L'obbligo di custodia di un animale sorge ogni qualvolta sussista una relazione di semplice detenzione, anche solo materiale o di fatto tra l'animale e una data persona, non essendo necessario un rapporto di proprietà in senso civilistico.
Nel caso sottoposto all'attenzione della quarta sezione della Corte di Cassazione, l'imputato veniva condannato per omicidio colposo in concorso con la moglie, giudicata separatamente, per aver cagionato la morte di una persona con negligenza e imperizia nella tenuta dei loro quattro cani di grossa taglia. L'imputato deduceva l'insufficienza probatoria, che non consente un giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio anche in relazione alla valutazione del compendio indiziario in atti. La prova indiziaria Con riguardo alla prova indiziaria, la Corte regala preliminarmente un'interessante precisazione, affermando che la stessa riveste «medesimo rango e dignità della prova diretta». Ed infatti, il giudice può fondare il proprio convincimento anche sulla valutazione di una «concatenazione logica di indizi», sempre che, però, risulti univocità e concordanza tale da poter giungere a certezza in ordine al fatto stesso. Gli indizi, infatti, sono elementi di fatto noti da cui si può desumere il fatto ignoto da provare sulla base di regole scientifiche o di massime di esperienza. Cosa ben diversa dal “sospetto” che, invece, è mera congettura che si può identificare in un indizio “debole”. Gravità, precisione e concordanza Gli indizi, in altri termini, possono da soli, senza la necessaria sussistenza di un riscontro, costituire la base per l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato, quando siano gravi, ovvero attendibili e convincenti, precisi, tali da esprimere elevata probabilità di derivazione del fatto ignoto da quello noto e concordanti, cioè non contrastanti tra loro. Ad ogni modo, il procedimento di valutazione degli indizi si articola in due momenti. Il primo consiste nell'accertamento del maggiore o minore livello di gravità e precisione degli indizi. In questa fase gli stessi vengono isolatamente considerati nella loro valenza qualitativa. Il secondo momento consiste, invece, nell'esame complessivo del compendio indiziario. Ogni indizio viene a sommarsi e integrarsi con gli altri, confluendo in un medesimo contesto dimostrativo. Dunque, è proprio la composizione unitaria a dare forza e significato dimostrativo agli indizi. Cane/padrone: che rapporto è necessario? Con riguardo, invece, al rapporto tra l'imputato e i cani, la Corte ha affermato, concordemente ai giudici di merito, che sussiste una posizione di garanzia a prescindere da un titolo di proprietà sugli animali, in ragione del mero titolo detentivo. Infatti, i cani, come è emerso nel caso di specie, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, erano di fatto da gestiti dall'imputato. In casi analoghi, sul proprietario/detentore è imposto un obbligo di custodia, stringente e specifico, che comporta per lo stesso di adottare ogni cautela necessaria ad evitare possibili aggressioni a terzi, soprattutto quando si tratti di più cani e gli stessi abbiano dimostrato di avere indole aggressiva. L'obbligo di custodia insorge anche in relazione a una mera detenzione dell'animale. Il proprietario è addirittura responsabile per le eventuali lesioni cagionate dal proprio animale mentre lo stesso era affidato a terze persone inidonee a gestirlo e controllarlo. In tema di omicidio e lesioni colpose, poi, la Corte ha precisato che tale posizione di garanzia sussiste anche all'interno della propria abitazione, tanto che il proprietario/detentore deve controllare e custodire l'animale per evitare e prevenire qualunque tipo di aggressione. In conclusione, dunque, il detentore di un cane (e dunque non solo il proprietario) risponde sempre a titolo di colpa per lesioni cagionate a terzi se non è stato in grado di esercitare sull'animale un'effettiva custodia. Come escludere la colpa? Al fine di escludere la colpa, che consiste nella mancata adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare eventi infausti, non è sufficiente che l'animale sia tenuto in luogo privato e recintato, dovendo tale luogo essere idoneo ad evitare che l'animale possa sottrarsi alla custodia o al controllo del suo detentore.
Presidente Ciampi Relatore Pezzella Ritenuto in fatto 1. La Corte di Appello di L'Aquila, pronunciando sul gravame nel merito proposto odierno ricorrente De.Pa., con la sentenza in epigrafe ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di L'Aquila, in composizione monocratica, il 10/02/2023, all'esito di giudizio ordinario, lo aveva condannato alla pena di giustizia in quanto riconosciutolo colpevole del reato di cui agli articolo 113, comma 1, e 589, comma 1, cod. pen., per avere cagionato, in concorso con altri soggetti giudicati separatamente, per colpa, consistente in negligenza ed imprudenza, la morte di Pr.Ed., verificatasi in conseguenza della seguente condotta penalmente illecita da loro: i coniugi De.Pa. e Ga.Sa. detenevano, nel cortile della loro abitazione nr. 4 cani di razza corso particolarmente aggressivi di proprietà della Ga.Sa., omettendo di custodirli con le dovute cautele onde impedire che potessero recare danno alle persone e questo malgrado già in precedenza gli animali fossero fuggiti, sottraendosi al loro controllo; infatti, sebbene il cortile antistante l'abitazione delle due persone sottoposte ad indagini forse circondato da una rete metallica, la stessa non era idonea a trattenere gli animali, anche perché il De.Pa. e la Ga.Sa. non la sottoponevano ad adeguata manutenzione, tant'è che, l'8/3/2018, tre dei quattro cani fuggivano attraverso un varco apertosi nella rete imbattendosi in Pr.Ed. ed aggredendolo, azzannandolo con forza sul braccio sinistro; la persona offesa tentava vanamente di difendersi dall'aggressione, entrando in colluttazione con gli animali e venendo attinto da morsi in varie parti del corpo (estremità inferiori e superiori), finché, in preda al panico, nel tentativo di sfuggire ai cani, fuggiva verso il vicino letto del fiume, precipitando al suo interno dopo aver impattato contro gli arbusti presenti sull'argine; il violento shock causato dalle gravi lesioni riportate ad opera dei cani e dall'impatto con l'acqua notevolmente fredda del fiume determinavano una perdita di coscienza con conseguente morte per annegamento del Pr.Ed.; In L frazione P, l'(Omissis). 2. Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per Cassazione, il De.Pa., a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'articolo 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen. Con un primo motivo il ricorrente lamenta carenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione della sentenza in relazione ai morsi del cane rinvenuti sulla vittima e omessa motivazione della presenza di cani randagi nel luogo teatro dell'aggressione e omessa motivazione circa la validità della tesi alternativa della difesa. Per il ricorrente nel caso di specie non si può ritenere sussistente la catena indiziaria a suo carico, poiché difetterebbe quella univocità e concordanza degli indizi tale da poter determinare il convincimento in ordine alla certezza del fatto oltre ogni ragionevole dubbio (Sez. 2, n. 45851/2023). Come si evincere dalla motivazione resa dalla Corte di Appello di L'Aquila il ragionamento logico-giuridico seguito dal collegio nel ricostruire la catena indiziaria presenterebbe in più punti carenze e salti logici oltre che contrasti con le emergenze istruttorie. In particolare, la Corte di Appello alle pagg. 8-9. scrive che il teste di p.g. Ge. ha dichiarato di aver accertato che la proprietà del De.Pa. era circondata da una rete di recinzione, che, in un punto, visibile nella foto n. 5, mostrava un rinforzo di recente realizzazione, come se fosse stato posto un pezzo di rete ulteriore a copertura di un varco sulla rete preesistente . Per il ricorrente non si comprende come la Corte territoriale dalla dichiarazione del teste di P.G. Ge. circa la presenza di un rinforzo della rete di recinzione al momento del sopralluogo dei Carabinieri, avvenuto dopo la data del fatto abbia potuto desumere che l'8/3/2018 il rinforzo alla rete non fosse stato già eseguito e che pertanto la stessa presentasse un varco dal quale i cani della consorte Ga.Sa. erano usciti, escludendo che fossero invece usciti dal cancello rimasto accidentalmente aperto per opera della proprietaria e detentrice dei cani, (la quale ha definito il procedimento a suo carico ai sensi dell'articolo 444 cod. proc. pen.), come prospettato invece dalla difesa del De.Pa. A tal proposito ricorda il ricorrente che il M.llo Ge., a domanda della difesa (ud. 18/9/2019), ha dovuto ammettere che la recinzione era fatta con rete elettrosaldata poi rinforzata con un pezzo di rete elettrosaldata di quella che viene utilizzata per fare le gettate dei pavimenti e subito dopo ha dovuto riconoscere anche che la rete zincata non arrugginisce, con conseguente impossibilità di poter risalire al dato temporale con appagante certezza. Peraltro, l'affermazione che la recinzione era fatta con rete elettrosaldata confermerebbe l'idoneità della stessa, in quanto non si tratta di mera rete di recinzione bensì di solida rete da costruzione. A tal proposito rileva il ricorrente che la Corte di appello a pag. 3 della sentenza scrive che dall'istruttoria è emerso che la recinzione era inadeguata in quanto recinzione da orto . Sarebbe pertanto evidente che il ragionamento della Corte sul punto poggia su una mera ipotesi o congettura che non tiene conto della sequenza temporale delle risultanze istruttorie, in violazione dei parametri imposti dall'articolo 192 cod. proc. pen. con conseguente vizio di motivazione. La Corte perviene al riconoscimento della responsabilità in capo al De.Pa. prosegue il ricorso riconoscendo particolare rilievo anche al fatto che i (suoi) cani erano soliti uscire dall'area recintata della sua abitazione (v. pag. 9 della sentenza 11 cpv.), per averlo dichiarato i testi Pa.Vi. e Pa.Pi. Si sottolinea, però, che tali testi hanno riferito che l'abitazione del De.Pa. era recintata, che i cani custoditi all'interno più volte si erano avventati contro la rete, ma nessuno ha riferito che fossero usciti perché la recinzione presentava un varco; piuttosto hanno riferito di aver visto i cani liberi fuori dall'area recintata, rafforzando piuttosto la tesi difensiva del De.Pa. secondo cui i cani sarebbero usciti dal cancello di accesso. Inoltre, il giudice di seconde cure a pag. 10 della sentenza afferma che non può essere messa in dubbio la ricorrenza di una posizione di garanzia in capo all'imputato, alla luce della provata relazione di detenzione materiale tra quest'ultimo ed i cani, da lui di fatto gestiti, ritenendolo conseguentemente responsabile di aver violato la regola cautelane che impone al proprietario/detentore dì animali uno specifico e stringente obbligo di custodia . Sul punto si fa rilevare che nel corso dell'istruttoria è emerso che De.Pa. non era proprietario dei cani, bensì dell'abitazione familiare dove la consorte teneva custoditi i cani e peraltro lo stesso è agente della Polizia di Stato, nei periodi invernali e primaverili distaccato presso stazioni sciistiche per particolare competenza di servizio sulle piste anche di soccorso. E il fatto per cui è processo è avvenuto l'(Omissis) ed in tale periodo egli era stabilmente assente dalla propria abitazione e lo è stato per tutta la stagione invernale 2017-2018, durante la quale ha prestato servizio presso la Questura di C, distaccato presso il Posto Stagionale Sciatori della Polizia di Stato di C (C) presso cui ha svolto servizio presso la Stazione sciistica di C. Ciò si sottolinea risulta dagli ordini di servizi prodotti nel corso del primo grado. Dalla Relazione del Capo della pattuglia in servizio presso il Posto di Polizia di C dell'(Omissis), risulta altresì che anche in tale giorno il De.Pa. era in servizio a C, dove dimorava, in quanto lontano circa 200 Km. dall'abitazione di proprietà sita in P (AQ). Da ciò per il difensore si evince con certezza che anche un ipotetico rapporto di detenzione in relazione ai cani corso di proprietà della consorte sarebbe indiscutibilmente interrotto dalla duratura assenza dall'abitazione per ragioni di servizio, tenuto conto che la stazione sciistica di C, come sopra precisato dista circa 200 Km. dalla propria abitazione in P (AQ). Dunque, sul piano della colpa si fa rilevare che non è ravvisabile in capo al De.Pa. alcun profilo di colpa, avendo adottato tutte le cautele idonee ad evitare che i cani potessero divenire fonte di danni a terzi. A tal proposito si rileva che al contrario di quanto ipotizzato dalla Corte territoriale il proprietario dell'abitazione dopo aver realizzato una recinzione della corte pertinenziale con rete elettrosaldata da costruzione ha certamente ben assolto l'onere di aver predisposto un idoneo e sicuro recinto per la custodia degli animali' con il conseguente venir meno di qualsiasi responsabilità per colpa. A riguardo la giurisprudenza di vertice afferma che l'indagine da compiere per fondare la responsabilità (colposa) del proprietario che abbia affidato il proprio cane a terzi (ciò vale tanto più nei confronti del De.Pa. mero proprietario dell'abitazione familiare) è se questi abbia comunque mantenuto effettivi poteri di vigilanza sull'animale (il richiamo è a Sez. 4 n. 42307/2017). Nel caso di specie si sostiene che l'evento dannoso verificatosi non era in alcun modo prevedibile ed evitabile dal De.Pa., il quale non poteva certo prevedere, in base ad un giudizio ex ante, che in sua assenza il cancello della propria abitazione venisse lasciato aperto permettendo ai cani di uscire. Di conseguenza nessuna responsabilità per colpa può essere ravvisata nel caso di specie contrariamente a quanto infondatamente ritenuto dalla Corte di Appello. Sul piano del nesso causale, fermo restando che non è certo che l'aggressione fosse stata effettuata dai cani della Ga.Sa., per il ricorrente nel caso di specie la condotta del proprietario del cane ha integrato un fattore sopravvenuto che ha comportato un rischio nuovo e dei tutto incongruo rispetto al rischio originario prevedibile dal De.Pa. e per far fronte al quale l'imputato aveva certamente adottato tutte le cautele di isolamento dell'abitazione idonee ad evitare e prevenire le possibili fuoriuscite dei cani. Il ricorso insiste poi sulla circostanza che non vi è prova che a mordere l'uomo siano stati i cani della persona offesa. La Corte territoriale, in particolare, non avrebbe ha tenuto conto che è emerso in dibattimento come la zona in cui è stata aggredita la vittima è sede permanente di ritrovo di cani randagi di tutte le razze, come confermato da tutti i testi escussi (Zu.Gi., Pa.Pi., De.Al., Va.Da., Pa.Vi.) e dall' esame dell'imputato De.Pa. Inoltre, all'udienza del 27/1/2022, la difesa dell'imputato ha depositato una chiavetta contenente foto e video che ritraggono cani randagi, anche di razza corso , presenti nella zona teatro dell'aggressione. Peraltro, le dichiarazioni del veterinario dott. Gi. scontano altresì che non è stata fatta alcuna comparazione dei morsi, né alcun esame per verificare se i morsi erano di molossi e se erano compatibili con le mandibole dei cani in questione. Ci si duole che la Corte territoriale, circa quindi la possibilità che i morsi fossero stati cagionati da cani randagi ivi presenti anche di razza corso, omette la minima motivazione, rilevando semplicemente che nessuno dei testi escussi ha visto, quel giorno, cani randagi aggirarsi in quella zona ed è stata esclusa la compatibilità della lesività riscontrata sulla vittima con morsi di lupi o di altri animali selvatici , espressione tuttavia che si traduce in una motivazione meramente apparente oltre che illogica ed in contrasto con le emergenze processuali, ed in particolare con le foto ed i filmati prodotti dalla difesa dei De.Pa. Né la motivazione ci si duole ha affrontato e spiegato il perché la tesi alternativa della difesa relativa ai cani randagi non sia stata accolta. Tanto più che i cani della Ga.Sa. non sono stati visti nel luogo in cui è avvenuta l'aggressione della vittima, bensì in luogo diverso, ossia nel centro abitato della frazione di P (AQ), segnatamente dinanzi l'abitazione di So.Ma. (coniuge di Va.Da.). Con il secondo motivo si lamentano erronea applicazione dell'articolo 192 cod. proc. pen. mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza su un punto decisivo del processo, in relazione all'utilizzazione di prove inesistenti. La zona in cui sono stati visti i cani in questione è diversa e distante rispetto a quella teatro dell'aggressione; Ci si duole che la Corte di Appello, inoltre, a pag. 7 della sentenza, per ricondurre i morsi rinvenuti sulla vittima ai cani in questione, abbia elevato a indizio ex articolo 192 cod. proc. pen. anche che detti cani sarebbero stati visti nella zona in cui insiste la stradina interpoderale in cui è avvenuta l'aggressione, nella fascia oraria tra le 18-18,30, come emergerebbe dalle deposizioni di So.Ma. e Io.Ba. Il ricorrente lamenta che, senza alcuna prova e/o ricostruzione ambientale, la Corte afferma che l'abitazione della So.Ma. (dinanzi alla quale sono stati visti i cani nella fascia oraria 18/18,30) sarebbe nella stessa zona in cui è avvenuta l'aggressione, laddove trattasi di luoghi diversi e distanti, atteso che l'abitazione della teste è ubicata nel centro abitato della frazione di P (AQ) ed è vicina all'abitazione di De.Pa., mentre la strada interpoderale, che costeggia il fiume (Omissis), in cui è avvenuta l'aggressione, è più a valle a una distanza importante e rilevante. Con il terzo motivo si lamentano erronea applicazione dell'articolo 192 cod. proc. pen. nonché contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine ai risultati delle indagini genetiche e sulla ritenuta compatibilità tra il DNA del cane ricondotto all'imputato e il DNA rinvenuto sui vestiti della vittima. Secondo il ricorrente la Corte territoriale sarebbe incorsa in un grave errore di diritto su una circostanza centrale del processo, che si è sostanziato con riferimento alle risultanze genetiche, atteso che altro elemento elevato a indizio, al fine di ricondurre i morsi rinvenuti sulla vittima ai cani in questione, e l'asserita compatibilità tra il DNA rinvenuto sulla vittima e il DNA dei cani detenuti dall'imputato. Orbene l'errore di diritto in cui è incorsa la Corte di Appello, da una parte, è l'aver ritenuto il rapporto di prova della dott.ssa Bo.Gi. utilizzabile processualmente, dall'altra parte, è l'aver omesso di considerare e motivare circa il fatto che proprio quelle analisi depongono in favore dell'estraneità dei cani dell'imputato rispetto all'aggressione in danno della vittima. Il ricorrente si sofferma sui principi che devono essere rispettati per utilizzare, nel processo penale, le risultanze genetiche, ovvero per dare alle stesse affidabilità e valenza di prova indiziaria ex articolo 192 cod. proc. pen. alla luce dell'arresto giurisprudenziale costituito dalla sentenza n. 36080/2015 di questa Corte di legittimità, compendia tutti i principi acquisiti in tema di valenza processuale attribuibile alle risultanze della prova scientifica (rapporto tra processo penale e prova scientifica), con particolare riferimento alle indagini genetiche, acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali. Segnatamente affermando che la prova scientifica non può ambire ad un criterio incondizionato di autoreferenziale affidabilità in sede processuale, considerato che viene utilizzata per risalire ad un fatto ignoto partendo da un fatto noto e, quindi, viene utilizzata come collante tra i due fatti in questione (Cass, 36080/2015). Nel caso di specie, per il ricorrente sono emerse prove totalmente ignorate a discarico dell'imputato, ossia che non solo depongono nel senso dell'inattendibilità dei rapporti di esame della dott.ssa Bo.Gi., ma che dimostrano come il cane o l'animale aggressore fosse diverso dai cani ricondotti all'imputato. Infatti, all'udienza dibattimentale del 22/12/21, sono state acquisite due consulenze, la prima a firma della Dott.ssa Ba.Ma. e la seconda del Prof. Gi.Em., quali esperti genetisti consulenti della difesa. Le perizie di parte depositate ed acquisite agli atti del dibattimento, dei cui risultati si dà conto in ricorso, su accordo delle parti censurano la consulenza espletata nel corso del giudizio e ne eliderebbero la valenza. Segnala il ricorrente che la sentenza impugnata, nella parte in cui sostiene che i cani aggressori erano più di uno, come sostenuto dal teste Dott. Gi.Li. (pag. 6-7 della sentenza), cadrebbe in contraddizione, visto che se così fosse la compatibilità parziale del DNA sarebbe dovuta ricorrere per tutti e tre i cani detenuti dall'imputato e non con uno solo. L'esame escluderebbe che il cane dell'imputato sia il cane aggressore. Ed ancora, dei quattro marcatori solo tre erano compatibili con il cane in questione, quindi un marcatore era diverso, sicché le stesse analisi scagionerebbero il cane oggetto di esame, atteso che un marcatore è riconducibile a diverso animale. Con il quarto motivo si lamentano mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine al principio dell'oltre ogni ragionevole dubbio in quanto la Corte territoriale ha omesso di valutare e di motivare circa le ipotesi alternative emergenti dagli atti che scagionano l'imputato. Ribadito che non vi è prova diretta circa l'identità dei cani o del cane aggressore, e che, quindi, la Corte di Appello all'uopo ha utilizzato una serie di asseriti indizi, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale abbia omesso di considerare e di motivare circa i numerosi elementi emersi che dimostrerebbero la validità dell'ipotesi alternativa prospettata dalla difesa, ossia che il cane aggressore non era quello della moglie dell'imputato, bensì uno dei cani randagi presenti in quella zona. Ciò sarebbe avvalorato dagli elementi richiamati in narrativa, quali: a. l'aggressione è avvenuta in un luogo che pacificamente tutti i testimoni hanno qualificato come sede permanente di cani randagi dì ogni razza, dato processuale confermato anche dalle foto e dai video depositati dall'imputato all'udienza del 27/1/22; b. dal rapporto di prova del DNA della d.ssa Bo.Gi. è emerso che il DNA dell'animale artefice dei morsi era compatibile nella misura del 16,6% con uno solo dei cani detenuti dall'imputato e non con gli altri due, laddove il teste dott. Gi.Li., veterinario ASL di L'Aquila, ausiliario degli inquirenti, la cui deposizione è stata pure avvalorata dalla Sentenza impugnata (pag. 7), ha affermato che i cani aggressori, stante i morsi sulla vittima, erano più di uno; c. il DNA rinvenuto sulla vittima dell'animale aggressore non solo presentava una compatibilità con il cane detenuto dall'imputato di solo 3 marcatori su 18, individuata nella percentuale del 16,6% dalla stessa d.ssa Bo.Gi., ma presentava finanche un marcatore diverso ed estraneo al cane dell'imputato, a riprova dell'estraneità di quest'ultimo e che l'artefice dei morsi è un animale diverso. Il ricorrente lamenta che nella sentenza impugnata non venga motivato alcunché circa il motivo per cui i suddetti elementi e dati processuali non sarebbero rilevanti in termini di assoluzione dell'imputato ex articolo 533, comma 2, cod. proc. pen. Laddove, invece, proprio gli elementi sopra sinteticamente richiamati avrebbero permesso alla Corte territoriale di formulare più di un ragionevole dubbio in ordine al reato contestato. Chiede, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata. 3. Il PG presso questa Corte ha reso le conclusioni scritte riportate in epigrafe. Considerato in diritto 1. I motivi sopra illustrati tendono a sollecitare a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Peraltro, gli stessi si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito. Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità. Ne deriva che il proposto ricorso va dichiarato inammissibile. 2. In premessa, quanto alla denunzia di violazione dell'articolo 192 cod. proc. pen. va ricordato che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, la mancata osservanza di una norma processuale ha rilevanza solo in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità. Le Sezioni Unite hanno recentemente chiarito che in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'articolo 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli articolo 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-04 che a pag. 29 richiama Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518; vedasi anche Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni s.p. a., Rv. 278196; Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, Germanotta, Rv. 195306). Condivisibilmente, per Sez. U, n. 29541 del 16/7/2020, Filardo Rv. 280027 (pag. 29) ... la specificità del motivo di cui all'articolo 606, comma 1, lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l'ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l'ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la violazione di legge di cui all'articolo 606, comma 1, lett. c), e ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza , sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale. D'altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l'assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame (lett. e)), laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti. Queste Sezioni Unite (Sez. U, 11. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione . 3. Con motivazione logica e congrua e corretta in punto di diritto e che, pertanto, risulta immune dai denunciati vizi di legittimità i giudici del gravame merito danno argomentatamene conto del compendio probatorio che li ha portati a ritenere di confermare l'affermazione di penale responsabilità dell'imputato. Siamo di fronte, dunque, ad una doppia conforme affermazione di responsabilità con la quale, in realtà, il ricorrente non si confronta criticamente, limitandosi a riproporre quella che è stata la sua linea difensiva, in fatto, reiterata nel corso dell'intero procedimento. È vero, come si sottolinea in ricorso, che siamo di fronte ad una prova indiziaria, ma, come più volte sottolineato da questa corte di legittimità, si tratta di una prova che riveste il medesimo rango e dignità della prova diretta. In tema di valutazione delle prove, la prova logica, raggiunta all'esito di un corretto procedimento valutativo degli indizi connotato da una valutazione sia unitaria che globale dei dati raccolti, tale da superare l'ambiguità di ciascun elemento informativo considerato nella sua individualità, non costituisce uno strumento meno qualificato rispetto a quella diretta o storica (Sez. 1, n. 46566 del 21/02/2017 M. Rv. 271228-01). In tema di processo indiziario, il giudice può fondare il proprio convincimento circa la responsabilità dell'imputato anche sulla concatenazione logica degli indizi, dalla quale risulti che il loro complesso possiede quella univocità e concordanza atta a convincere della loro confluenza nella certezza in ordine al fatto stesso (Sez. 2, n. 45851 del 15/09/2023, Lp Nardo Rv. 285441-02). In tema di prova, gli indizi , suscettibili di valutazione ai sensi dell'articolo 192, comma 2, cod. proc. pen., sono elementi di fatto noti dai quali desumere, in via inferenziale, il fatto ignoto da provare sulla base di regole scientifiche ovvero di massime di esperienza, mentre il sospetto si identifica con la congettura, un fenomeno soggettivo di ipotesi con prove da ricercare, ovvero con l'indizio debole o equivoco, tale da assecondare distinte, alternative ed anche contrapposte -ipotesi nella spiegazione dei fatti oggetto di prova (Sez. 5, n. 17231 del 17/01/2020, Mazza, Rv. 279168-01). Per costante orientamento giurisprudenziale, si può pervenire all'affermazione di penale responsabilità di un imputato anche sulla base di meri indizi senza che necessariamente debbano trovare riscontro in altri elementi esterni, allorché gli stessi siano gravi, ovvero attendibili e convincenti, precisi e non equivoci, tali da esprimere l'elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, in cui si identifica il tema di prova, ovvero non suscettibili di altra interpretazione altrettanto verosimile, nonché concordanti, ovvero non contrastanti tra loro ed anche con altri desunti da elementi certi. Va ricordato, peraltro, che Sez. U. n. 42979 del 26.6.2014, Squicciarino, Rv. 260018, hanno chiarito che il procedimento logico di valutazione degli indizi si articola in due distinti momenti. Il primo è diretto ad accertare il maggiore o minore livello di gravità e di precisione degli indizi, ciascuno considerato isolatamente nella sua valenza qualitativa, tenendo presente che tale livello è direttamente proporzionale alla forza di necessità logica con la quale gli elementi indizianti conducono al fatto da dimostrare ed è inversamente proporzionale alla molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di esperienza. Il secondo momento del giudizio indiziario è costituito, invece, dall'esame globale e unitario tendente a dissolverne la relativa ambiguità, posto che nella valutazione complessiva ciascun indizio si somma e si integra con gli altri, confluendo in un medesimo contesto dimostrativo, sicché l'incidenza positiva probatoria viene esaltata nella composizione unitaria, e l'insieme può assumere il pregnante e univoco significato dimostrativo, per il quale può affermarsi conseguita la prova logica del fatto (Sez. U. n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678; Sez. U. n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191231). Va aggiunto che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d'esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile (Sez. 4, n. 22790 del 13/04/2018, Mazzeo, Rv. 272995, in fattispecie relativa al reato di fuga del conducente coinvolto in un sinistro stradale con feriti, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata che aveva ritenuto raggiunta la prova dell'identificazione dell'imputato quale conducente dell'auto che aveva cagionato l'incidente, in quanto egli, successivamente al sinistro, si era recato a ritirare la targa del veicolo, perduta nel corso dell'incidente, senza manifestare, né in quella sede né nel processo, circostanze potenzialmente idonee a scagionarlo; Sez. 6, n. 49029 del 22/10/2014, Leone, Rv. 261220). Ciò posto sui principi operanti in materia, nella fattispecie in esame la Corte territoriale appare avere correttamente operato un apprezzamento unitario dei molteplici indizi, per verificare la loro confluenza verso un significato univoco. 4. Nel confutare le doglianze difensive che le erano state proposte, la Corte aquilana parte dai dati certi acquisiti, rilevando, in primis, come dagli atti processuali (deposizione Pr.Ma., moglie della vittima, deposizione Ia.Ma., collaboratore dell'agenzia di scommesse Bets E Games di P, informazioni medico legali, accertamenti di p.g.) emerga che la morte di Pr.Ed. è intervenuta tra le ore 18 circa, quando quest'ultimo ha telefonato alla moglie, dicendo che si trovava presso una vicina agenzia di scommesse e stava per tornare a casa, e le ore 18.30, quando la moglie, preoccupata dal suo mancato rientro, lo ha contattato telefonicamente senza ottenere risposta, per poi recarsi dalle Forze dell'Ordine; l'immagine riprodotta nel verbale di sopralluogo del 9.3.2018 (pag. 10 produzioni documentali del Pubblico Ministero) indica la strada interpoderale, che costeggia il fiume (Omissis), percorsa a piedi quel giorno dal Pr.Ed. per rientrare a casa ed il luogo di rinvenimento del cadavere. La causa della morte è stata attribuita ad asfissia da annegamento; secondo le informazioni medico legali, il Pr.Ed. è stato attaccato da alcuni cani mentre percorreva la strada interpoderale, porgendo la parte destra del corpo verso il fiume Vera, diretto verso la sua abitazione; il primo attacco ha coinvolto il braccio sinistro della vittima, attinto da lesività diffusa, riconducibile a morsi di caneo canidi grossa taglia, seguito da analoga lesività da paramento su entrambe le mani e sul braccio destro; il Pr.Ed.,. sempre secondo le informazioni medico legali, dopo essersi liberato da tale primo attacco, nel tentativo di sottrarsi all'aggressione, e mentre veniva ancora attinto da morsi di minore efficacia lesiva agli arti inferiori, è fuggito verso il letto del fiume, ove è caduto dopo aver perso, nel corso del tragitto, telefono e portafoglio, impattando contro gli arbusti presenti sull'argine; è seguita la perdita di coscienza dovuta all'impatto con l'acqua fredda e la conseguente morte per annegamento. Si ricorda in sentenza che Gi.Li., medico veterinario della ASL di L'Aquila, che, in qualità di ausiliario del consulente medico legale, ha partecipato all'ispezione cadaverica, ha ricondotto la lesività riscontrata sulla vittima a morsi di cane di grossa taglia, mentre ha escluso la compatibilità delle lesioni con il morso di un lupo o di altro animale selvatico. E che, a specifiche domande, il Gi.Li. ha affermato che verosimilmente, tenuto conto del numero delle lesioni riscontrate sul cadavere, l'aggressione era stata posta in essere da più cani, ma tutti della stessa taglia, attesa l'uniformità della tipologia di morsi; ha, ancora, evidenziato la compatibilità delle lesioni con quelle procurate da morsi di cani corso, molossoidi di taglia medio grande, di indole particolarmente aggressiva. Ciò posto, per la Corte territoriale che i cani corso di proprietà dell'imputato si trovassero nella zona ove insiste la stradina interpoderale più volte richiamata, nella fascia oraria compresa tra le 18-18.15 e le 18.30, è univocamente riscontrato dalle deposizioni rese da Io.Ba. e So.Ma. La prima si ricorda in sentenza ha riferito che, quel giorno, intorno alle ore 18-18.15, aveva accompagnato a casa con la sua macchina la figlia della So.Ma., amica di sua figlia; giunta nei pressi dell'abitazione, aveva visto tre-quattro cani corso, liberi, lungo la strada, riconosciuti dalla ragazza come quelli di proprietà del De.Pa. (la cui abitazione si trova a poca distanza); la ragazza, impaurita, aveva deciso di non scendere dalla macchina fino all'arrivo della madre, contattata telefonicamente, che, poco dopo, era arrivata e le aveva aperto il car...:ello, consentendole di entrare in sicurezza. La So.Ma. ha confermato quanto riferito dalla Io.Ba., precisando che, una volta contattata telefonicamente dalla figlia, era arrivata a casa ed aveva visto i tre cani corso del De.Pa. che camminavano lungo la stradina antistante la sua abitazione; la teste ha aggiunto che già nel precedente mese di febbraio gli stessi cani erano usciti dalla proprietà del De.Pa. e si erano introdotti nel suo cortile, varcando il cancello di ingresso alla sua proprietà, rimasto momentaneamente aperto; in quella circostanza, i cani del De.Pa. avevano aggredito il suo cane, tanto da aver dovuto ricorrere alle cure di un veterinario, indicatole dallo stesso De.Pa. La Corte territoriale dà conto poi che in sede di indagini è stato disposto un accertamento comparativo tra campioni ematici prelevati sui cani del De.Pa. e le tracce genetiche prelevate sugli abiti indossati dalla vittima al momento dell'aggressione; l'accertamento è stato eseguito dalla dr.ssa Bo.Gi., dirigente biologo dell'istituto Zooprofilattico Sperimentale del Mezzogiorno, la quale ha premesso che i campioni di tessuto prelevati sulla vittima avevano consentito di ottenere mi profilo genetico incompleto, verosimilmente anche a causa della degradazione del DNA a seguito dei contatto prolungato degli indumenti con l'acqua. All'esito della comparazione è risultato un valore di compatibilità parziale, compreso tra 1000 e 10.000, il che vuoi dire, secondo quanto precisato dalla Bo.Gi. in sede di deposizione, che la possibilità che nella popolazione dei cani si estragga casualmente un cane con il medesimo profilo genetico e pari ad 1 su 10.000 , un valore definito dalla teste di per se non determinante , ma idoneo a fornire un supporto all'ipotesi di compatibilità tra il profilo genetico riscontrato sulla traccia (sugli abiti della vittima) e quello del campioni di sangue prelevato sui cani dell'imputato (verbale udienza 22.12.2021, pag. 25 delle trascrizioni). Si ricorda anche che la difesa, attraverso le osservazioni del consulente di parte dott. Gi.Em., ha contestato le modalità di conservazione dei reperti e di esecuzione delle operazioni di analisi, a suo giudizio non in linea con le indicazioni della comunità scientifica. Ma si tratta, a giudizio della Corte territoriale, di osservazioni efficacemente contrastate dai chiarimenti forniti dalla stessa d.ssa Bo.Gi. alle domande della difesa, laddove ha precisato che i campioni prelevati in data 13 marzo erano giunti al laboratorio integri ed a corretta temperatura di refrigerazione ed erano stati poi congelati fino al momento delle analisi, escludendo qualsivoglia pericolo di contaminazione; quanto alla esecuzione delle operazioni, la teste ha spiegato la procedura seguita ed i metodi di calcolo utilizzati, richiamati nei referti in atti ; del r esto, le analisi sono state eseguite da struttura altamente specialistica ed accreditata e non vi è ragione alcuna per dubitare della correttezza delle operazioni compiute. Quanto alle modalità dei prelievi, soccorrono anche le dichiarazioni dei testi Im.Pi., Ma.Ro. e Fl.Sa., veterinari della ASL di L'Aquila, nominati ausiliari di p.g., che hanno eseguito i prelievi ed i campionamenti secondo procedure standard, conformi alle linee guida nazionali. Tornando alla zona dell'aggressione, i giudici del gravame del merito rilevano che è emerso dalle risultanze processuali che, subito dopo l'evento, è stato eseguito un sopralluogo d? parte dei veterinari della ASL unitamente a personale di p.g. per verificare la presenza, presso casolari esistenti in loco, di cani, potenziali autori dell'aggressione ai danni del Pr.Ed.; ebbene, nella circostanza, si è verificato che solo i cani detenuti dal De.Pa. erano cani corso o comunque molossoidi, tanto che gli stessi veterinari avevano escluso il possibile coinvolgimento di altri animali, cani di piccola taglia e un pastore abruzzese, di taglia media, pure rinvenuti in altri casolari (deposizione teste di p.g. Ge. Nunzio, trascrizioni udienza 18.9.2019, pag. 7). E che il 13 marzo, quattro giorni dopo l'evento, la p.g. ha eseguito un sopralluogo presso la proprietà del De.Pa. Come si legge in sentenza l'esito del sopralluogo, documentato dalle foto in atti, è stato riferito dal teste di p.g. Ge., il quale ha dichiarato di aver accertato che la proprietà del De.Pa. era circondata da una rete di recinzione, che, in un punto, visibile nella foto n. 5 (ma ancor più, aggiunge la Corte territoriale nelle immagini racchiuse nel dvd in atti), mostrava un rinforzo di recente realizzazione, come se fosse stato posto un pezzo di rete ulteriore a copertura di un varco sulla rete preesistente (deposizione Ge., pag. 13 trascrizioni); il teste ha precisato che il rinforzo si trovava solo in quel punto della recinzione. Sulla particolare aggressività dei cani dell'imputato e sul fatto che fossero soliti uscire dall'area recintata, la Corte territoriale dà conto che deposto anche i testi Pa.Vi. e Pa.Pi. Il primo, residente nelle vicinanze e proprietario di un gregge, ha riferito che molte volte, al suo passaggio con le pecore ed il cane, i cani dell'imputato si erano avventati contro la rete, a suo giudizio troppo leggera, tentando di uscire, tanto da aver anche richiamato il De.Pa. a predisporre una recinzione più adeguata (''una rete messa così per la protezione dell'orto...gli ho detto che doveva mettere la rete elettrosaldata (he se uscivano gli facevano passare i guai; trascrizioni udienza 1.6.2022, pag. 8), per poi decidere, persistendo la situazione, di non passare più da lì. Il secondo ha riferito di aver visto in più occasioni i cani dell'imputato, liberi, fuori dall'area recintata, tanto da aver contattato il De.Pa. tramite un amico comune per invitarlo a farli rientrare ed a custodirli più adeguatamente, avendo paura di possibili aggressioni. Concludendo, sulla base delle risultanze processuali sin qui richiamate, facendo buon governo della giurisprudenza di questa Corte di legittimità ampiamente richiamata in precedenza, la Corte aquilana osserva che: a. la lesività riscontrata sul cadavere del Pr.Ed. è stata ritenuta compatibile con morsi di un cane o, ragionevolmente, di più cani, molossoidi; b. gli unici cani molossoidi presenti nella zona interessata dall'aggressione sono quelli detenuti dal De.Pa.; c. è stata chiaramente accertata la presenza dei tre cani corso del Paulis, liberi, fuori dall'area recintata, nell'orario e nella zona in cui il Pr.Ed. è stato aggredito; d. è stata chiaramente riscontrata dalle deposizioni testimoniali la particolare aggressività di detti cani ed è emerso come già in precedenza fossero usciti dall'area recintata, creando allarme tra i vicini; e. in sede di analisi comparativa è stata accertata una significativa compatibilità tra il profilo genetico riscontrato sugli abiti della vittima attinti dai morsi e i campioni ematici prelevati sui cani dell'imputato; f. nessuno dei testi escussi ha visto, quel giorno, cani randagi aggirarsi in quella zona ed è stata esclusa la compatibilità della lesività riscontrata sulla vittima con morsi di lupi o altri animali selvatici. Tutti detti elementi, complessivamente valutati, anche sotto il profilo logico, a giudizio della Corte territoriale, hanno correttamente condotto il primo giudice a ricondurre l'aggressione ai danni del Pr.Ed., che ha dato causa al suo decesso, ai cani detenuti dall'imputato e ad affermare la penale responsabilità di quest'ultimo per il reato contestato. 5. Corretta appare la conclusione della Corte territoriale secondo cui, in base alle convergenti dichiarazioni della vittima del reato, dei testi e dei consulenti, l'imputato risultava aver violato gli obblighi di custodia gravanti sui tre cani, consistenti anche nel prevenire ed evitare le possibili aggressioni a terzi: difatti, egli, infatti, pur non essendone formalmente proprietario, viveva stabilmente coi tre animali. Gli elementi acquisiti, come visto, erano i seguenti: 1. la riconducibilità delle lesioni a morso di cane molossoide e non a cane di piccola taglia, di un lupo o di un altro animale di piccola taglia (c.t. P.M. dr. Gi.Li.); 2. la presenza dinanzi al cancello della propria abitazione dei tre cani, riconosciuti come quelli di proprietà dell'imputato, che in precedenza avevano aggredito anche il suo cane (teste Io.Ba.). Una volta contattata telefonicamente dalla figlia, So.Ma. aveva notato i tre cani procedere lungo la stradina antistante alla propria abitazione; raccontava che già nel precedente febbraio i cani erano usciti da casa e si erano introdotti nel suo cortile; 3. la compatibilità pari ad un valore compreso tra mille e diecimila tra i risultati ematici dei prelievi effettuati sui cani dell'imputato con quelli rinvenuti sugli abiti indossati dalla vittima e la mancanza di compatibilità coi campioni ematici prelevati da tutti gli animali presenti nelle abitazioni vicine (vedi l'esame sui campioni ematici eseguito dalla dr.ssa Bo.Gi.). Si trattava di campioni giunti al laboratorio integri e a corretta temperatura di refrigerazione, poi congelati fino al momento delle analisi; 4. il rinvenimento del portafogli e del cellulare del Pr.Ed. di fronte alla proprietà del De.Pa. 5. la presenza dei tre cani, notata poco prima del fatto, nei pressi del luogo oggetto di aggressione. 6. la gestione dei tre cani da parte dell'imputato, mentre solo uno dei tre aveva il microchip formalmente intestato alla moglie del De.Pa.; 7. la frequente libertà di girare per il vicinato dei tre cani, già in passato manifestatisi con atteggiamento aggressivo verso terzi; 8. l'inidoneità della recinzione, definita da orto , in quanto, secondo il teste Pa.Vi., al suo passaggio, molte volte i cani si avventavano contro la rete troppo leggera, invitando il De.Pa. ad installare una recinzione più adeguata. Il teste Pa.Pi. aveva visto più volte i cani liberi ed aveva invitato il De.Pa. a custodirli più adeguatamente; 9. La presenza di un forca nella recinzione con un rinforzo di recente realizzazione (teste di P.G. Ge.). Come si vede, il compendio indiziario, univocamente convergente verso una responsabilità dell'odierno ricorrente, è assai vasto. Il ricorso si sofferma, in particolare, sugli esiti dei rilievi scientifici, che sono solo uno dei tanti elementi, nemmeno indispensabile, attraverso cui si è pervenuto all'affermazione di responsabilità del De.Pa. E anche la circostanza che il giorno dei fatti l'odierno ricorrente fosse o meno a L'Aquila appare del tutto irrilevante a fronte di un quadro di inadeguata detenzione e custodia dei pericolosi animali che, come delineato dai giudici del merito, andava avanti da tempo. 6. Correttamente, in punto di diritto, la Corte aquilana, in risposta ai rilievi difensivi, rileva come non possa essere messa in dubbio la ricorrenza di una posizione di garanzia in capo all'imputato , alla luce della provata relazione di detenzione materiale tra quest'ultimo ed i cani, da lui di fatto gestiti, come emerso incontestabilmente da tutte le informazioni testimoniali; posizione di garanzia che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, prescinde dalla nozione di appartenenza, risultando irrilevante il dato formale relativo alla registrazione dell'animale all'anagrafe canina o all'apposizione di un microchip di identificazione (conferente appare il richiamo a Sez. 4, 17145 del 17/01/2017, Guadagna, non mass. in un caso in cui era stata individuata la posizione di garanzia in capo all'imputato quale custode dei cani, che erano usciti da un varco della sua abitazione prima di aggredire un passante). Ed è indubbio che l'imputato abbia violato la regola cautelare che impone al proprietario/detentore di animali uno specifico e stringente obbligo di custodia, adottando ogni cautela per prevenire ed evitare le possibili aggressioni a terzi, viepiù quando, come nel caso in esame, si tratta di più cani e di indole particolarmente aggressiva. In tema di lesioni colpose, la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane, discendente anche dalle ordinanze del Ministero della Salute del 3 marzo 2009 e del 6 agosto 2013, impone l'obbligo di controllare e custodire l'animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi (Sez. 4, n. 7486 dell'08/01/2025, Giorgini, non massimata; Sez. 4, n. 31874 del 27/06/2019, Giambellucca, Rv. 276705; vedi anche, Sez. 4, n. 36151 del 21/09/2021, Rizzo, non massimata; Sez. 4, n. 30548 del 13/04/2016, Bregantini, non massimata; Sez. 4, n. 34765 del 03/04/2008, Morgione, Rv. 240774; Sez. 4, n. 34813 del 02/07/2010, Vallone, Rv. 248090). L'obbligo di custodia di un animale va ribadito sorge ogni qualvolta sussista una relazione di semplice detenzione, anche solo materiale e di fatto tra l'animale e una data persona, non essendo necessario un rapporto di proprietà in senso civilistico (Sez. 4, n. 51448 del 17/10/2017, Polito, Rv. 271329). In tema di omicidio e di lesioni colpose, la posizione di garanzia assunta dal detentore di un cane impone l'obbligo di controllare e custodire l'animale adottando ogni cautela per evitare e prevenire le possibili aggressioni a terzi anche all'interno dell'abitazione (Sez. 4, n. 18814 del 16/12/2011, dep. 2012, Mannino, Rv. 253594, in fattispecie nella quale sono stati ritenuti responsabili del reato di lesioni colpose gli imputati che avevano omesso di sistemare il cane in una zona dell'abitazione diversa da quella frequentata dagli ospiti). Inoltre, il proprietario risponde a titolo di colpa delle lesioni cagionate dall'animale, anche nel caso in cui ne abbia affidato la custodia a persona inidonea a controllarlo (Sez. 4, n. 34765 del 03/04/2008, Morgione, Rv. 240774). 7. Alla luce di quanto sopra ricordato in relazione alla posizione di garanzia del ricorrente, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata operi un buon governo del principio secondo cui il detentore di un cane risponde a titolo di colpa delle lesioni cagionate a terzi dallo stesso animale, qualora non sia stato in grado di esercitare su di esso un'effettiva custodia. A prescindere dal dato dell'epoca della riparazione del foro nella recinzione, contestato dal De.Pa., sono state correttamente rilevate la non elevata consistenza della rete e l'assenza di un doppio cancello, in modo da limitare i rischi di uscita. D'altronde, anche il ricorso non mette in discussione come più volte i vicini avevano notato i cani circolare liberi in zona e avevano avvertito il De.Pa., affinché impedisse loro l'uscita. Non si trattava, quindi, di un incidente isolato dovuto ad una presunta disattenzione estemporanea della moglie, bensì di un'imprudenza sistematica e costante, sintomatica di superficialità nel non predisporre un meccanismo stabile e duraturo di controllo degli animali. Peraltro, in occasione delle rimostranze dei vicini, il De.Pa. non risulta aver negato la proprietà dei cani e averli invitati a rivolgere le loro rimostranze esclusivamente a sua moglie si tratta di un comportamento concludente indicativo di effettiva presa in carico del bene protetto (Sez. 4, n. 34975 del 29/01/2016, Biz, Rv. 267539). Anche per tale ragione si è logicamente ritenuto di confermare l'ascrivibilità della gestione degli stessi al De.Pa., indipendentemente dalla mancanza di un titolo formale di proprietà, nonché di escludere rilievo alla circostanza che, nell'ora del tragico evento, egli stesse svolgendo la propria attività lavorativa in un luogo lontano (sulla responsabilità del garante in caso di assenza vedi Sez. 4, n. 17106 del 14/03/2024, Garrasi, Rv. 286198). In ordine all'ascrivibilità della vicenda ai cani del De.Pa., contrariamente a quanto esposto dalla difesa, si evince che il giorno del fatto i vicini non avevano notato cani randagi in zona e che il dr. Gi.Li. aveva escluso la ricollegabilità dei morsi a cani di tipologia diversa rispetto ai cani di razza corso. La presunta distanza tra i luoghi dell'avvistamento dei cani e dell'incidente non risulta adeguatamente documentata nella presente sede di legittimità, in violazione del principio di autosufficienza. I rilievi di carattere tecnico, inoltre, non appaiono decisivi, laddove si è già sottolineato che si tratta solo di uno dei tanti elementi indiziari e che, anche a voler sottrarli al compendio posto a base della conforme doppia decisione dei giudici del merito, resisterebbe un sufficiente quadro indiziario atto a supportare in termini di prova la penale responsabilità del De.Pa. E, in ogni caso, la maggior parte di tali rilievi non appare basata su prospettazioni di carattere tecnico espresse dal proprio consulente di parte, bensì su considerazioni prive di riferimenti scientifici, per cui non appaiono idonee a scalfire le risultanze delle consulenze condivise dalla Corte di appello. Infine, la violazione delle suesposte cautele, come correttamente osservato in sentenza, rivela la condotta omissiva colposa dell'imputata e appare causalmente correlata al determinismo lesivo, per cui la descrizione dello sviluppo causale ivi riportata appare congrua ed adeguata. Va ribadito il principio affermato da questa Corte che in tema di omessa custodia di animali, al fine di escludere la colpa, consistente nella mancata adozione delle dovute cautele, non è sufficiente che l'animale sia tenuto in un luogo privato e recintato, ma è necessario che tale luogo sia idoneo a evitare che lo stesso possa sottrarsi alla custodia o al controllo (Sez. 4, n. 11093 del 03/03/2021, Hoffer, non massimata; Sez. 4, n. 1 3464 del 19/11/2019, dep. 2020, Splendore, Rv. 278920, relativa a fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità, per il reato di lesioni colpose, dell'imputato che, aprendo il cancello automatico dell'abitazione, non si era avveduto dell'uscita del cane di grossa taglia). E nemmeno, come si anticipava, coglie nel segno la difesa quando afferma che l'imputato, al momento del fatto fuori regione per motivi di lavoro, non avrebbe potuto in alcun modo evitare l'evento. Ciò perché, come danno atto i giudici del merito indicando l'ampia prova testimoniale a supporto di cui si è detto in precedenza, anche in altre occasioni, i cani dell'imputato erano usciti dall'area recintata, creando allarme tra i vicini; e ciò dimostra chiaramente come le modalità di custodia adottate fossero inadeguate. E allora non vi è dubbio che la predisposizione di un'adeguata struttura di contenimento dei cani ancor più si imponeva, considerata la quotidiana, prolungata assenza del De.Pa. dall'abitazione per esigenze di lavoro. Da ultimo, la ricostruzione prospettata dall'imputato in sede di esame, secondo la quale i cani, quel giorno, potrebbero essere usciti dal cancello, lasciato distrattamente aperto dalla moglie (formale intestataria di uno dei cani corso, separatamente giudicata), come accaduto in passato, con conseguente sua impossibilità di intervento, non ha trovato alcun concreto riscontro nelle risultanze processuali; mentre deve ragionevolmente ritenersi, conformemente alla contestazione, alla luce di quanto accertato e documentato in sede di sopralluogo dal teste di p.g., che i cani siano usciti da un varco apertosi nella rete, nel punto poi riparato, prima del sopralluogo, raggiungendo la vicina strada interpoderale; oltre al fatto che, come correttamente evidenziato dal primo giudice, se fosse stato predisposto un idoneo e sicuro recinto per la custodia degli animali, questi ultimi nemmeno avrebbero potuto raggiungere il cancello. 8. Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cast. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue. quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.