Legittimo il licenziamento del lavoratore coinvolto in un procedimento penale relativo all’accertamento dell’esistenza di una associazione per delinquere finalizzata ad un grosso spaccio di droga.
Agli onori delle cronache sale, quasi dieci anni fa, un operaio, chiamato in causa, in concorso con altri soggetti, a seguito delle indagini svolte dall’Arma dei Carabinieri ai fini di individuare un gruppo criminoso finalizzato alla realizzazione di un corposo spaccio di sostanze stupefacenti. A fronte dei rilievi compiuti dagli agenti, il quadro indiziario risultava solido, e, così, anche l’operaio, come gli altri soggetti coinvolti, veniva sottoposto a misura cautelare: obbligo di dimora e obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. Inevitabile il clamore mediatico, che richiama l’attenzione dell’azienda per cui lavora l’operaio e che spinge i vertici ad adottare il provvedimento più drastico, ossia il licenziamento. Sulla valutazione delle condotte attribuite al lavoratore si concentrano, si confrontano e si scontrano le valutazioni dei giudici. Nello specifico, sia in primo che in secondo grado viene esclusa la legittimità del licenziamento, ma di diverso parere è nel 2019 la Cassazione, che chiede una nuova pronuncia in Appello, la quale arriva nel 2020 e, ribaltando la decisione fornita in precedenza, dichiarava legittimo il licenziamento: «l’attività di spaccio contestata è stata svolta in via abituale e professionale; gli elementi di responsabilità basati sulle indagini e sul motivato esame da parte del Gip non hanno trovato in giudizio alcuna contestazione e consentono di ritenere provata la condotta ascritta all’operaio; il comportamento dell’operaio, oltre ad avere rilievo penale, è contrario alle norme dell’etica e del vivere civile comune, con un riflesso, anche solo potenziale, ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto di lavoro; il fatto è grave per la intensità del dolo desumibile dalla molteplicità egli episodi di spaccio e dall’inserimento del lavoratore all’interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati». Inutili le obiezioni sollevate in Cassazione dalla difesa del lavoratore, il quale vede ora reso definitivo il proprio licenziamento. Per spazzare via ogni dubbio, il Collegio ribadisce che «l’accertamento definitivo della colpevolezza in sede penale non può applicarsi, in via analogica o estensiva, all’esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causain ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di non proseguibilità, anche provvisoria, del rapporto di lavoro», e ciò «senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna». Di conseguenza, «in presenza di comportamenti del lavoratore che possano integrare gli estremi del reato, qualora i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di non proseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, il datore di lavoro può esercitare la facoltà di recesso senza che sia necessario attendere la sentenza definitiva di condanna. Dunque, lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali». Ciò detto, in merito alla vicenda che ha portato al licenziamento, è corretto, anche secondo i magistrati di Cassazione, parlare di «giusta causa di licenziamento» in relazione ad «un comportamento extralavorativo», e, viene precisato, «non perché vi è stata una sentenza di condanna in sede penale passata in giudicato, bensì perché i fatti contestati (e ritenuti dimostrati ai fini disciplinari) rivestono un forte allarme sociale, sia per la oggettiva gravità della condotta, che per la intensità del dolo, desumibile dalla molteplicità degli episodi di spaccio e dall’inserimento dell’operaio all’interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati». Quindi, «tali fatti rilevano sul rapporto di lavoro poiché integrano un comportamento odioso, che mina le basi della convivenza civile, e poiché sono significativi di un organico collegamento del lavoratore con ambienti malavitosi, a prescindere dalle mansioni svolte» nel gruppo criminoso. Legittima, in questa ottica, l’acquisizione degli atti dell’indagine penale per poter «valutare il comportamento dell’operaio ai fini della sua gravità e della sua incidenza sul rapporto di fiducia col datore di lavoro».
Presidente Doronzo - Relatore Cinque Rilevato che 1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 456/2018, rigettava il reclamo proposto ex articolo 1, comma 58, legge n. 92 del 2012 da (OMISSIS) SPA avverso la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva respinto l'opposizione di essa reclamante e confermato l'ordinanza con cui era stato annullato, per insussistenza della giusta causa, il licenziamento intimato a C.R. ed era stata applicata la c.d. reintegrazione attenuata di cui al quarto comma dell'articolo 18 Stat. lav., come modificato dalla citata legge n. 92 del 2012. 2. Il C.R. era stato sottoposto a misura coercitiva della libertà personale consistente nell'obbligo di dimora nel corso di un procedimento penale volto all'accertamento del reato di organizzazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti. 3. La Corte di appello affermava che: - la società reclamante era pervenuta alla contestazione disciplinare sulla base di tale misura coercitiva e dell'indagine svolta, di cui (OMISSIS) era venuta a conoscenza a seguito di alcuni articoli di cronaca locale e che, nonostante il reato contestato al C.R. si possa indubbiamente definire odioso, andando a minare le basi della convivenza civile , non era possibile riscontrare alcuno specifico addebito di responsabilità in capo al dipendente, non potendo a tal fine essere sufficiente il coinvolgimento nell'operazione antidroga come pure la sottoposizione a misura cautelare, in difetto di prova da parte della reclamante in merito alla messa in pericolo della sicurezza dell'attività produttiva o del discredito sociale che la condotta avrebbe gettato sulla società; - nulla era stato riferito circa un preciso capo di imputazione contestato al C.R., tenuto conto che gravava sul datore di lavoro l'onere di motivare la sussistenza di una effettiva incidenza della condotta criminosa.. .sullo svolgimento del rapporto di lavoro , non essendo sufficiente, a tal scopo, l'indicazione della potenziale lesività della condotta stessa ; neppure e sufficiente il solo fatto di avere indicato il coinvolgimento del C.R. in un'indagine penale, peraltro a carico di più persone, e la sua conseguente temporanea sottoposizione alla misura dell'obbligo di dimora; - la contrattazione collettiva di riferimento prevedeva la sanzione disciplinare del licenziamento per motivi giudiziari solo nel caso di sentenza di condanna passata in giudicato, rendendo comunque possibili, negli altri casi, sanzioni disciplinari diverse; correttamente il primo giudice aveva applicato la tutela di cui al quarto comma dell'articolo 18 legge n. 300 del 1970, in quanto i fatti addebitati non erano di per sé idonei ad assumere rilievo disciplinare in difetto della dimostrazione di una effettiva commissione da parte dell'indagato e dovendo quindi ritenersi integrata l'ipotesi della insussistenza del fatto contestato, per la quale è prevista la suddetta tutela. 4. Su ricorso della (OMISSIS) spa la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 19263/2019, cassava la sentenza impugnata rilevando, in primo luogo, la contraddittorietà della pronuncia lì dove, pur dando atto che il reato contestato era odioso andando minare le basi della civile convivenza, aveva poi ritenuto che lo stesso non potesse incidere sul vincolo di fiducia tra datore e dipendente per non avere il primo esplicitato le ragioni di tale lesione; in secondo luogo, specificando che era censurabile in diritto affermare che una condotta, astrattamente ritenuta incoerente con gli standards conformi ai valori dell'ordinamento desumibili dalla coscienza sociale, potesse non esserlo in assenza di chiarimenti sulla sua incidenza lesiva nel rapporto di lavoro, in un contesto in cui la gravità della condotta non richiedeva un accertamento definitivo in sede penale. Inoltre, la Suprema Corte ha precisato che l'accertamento dei fatti, per ravvisare la giusta causa, non poteva essere limitato al mero riscontro formale delle condotte addebitate, in sede cautelare penale, e che in una situazione di semiplena probatio, avrebbero potuto pur sempre essere attivati i poteri istruttori officiosi sollecitati dalle parti. 5. Riassunto il giudizio, la Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 1412/2020 quale giudice del rinvio, rigettava il ricorso ex articolo 1 co. 47 legge n. 92/2012 proposto da C.R. evidenziando che: a) la condotta delittuosa addebitata al C.R. era definibile per relationem attraverso il richiamo, contenuto nella lettera di contestazione, alla ordinanza di applicazione della misura coercitiva conosciuta dall'interessato; b) l'attività di spaccio contestata era stata svolta in via abituale e professionale; c) gli elementi di responsabilità basati sulle indagini e sul motivato esame da parte del GIP non avevano trovato in giudizio alcuna contestazione e consentivano di ritenere provata la condotta ascritta; d) il comportamento del C.R., oltre ad avere rilievo penale, era contrario alle norme dell'etica e del vivere civile comune, con un riflesso, anche solo potenziale, ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto; e) il fatto era grave per la intensità del dolo desumibile dalla molteplicità egli episodi di spaccio e dall'inserimento del C.R. all'interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati. 6. Avverso tale sentenza C.R. proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi cui resisteva con controricorso la (OMISSIS) SPA (poi divenuta OMISSIS SPA). 7. Le parti depositavano memorie. 8. Il Collegio si riservava il deposito dell'ordinanza nei termini di legge ex articolo 380 bis 1 cpc. Considerato che 1. I motivi possono essere così sintetizzati. 2. Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 2119 cc, in relazione all'articolo 7 legge n. 300 del 1970 e all'articolo 2106 cc, per avere la Corte di appello ritenuto sussistente la giusta causa di licenziamento, in difformità a quanto stabilito dalla Corte di Cassazione in sede di rinvio con la sentenza n. 19263/2019 in merito alla incidenza della condotta addebitata sul rapporto di lavoro senza tenere conto degli indici specifici da cui inferire in concreto il grado di affidabilità del lavoratore e di fiduciarietà del rapporto. 3. Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 2119 cc, in relazione all'articolo 7 legge n. 300 del 1970, per avere la Corte di appello ritenuto sussistere la giusta causa di licenziamento in difformità di quanto stabilito dal codice disciplinare, che per il caso di specie limita in senso interdittivo il potere di recesso nella ipotesi in cui, per fatti extralavorativi a valenza penale, può essere disposto il licenziamento disciplinare solo se ricorra il requisito della sussistenza di sentenza penale passata in giudicato per effetto del principio di cd. presunzione di innocenza posto (per via contrattuale e non legale con autolimitazione da parte del datore di lavoro del suo potere di recesso) dall'articolo 32 CCSL. 4. Con il terzo motivo si obietta, ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 2119 cc, in relazione all'articolo 5 legge n. 604/1966 e 437 cpc, per avere la Corte di appello ritenuto sussistere la prova della giusta causa di licenziamento rilevandola per relationem dalle risultanze degli atti di investigazione penale ammessi di ufficio in presenza di una semiplena probatio, a fronte della possibilità del datore di lavoro di provare lo stesso fatto per mezzo di prova testimoniale. 5. Con il quarto motivo, ai sensi dell'articolo 360 co. 1 n. 3 cpc, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 cc, in relazione all'articolo 7 legge n. 300 del 1970, per avere la Corte di appello ritenuto sussistere la specificità della contestazione per relationem dal richiamo nella lettera della Società della vicenda penale: lettera nella quale non si faceva alcun richiamo rubricato al procedimento penale. 6. I primi due motivi, che per la loro interferenza possono essere esaminati congiuntamente, non sono fondati. 7. Questa Corte, in sede del primo giudizio di cassazione, ha specificato che l'accertamento definitivo della colpevolezza in sede penale non può quindi applicarsi, in via analogica o estensiva all'esercizio da parte del datore di lavoro della facoltà di recesso per giusta causa in ordine ad un comportamento del lavoratore che possa altresì integrare gli estremi del reato, se i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, senza necessità di attendere la sentenza definitiva di condanna, non essendo a ciò di ostacolo neppure la circostanza che il contratto collettivo di lavoro preveda la più grave sanzione disciplinare solo qualora intervenga una sentenza definitiva di condanna (Cass. n. 29825 del 2008; conf. Cass. n. 13955 del 2014 e 18513 del 2016). Inoltre, ha precisato che, in presenza di comportamenti del lavoratore che possano integrare gli estremi del reato, qualora i fatti commessi siano di tale gravità da determinare una situazione di improseguibilità, anche provvisoria, del rapporto, il datore di lavoro può esercitare la facoltà di recesso senza che sia necessario attendere la sentenza definitiva di condanna. Dunque, lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o no gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali (v. fra le altre Cass. n. 12163 del 1997). 8. Nella fattispecie in esame, la Corte distrettuale, conformemente a quanto demandato in sede di giudizio rescindente, ha proprio rilevato la sussistenza di una giusta causa di licenziamento, in relazione ad un comportamento extralavorativo, non perché vi era stata una sentenza di condanna in sede penale passata in giudicato, ma perché i fatti contestati (e ritenuti dimostrati ai fini disciplinari) rivestivano un forte allarme sociale, sia per la oggettiva gravità della condotta, che per la intensità del dolo, desumibile dalla molteplicità degli episodi di spaccio e dall'inserimento del C.R. all'interno di una articolata rete di traffico di stupefacenti, con stabili collegamenti con soggetti pregiudicati: tali fatti rilevavano sul rapporto di lavoro perché integravano appunto un comportamento odioso, che minava le basi della convivenza civile e perché erano significativi di un organico collegamento del lavoratore con ambienti malavitosi, a prescindere dalle mansioni in concreto svolte. 9. Alcuna delle violazioni di legge o del codice disciplinare, denunciate con i due motivi, è pertanto ravvisabile essendosi i giudici di rinvio attenuti a quanto statuito da questa Corte. 10. Il terzo motivo è parimenti infondato. 11. La configurazione del giudizio di rinvio quale giudizio ad istruzione sostanzialmente chiusa, in cui è preclusa la formulazione di nuove conclusioni e quindi la proposizione di nuove domande o eccezioni e la richiesta di nuove prove, è tale salvo che la necessità di nuove conclusioni sorga dalla stessa sentenza di cassazione e non osta, in questo caso, all'esercizio, in sede di rinvio, dei poteri istruttori esercitabili d'ufficio dal giudice del lavoro anche in appello (articolo 437 cod. proc. civ.), limitatamente ai fatti già allegati dalle parti, o comunque acquisiti al processo ritualmente, nella fase processuale antecedente al giudizio di cassazione, in quanto i limiti all'ammissione delle prove concernono l'attività delle parti e non si estendono ai poteri del giudice, ed in particolare a quelli esercitabili di ufficio (Cass. n. 900/2014). 12. Il giudice di rinvio è, infatti, vincolato al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione in relazione ai punti decisivi non congruamente valutati dalla sentenza cassata e, se non può rimetterne in discussione il carattere di decisività, conserva il potere di procedere ad una nuova valutazione dei fatti già acquisiti e di quegli altri la cui acquisizione si renda necessaria in relazione alle direttive espresse dalla sentenza di annullamento. 13. Nel caso de quo è avvenuto proprio questo: la Corte territoriale, conformemente a quanto precisato in sede di rinvio, al fine di superare una incertezza probatoria e nel rispetto delle allegazioni delle parti, mediante l'attivazione dei poteri officiosi integrativi, ha acquisito gli atti dell'indagine penale e, con un accertamento di merito, non sindacabile in questa sede perché adeguatamente motivato, ha valutato il comportamento del C.R. ai fini della sua gravità e della sua incidenza sul rapporto di fiducia lavorativo, avendo riguardo anche alla problematica sulle mansioni svolte e al ruolo svolto della organizzazione criminale. 14. Il quarto motivo, infine, non è meritevole di accoglimento presentando profili di inammissibilità e infondatezza. 15. E' inammissibile nella parte in cui le censure sono finalizzate a rimettere in discussione un punto già valutato dalla Corte di cassazione che, con la pronuncia n. 19263/2019, ha ritenuto legittima una contestazione disciplinare per relationem, quando i fatti e comportamenti richiamati siano a conoscenza dell'interessato e in grado di consentire l'esercizio del diritto di difesa di quest'ultimo. 16. E' infondato perché la Corte territoriale, anche in questo caso con un accertamento di merito adeguatamente motivato, riguardante il contenuto di un atto di autonomia provata (lettera di contestazione disciplinare), ha considerato che il richiamo ivi contenuto alla ordinanza della misura coercitiva (conosciuta dal C.R.), fosse in grado di evidenziare le condotte dell'addebito disciplinare. 17. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato. 18. Al rigetto segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo. 19. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo. PQM La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.