Lavoratori e dell'articolo 238 CCNL Terziario Distribuzione e servizi allegandosi la mancata previsione dell'addebito contestato tra quelli cui consegue il licenziamento e l'erronea applicazione della tutela indennitaria ex articolo 18 comma 5 Stat. Lav., in luogo di quella reintegratoria ex articolo 18 comma 4 Stat. Lav., con conseguente violazione dell'articolo 113 cod. proc. civ. 3. Con il terzo motivo si deduce ancora la violazione dell'articolo 18 comma IV nonché dell'articolo 238 del CCNL di categoria allegandosi l'irrilevanza disciplinare dei fatti contestati e la conseguente assenza di illiceità della condotta del ricorrente, con conseguente riconoscimento dei presupposti per la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. 4. Il primo e il terzo motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico sistematiche, sono fondati. 4.1. Giova premettere come secondo quanto questa Corte ha affermato, l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'articolo 2119 cod. civ. compiuta dal giudice di merito mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie “è sindacabile in Cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale” (cfr. Cass. n. 13534 del 2019 e, da ultimo, Cass. n. 11665 del 2020; nello stesso senso, Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005). L'accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento opera sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito. Solamente l'integrazione a livello generale e astratto della clausola generale (ossia un problema interpretativo, vizio riconducibile all'articolo 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; invece, l'applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” spettando inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità in termini positivi o negativi all'ipotesi normativa (in termini Cass. n. 18247 del 2009 e Cass. n. 7838 del 2005). 4.2. Tale indagine, tuttavia, presuppone il preventivo accertamento circa l'obiettiva sussistenza del fatto ascritto nelle sue componenti della materialità e della antigiuridicità del fatto. La Corte d'appello ha ritenuto innegabile una “conclamata sussistenza” del fatto ascritto che lo stesso ricorrente avrebbe non contestato, in considerazione del proprio invocare esclusivamente l'applicazione di una sanzione conservativa. Proprio con riguardo al fatto, la Corte riferisce come accertato che, nel novembre 2021, tra l'A.L.S. e l'AD F.L. si fosse realizzato uno scambio di comunicazioni mail vertente sulle modalità di partecipazione a una riunione fissata dal secondo per affrontare problematiche aziendali, quale tema che aveva ingenerato un contrasto circa l'intendimento dell'AD di disporre la riunione tra i colleghi l'ufficio in presenza anziché a distanza tramite collegamenti web, alla luce della perdurante esigenza di attenersi ai protocolli di difesa anti COVID nei termini, dice la Corte, “… di un risvolto circostanziale rilevato in modo particolarmente vivace e sentito da parte dell'A.L.S.” il quale si sarebbe vivacemente opposto al tipo di incontro programmato dall'altra figura societaria. La Corte, in linea con quanto ritenuto dal primo giudice, ha ritenuto che la reazione avversativa espressa dall'A.L.S. non si fosse limitata, come subito avvenuto all'inizio da parte sua, a una piana e motivata contestazione della modalità partecipativa in presenza siccome contrastante con le discipline aziendali di difesa pandemica ma, partendo da questo aspetto, si era via via acuita sino a raggiungere, da parte del solo ricorrente, punte di massima asprezza critica, anche quando l'interlocutore F.L., nell'accogliere, con la mail della sera del 16 novembre, le rimostranze del sottoposto basate anche sulla contrazione nell'anno precedente di uno stato morboso da COVID 19 aveva rivisto l'organizzazione della riunione fissandola con modalità web, da remoto, per il giorno di giovedì 18 novembre, non senza ribadire all'A.L.S., in linea di principio, il carattere insindacabile delle decisioni attinenti alla tipologia delle riunioni da tenersi. La Corte richiama, quindi, quanto ritenuto dal Tribunale in sede di opposizione circa il tenore testuale della corrispondenza mail dipanatasi tra i due in quei quattro giorni, condividendo l'iter decisorio che aveva condotto il giudice di primo grado a ravvisare, nei messaggi inviati dall'A.L.S. “l'assestarsi di indebite ed eccessive considerazioni di ordine polemico/avversativo, a tratti ingiuriose, venate da insubordinazione nonché in grado di screditare il ruolo professionale dell'interlocutore” cui si sarebbero aggiunti inappropriati e pregiudizievoli riferimenti a un disagevole stato di ‘molestie', indotte dal F.L., che avrebbe richiesto da parte dei destinatari della segnalazione auspicabili approfondimenti vertenti sulla storia lavorativa di quell'AD. (sentenza CDA n. 593/2024, pag. 3). Affianca, la Corte a tale riferimento, quello ad altra condotta, il cui rilievo disciplinare si aggiungerebbe, a suo avviso, alle mail che, nell'arco di quattro giorni, avevano interessato la corrispondenza fra l'attuale ricorrente e l'Amministratore Delegato della società. Si tratta di quello che la Corte d'Appello, singolarmente, definisce “sproporzionata forma di esposto” deliberatamente indirizzata (asseritamente per assecondare esigenze di whistleblowing) ai componenti del comitato anticovid e allo stesso Presidente del CDA, C., figura di spicco nell'ambito dell'intero gruppo aziendale (OMISSIS) (su cui v. postea). Per maggiore chiarezza e completezza, il giudice di secondo grado riporta integralmente il tessuto testuale dei messaggi mail che i due interlocutori si erano scambiati, a partire da quando l'A.L.S. aveva appreso che il F.L. intendeva dare corso alla riunione in presenza. 5. Secondo la Corte doveva escludersi qualsivoglia forma di ritorsione poiché nella specie si era verificata una palese e consistente trasgressione di rilievo disciplinare non blando né lieve “ dato che, per sua natura e per le sue continuative scansioni, la condotta del dipendente racchiudeva, specie nella fase finale del suo percorso dialettico, tutti i segnali dell'esternazione di un indebito abuso critico rivolto a una figura di forte rilievo aziendale, non scevri di punte ingiuriose e persino in grado di evolversi in pregiudizio dell'AD attraverso la segnalazione, deliberatamente rivolta in guisa di esposto, a coloro cui spettavano gli approfondimenti della professionalità e della storia lavorativa dell'Amministratore al fine di prevenire -si è pure dettomolestie e disagi che potessero originare dall'AD, dalla sua impreparazione e dalla sua trascuratezza nel gestire le evenienze pratiche…”. Secondo la Corte il senso degli icastici interventi del lavoratore si sarebbe attestato a infiammato sviluppo di un sordo rancore serbato verso l'AD perlomeno rispetto a sue prassi e/o condotte in termini di critiche e contestazioni mai venute alla luce di prima di allora; non solo per questo le iniziative dialettiche potevano dirsi debordanti e fuori luogo ma specialmente dopo che l'AD aveva concludentemente accolto il rilievo dell'A.L.S. adoperandosi di conseguenza in vista di una riunione via web, senza che a ciò fosse seguita una condotta di “stemperamento” dei temi e dei toni, soprattutto mancando recisamente elementi provocatori da parte dell'Amministratore. 6. Orbene, ritiene il Collegio di dover preliminarmente richiamare la giurisprudenza di legittimità in tema di diritto di critica e di tutela del c.d. whisteblower. 6.1. Il diritto di critica trova fondamento nella nostra Costituzione, che all'articolo 21, riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, e nell'articolo 10 della Cedu che ribadisce come “Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione” e, con fonte cui è attribuito lo stesso valore giuridico dei Trattati, l'articolo 11 della CDFUE riconosce ad ogni persona la libertà di espressione, includente quella di opinione e comunicazione. L'articolo 1 dello Statuto dei lavoratori riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”, e la necessità di contemperare tale libertà col rispetto dei principi della Costituzione e delle norme dello Statuto medesimo. 6. 2. Il diritto di critica si esercita attraverso la esternazione di un giudizio o, più genericamente, di un'opinione che, per sua natura, è frutto di un'interpretazione soggettiva e personale di fatti e comportamenti. La manifestazione del pensiero in chiave critica reca con sé, di regola, un giudizio negativo, di disapprovazione dei comportamenti altrui o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione. Come si è osservato, qualunque critica rivolta ad una persona è idonea ad incidere sulla sua reputazione e, tuttavia, escludere il diritto di critica ogniqualvolta leda, sia pure in modo minimo, la reputazione altrui, significherebbe negare il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (v. Cass. n. 12420 del 2008; n. 1434 del 2015; n. 38215 del 2021). La necessità di un contemperamento del diritto di critica con il diritto, di pari rilevanza costituzionale, all'onore e alla reputazione, impone l'osservanza di determinati limiti (cfr., sul punto, Cass. n. 3627 del 2025). La giurisprudenza ha individuato i limiti del legittimo esercizio del diritto di critica nella continenza formale e sostanziale, legati rispettivamente alla correttezza e misura del linguaggio adoperato e alla veridicità dei fatti, intesa in senso non assoluto ma soggettivo, nonché nel requisito di pertinenza, intesa come rispondenza della critica ad un interesse meritevole di tutela in confronto con il bene suscettibile di lesione (v. Cass. n. 21362 del 2013; n. 29008 del 2008; n. 23798 del 2007; n. 11220 del 2004; più recentemente, Cass. n. 5523 del 2016; n. 19092 del 2018; n. 14527 del 2018; n. 18176 del 2018; Cass. n. 3627 del 2025). Sul versante della continenza formale si è specificato che l'esposizione della critica deve avvenire nel rispetto dei canoni di correttezza, misura e rispetto della dignità altrui. Possono essere utilizzate espressioni di qualsiasi tipo purché siano strumentalmente collegate alla manifestazione di un dissenso ragionato dall'opinione o comportamento preso di mira e non si risolvano in un'aggressione gratuita e distruttiva dell'onore e della reputazione del soggetto interessato (v. Cass. n. 12420 del 2008; n. 1434 del 2015; n. 12522 del 2016). L'offesa è gratuita quando non sia in alcun modo collegata e funzionale allo scopo per cui la critica è mossa. 6.3. Con specifico riferimento al rapporto di lavoro si è affermato che il limite di continenza espressiva può dirsi “esemplificativamente superato ove si attribuiscano all'impresa datoriale od ai suoi rappresentanti qualità apertamente disonorevoli, con riferimenti volgari e infamanti e tali da suscitare disprezzo e dileggio, ovvero si rendano affermazioni ingiuriose e denigratorie, con l'addebito di condotte riprovevoli o moralmente censurabili, se non addirittura integranti gli estremi di un reato, oppure anche ove la manifestazione di pensiero trasmodi in attacchi puramente offensivi della persona presa di mira” (così Cass. n. 1379 del 2019 cit.). 6.4. Il limite della continenza sostanziale esige che, quando la critica consista in un giudizio su fatti o condotte ascritti alla persona criticata, questi fatti siano veri, anche solo putativamente, e cioè sulla base di un'incolpevole convinzione del dichiarante (v. Cass. n. 7847 del 2011; n. 25420 del 2017; n. 38215 del 2021). 6.5. Sotto il profilo della pertinenza, si è osservato che la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela. Nell'ambito del diritto di cronaca tale requisito viene definito continenza materiale, parametrata all'interesse pubblico alla diffusione dell'informazione. Nel rapporto di lavoro è sicuramente interesse meritevole quello che si relazioni direttamente o indirettamente con le condizioni del lavoro e dell'impresa, come le rivendicazioni di carattere sindacale o le manifestazioni di opinione attinenti al contratto di lavoro, mentre sono suscettibili di esondare dal limite della pertinenza le critiche rivolte al datore di lavoro, magari afferenti le sue qualità personali, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità (così Cass. n. 1379 del 2019 cit.). 6.6. Proprio in tema di esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro questa Corte ne ha affermato la legittimità ove il prestatore (anche nel caso in cui il suo comportamento si traduca in una denuncia in sede penale, la cui legittimazione si fonda sugli articoli 24, primo comma e 21, primo comma, della Costituzione) si sia limitato a difendere la propria posizione soggettiva, senza travalicare, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini tali da non ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa (v. Cass. n. 29008 del 2008; n. 16000 del 2009; n. 21649 del 2016). In tale ottica si è valorizzata anche la finalizzazione della critica a sollecitare l'attivazione del potere gerarchico ed organizzativo del datore di lavoro, ai sensi degli articolo 2086 e 2104 c.c., in funzione di una migliore coesistenza delle diverse realtà operanti all'interno dei luoghi di lavoro e ad evitare conflittualità (v. Cass. n. 21649 del 2016 cit.). 7. Deve ora affermarsi, in termini preliminari, che il giudizio di fatto sulla compatibilità di una determinata espressione con i limiti di continenza formale o sostanziale o con il canone di pertinenza non è suscettibile di censura in sede di legittimità (v. per tutte Cass. n. 3267 del 2025) mentre è certamente consentito a questa Corte esaminare il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto attraverso la verifica del rispetto, da parte dei giudici di appello, dei criteri in forza dei quali il diritto di critica possa dirsi legittimamente esercitato. 7.1. Nel caso di specie, ad avviso del Collegio, tali criteri non risultano correttamente applicati. La sentenza impugnata non prendendo in esame l'intrinseca natura stricto sensu di critica connessa alla gestione delle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa, non ha in alcun modo affrontato i limiti della pertinenza e della continenza ad essa connessi limitandosi a far riferimento ad un generico, quanto immotivato “indebito abuso critico rivolto ad una figura di forte rilievo aziendale”. Posto che, come detto, la critica è per definizione espressione di dissenso, disapprovazione, di giudizi negativi sull'altrui operato, la offensività di una singola parola o di una specifica frase, estrapolata peraltro da un intero contesto, in tanto può oltrepassare la barriera della continenza formale in quanto sia veicolata con epiteti volgari, disonorevoli o infamanti oppure qualora non abbia alcun nesso con la disapprovazione (cfr., in questi termini, Cass. n. 3267 del 2025); anche un intero scambio epistolare può superare il limite della continenza solo ove non abbia alcun riferimento a motivazioni sostanziali e si traduca tout court in una aggressione gratuita e fine a se stessa dell'altrui reputazione. 8. La Corte d'appello non ha compiuto questa verifica ed ha giudicato esorbitante il comportamento del ricorrente, nonostante l'assenza di riferimenti a critiche volgari e gratuite in quanto del tutto esorbitanti rispetto alle modalità di gestione del rapporto di lavoro. Il giudice di secondo grado, piuttosto, partendo dalla appurata verità dei fatti storici e dalla assenza di gratuite espressioni di diniego, avrebbe dovuto procedere, per verificare il rispetto del limite di continenza formale, ad una più attenta analisi volta a stabilire se i toni più accesi fossero espressione di una ampia critica articolata, nei suoi plurimi profili, e dello stato d'animo descritto, con particolare riguardo a espliciti riferimenti ad una condizione di erronea gestione dei protocolli anti – Covid, o se, invece, veicolasse un'offesa autonoma, ultronea, in nessun modo agganciata alle rivendicazioni e al rammarico narrato e avente quale unico o prevalente scopo quello di colpire, in modo gratuito e in nessun modo circostanziato, l'operato dell'Amministratore Delegato della (OMISSIS). 9. Ad ulteriore conferma di quanto sin qui esposto, deve aggiungersi il rilievo, non trascurabile, e di segno completamente opposto a quanto ritenuto dal giudice di secondo grado, della segnalazione effettuata proprio al Comitato anti Covid, dal lavoratore, volta a sollecitare la verifica circa il corretto controllo e rispetto delle relative procedure da parte dell'AD. La circostanza rilevante della integrale allegazione da parte del ricorrente di tutte le comunicazioni intercorse con il F.L. ed il tenore della segnalazione evidenziano, a tacer d'altro, come lo stesso lavoratore fosse convinto della bontà delle proprie affermazioni e della correttezza espositiva delle proprie ragioni che, altrimenti, non avrebbe sottoposto all'esame del Comitato; vi si legge, infatti, semplicemente la sollecitazione a verificare la diligenza e l'affidabilità dell'AD alla luce dei rischi, ad avviso del ricorrente, sottostimati connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa senza il dovuto rispetto dei presidi anti Covid. 10. Ritiene il Collegio che proprio il contenuto della segnalazione e la portata della stessa, unitamente agli altri elementi come accertati dal giudice di secondo grado e i documenti allegati conducano per una necessaria tutela del Wistleblower, alla luce della normativa vigente in materia e anche della giurisprudenza di legittimità (fra le altre, Cass. n. 17715 del 2024). 10. Per le ragioni fin qui esposte, deve ritenersi che il fatto ascritto al lavoratore non sussista, e, conseguentemente, accolti il primo e il terzo motivo di ricorso perché fondati e assorbito il secondo motivo, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla medesima Corte d'appello, in diversa composizione. Quest'ultima dovrà procedere, applicato il comma IV dell'articolo 18 e, quindi, ordinata la reintegrazione dell'A.L.S. nel posto di lavoro, a determinare il risarcimento del danno commisurato all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello della reintegrazione, dedotto quanto percepito per altre attività lavorative svolte nello stesso periodo, nei limiti delle 12 mensilità, secondo quanto previsto dalla disposizione in esame, e provvederà, altresì, alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d'appello di Milano, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.