Controlli difensivi: il datore di lavoro ha l’onere di provare il fondato sospetto

La legittimità dei controlli cd. difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori; ne consegue che spetta al datore l'onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post.

L'ordinanza in esame dirime un caso di licenziamento per giusta causa, ii quale ha visto contrapposti un noto marchio di moda e una dipendente, responsabile dello showroom commerciale di Milano. Il licenziamento, originariamente motivato dalla presunta sottrazione di beni aziendali, è stato dichiarato illegittimo dai giudici di merito per vizi legati ai controlli difensivi e per la carenza di prove che giustificassero l'attivazione di tali controlli. La Corte d'Appello di Milano aveva già confermato la decisione del Tribunale, rilevando che i controlli effettuati tramite impianti audiovisivi e perquisizioni personali non rispettavano le disposizioni dell'articolo 4 dello Statuto dei Lavoratori e del Codice Privacy a causa dell'irregolarità delle modalità di informazione ai dipendenti e dell'assenza di un fondato sospetto che giustificasse i controlli. La Cassazione ha evidenziato che i controlli difensivi, per essere legittimi, devono rispettare criteri stringenti, tra cui la presenza di un fondato sospetto e l'osservanza delle procedure previste dalla normativa. Inoltre, la prova raccolta in violazione di tali norme non è utilizzabile in giudizio, come stabilito anche in precedenti pronunce giurisprudenziali. Con un ricorso articolato in cinque motivi, il noto marchio di moda ha contestato la decisione della Corte d'Appello, sostenendo la legittimità delle prove raccolte e dei controlli effettuati. Tra le argomentazioni vi era anche il tentativo di riesaminare la valutazione delle risultanze probatorie, tuttavia la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, ribadendo che la sede di legittimità non può essere utilizzata per rivalutare i fatti storici se non in presenza di evidenti violazioni di legge. Con riferimento ai c.d. controlli difensivi, la Suprema Corte, ha ribadito un principio già espresso in sede di legittimità, secondo cui: «la legittimità dei controlli cd. difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori; ne consegue che spetta al datore l'onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il predetto sospetto consente l'azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell'articolo 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento». Prova che, rilevano, è stata ritenuta dal giudice di secondo grado non adeguatamente offerta da parte del datore e la cui valutazione relativa risulta sottratta al sindacato di legittimità. Inoltre, quanto all’attività di indagine posta in essere dal datore di lavoro, qualificata dal giudice del reclamo come controllo difensivo in senso stretto, la Suprema Corte rileva, in linea con il giudice di primo grado, la violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice a causa dell'illecita perquisizione su un bene personale - cioè la borsa -  a lei appartenente. Il datore di lavoro infatti, dopo aver visionato le riprese telematiche, si sarebbe recato nell'ufficio - approfittando dell’assenza della dipendente durante la pausa pranzo - per cercare tracce che potessero in qualche modo dimostrare eventuali illeciti da questa perpetrati. D’altro canto, proprio con riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, correttamente ricondotti da entrambi i giudici di merito nell’ambito dei controlli difensivi del patrimonio aziendale perché rivolti indistintamente a tutti il personale, la Corte ne ha ritenuto, condividendo, anche sul punto, l’impostazione del Tribunale, la carenza di prova circa l’adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. In conclusione, la Corte ha sottolineato che i controlli difensivi devono essere fondati su elementi concreti e non su mere supposizioni e che l'onere della prova grava sul datore di lavoro. Nel caso di specie, il mancato assolvimento da parte del datore di lavoro circa la dimostrazione degli addebiti idonei ad integrare la giusta causa del licenziamento permette di dichiarare il ricorso inammissibile. 

Presidente Manna - Relatore Piccone Rilevato che Con sentenza del 23 febbraio 2024, la Corte d'Appello di Milano ha respinto il reclamo avverso la decisione del locale Tribunale che aveva rigettato la opposizione proposta da (OMISSIS) s.r.l. avverso l'ordinanza emessa dal medesimo Ufficio il 14 aprile 2023, con la quale, all'esito della fase sommaria del giudizio ex articolo 1, comma 51, L. n. 92/12, in accoglimento del ricorso proposto da M.V., quadro del CCNL Tessile Abbigliamento Moda e responsabile dello showroom commerciale di Milano, era stata dichiarata l'illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice in data 1 settembre 2022 e condannata la società opponente alla reintegrazione della M.V. nel posto di lavoro oltre alla corresponsione di un'indennità risarcitoria pari alle retribuzioni spettanti dal licenziamento all'effettiva reintegra, oltre interessi, rivalutazione e spese di lite. La Corte, nel condividere l'iter argomentativo del giudice di primo grado, ha ritenuto la mancanza di prove legittimamente acquisite in ordine alla responsabilità della dipendente per i fatti, attinenti alla sottrazione di alcuni prodotti, alla stessa attribuiti, poiché, in sintesi, l'indagine condotta dal collega M.M. e le immagini registrate dagli impianti audiovisivi erano state realizzate senza il rispetto della vigente normativa in materia, per l'assoluta inattendibilità del teste M., ed inoltre perché le indagini forensi sugli strumenti aziendali della lavoratrice, disposte dopo il licenziamento, dovevano reputarsi irrilevanti. Per la cassazione della sentenza propone ricorso (OMISSIS) s.r.l. affidandolo a cinque motivi. Resiste, con controricorso, M.V.. Entrambe le parti hanno presentato memorie. Considerato che 1.Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione degli articolo 2696 cod. civ., 2729 e 2119 cod. civ., nonché degli articolo 112 e 116 cod. proc. civ., in merito alla ritenuta irrilevanza delle sommarie informazioni assunte in sede penale con riguardo all'illecita sottrazione di beni aziendali ascritta alla lavoratrice. Con il secondo motivo si allega la violazione e falsa applicazione dell'articolo 4 L. n. 300/70 nonché dell'articolo 2697 cod. civ., in connessione con l'articolo 5 L. n. 604/66 sotto il profilo della ritenuta esistenza di un “puro convincimento soggettivo” che non avrebbe consentito di ricondurre i controlli tramite telecamere ai c.d. controlli difensivi. Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 13 Cost. nonché dell'articolo 8 CEDU e dell'articolo 4 L. n. 300/70 con riguardo alla ritenuta acquisizione di un bene personale (la borsa) della lavoratrice, nonché la violazione e falsa applicazione dell'articolo 116 cod. proc. civ. Con il quarto motivo si censura la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell'articolo437 cod. proc. civ., dell'articolo 1, comma 59, L. n. 92/12 e dell'articolo 4L. n. 300/70 sotto il profilo della ritenuta tardività della produzione dell'informativa sull'utilizzo delle telecamere e della mancata ammissione della prova per testi circa l'avvenuta consegna della informativa alla dipendente. Con il quinto motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 116 cod. proc. civ., con riferimento alla ritenuta inattendibilità del teste M.. 2. I cinque motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico - sistematiche, nella sostanza contestano l'accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla interpretazione offerta delle risultanze probatorie acquisite ed alla corrispondente mancata acquisizione di talune prove richieste. Va preliminarmente rilevato che, come definitivamente chiarito di recente dal Supremo Collegio, soltanto qualora le norme costituzionali siano di immediata applicazione, non essendovi disposizioni di rango legislativo di cui si possa misurare la conformità ai precetti della Carta fondamentale, la violazione o falsa applicazione delle stesse può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione ex articolo 360, comma 1, n. 3 c.p.c. (sul punto, S.U. n. 11167 del 06/04/2022). Relativamente alla denunziata violazione dell'articolo 2697 cod. civ., va osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020), la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all'articolo 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie. In particolare, poi, con riguardo alla dedotta violazione dell'articolo 116 cod. proc. civ., va rilevato che una questione di violazione e falsa applicazione di tale norma non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest'ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960). Nel caso di specie, del tutto inconferente deve reputarsi il richiamo alla disposizione considerata, atteso che parte ricorrente lamenta esclusivamente una erronea interpretazione delle prove offerte, delle quali, tuttavia, suggerisce un diverso apprezzamento, meramente contrapponendo alla motivazione della Corte la propria diversa interpretazione, senza apportare elementi che possano indurre a reputare la prima implausibile. A questo riguardo, va altresì rilevato come sia stata richiesta la produzione su supporto informatico in via d'urgenza del fascicolo di primo grado da parte della società ricorrente e, nondimeno, ritiene il Collegio che prescindendo dalla prova circa la dedotta impossibilità tecnica di veicolare telematicamente il deposito della documentazione indicata, attenendo la documentazione stessa al compendio probatorio di cui inammissibilmente si chiede la rivalutazione in sede di legittimità, essa debba reputarsi del pari inammissibile. 2. In particolare, quanto alle doglianze relative alla dedotta legittimità dei controlli telematici, poiché estranei al disposto di cui all'articolo 4 L. n. 300/70 per la circostanza che, nel caso di specie, non si sarebbe ravvisato un “fondato sospetto”, bensì, esclusivamente, “un puro convincimento soggettivo” del M. il quale, nel visionare le riprese della mattina del 28 luglio 2022 sarebbe rimasto incuriosito dal comportamento della M.V. e sarebbe andato a verificare “per quanto possibile quale sia stato lo scopo”, la Corte, con motivazione non implausibile e sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto difettare il presupposto del fondato sospetto per poter invocare la inapplicabilità dell'articolo 4 e poter la società sottrarsi, quindi, agli adempimenti richiesti da tale disposto. Ha affermato questa Corte (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 118168/2023) che la legittimità dei controlli cd. difensivi in senso stretto presuppone il “fondato sospetto” del datore di lavoro circa comportamenti illeciti di uno o più lavoratori; ne consegue che spetta al datore l'onere di allegare, prima, e di provare, poi, le specifiche circostanze che l'hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico “ex post”, sia perché solo il predetto sospetto consente l'azione datoriale fuori del perimetro di applicazione diretta dell'articolo 4 st. lav., sia perché, in via generale, incombe sul datore, ex articolo 5 l. n. 604 del 1966, la dimostrazione del complesso degli elementi che giustificano il licenziamento. Tale prova è stata ritenuta dal giudice di secondo grado non adeguatamente offerta da parte del datore e la valutazione relativa risulta sottratta al sindacato di legittimità. 3. Quanto all'attività di indagine posta in essere direttamente da M.M. in data 27 febbraio 2022, qualificata dal giudice del reclamo come controllo difensivo in senso stretto, la Corte ha ritenuto profilarsi, in linea con il giudice di primo grado, la chiara violazione della disciplina a tutela della riservatezza e della dignità della lavoratrice avendo il M. eseguito, in fatto, una illecita perquisizione su un bene personale - cioè la borsa - apparentemente appartenente alla collega. Il M., infatti, in base alla ricostruzione del Tribunale, condivisa in fatto dalla Corte d'appello, dopo aver visionato le riprese telematiche di quella mattina ed aver riscontrato per la seconda volta la presenza della M.V. nello showroom editoriale, si sarebbe recato nel suo ufficio - approfittando dell'assenza della collega durante la pausa pranzo - per cercare tracce che potessero in qualche modo dimostrare eventuali illeciti perpetrati dalla dipendente. D'altro canto, con riferimento alle riprese degli impianti audiovisivi, correttamente ricondotti da entrambi i giudici nell'ambito dei controlli difensivi del patrimonio aziendale perché rivolti indistintamente a tutti il personale, la Corte ne ha ritenuto, condividendo, anche sul punto, l'impostazione del Tribunale, la carenza di prova circa l'adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Il mero richiamo da parte della società alla documentazione afferente al primo grado - ovvero l'intervenuta autorizzazione dell'(OMISSIS) e la policy per la M.V. quale soggetto incaricato del trattamento dei dati personali - è stato dalla Corte ritenuto insufficiente a fornire prova dell'assolvimento degli oneri gravanti sul datore ai sensi dell'articolo 4. La Corte ha correttamente ritenuto non tempestiva la istanza di produzione del comunicato con cui si rendeva nota l'iniziativa aziendale di installare presso tutte le sedi impianti di videosorveglianza attesa non solo - e non tanto - la tardività del deposito, quanto, soprattutto, il difetto della prova circa il se l'informativa in oggetto fosse stata consegnata e/o portata a conoscenza della lavoratrice. 4. Ha concluso quindi la Corte, con valutazione che non può formare oggetto di sindacato in questa sede, per l'inutilizzabilità delle immagini provenienti dagli impianti de quibus, nonché del materiale scaturente da tali riprese e della indagine, con relativa deposizione, del teste M.. Le dichiarazioni di quest'ultimo, d'altro canto, sono state reputate dal primo e dal secondo grado del tutto inattendibili in considerazione delle numerose incongruenze ed a corroborare le stesse non è stato ritenuto sufficiente quanto dichiarato dal teste C., alla luce dell'assenza del medesimo rispetto al momento della verificazione dei fatti ed al carattere meramente de relato di quanto riferito. La Corte ha concluso, quindi, decidendo per il mancato assolvimento dell'onere della prova da parte della datrice di lavoro circa la dimostrazione degli addebiti idonei ad integrare la giusta causa di recesso e tale conclusione è sottratta al sindacato di legittimità. 5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, atteso che parte ricorrente, nel propugnare una diversa interpretazione delle risultanze probatorie, oblitera quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex articolo 360 co. 1 nn. 3 e 5 e cioè che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 3446 del 2021). 5.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali dì cui all'articolo 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall'articolo 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228. P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna parte ricorrente alla rifusione in favore di parte controricorrente delle spese di lite, che liquida in euro 5.500,00 per compensi e euro 200,00 per esborsi oltre spese generali al 15% e accessori di legge.