Riconosciuto l’assegno divorzile per l’ex moglie che durante il matrimonio ha seguito l’allora marito, trasferitosi per ragioni di lavoro, e per favorirne la carriera ha deciso di dedicarsi alla cura della famiglia, facendo un passo indietro a livello professionale.
Ufficializzata la rottura definitiva del matrimonio tra Barbara e Carlo (nomi di fantasia), i giudici riconoscono a lei il diritto di percepire l’assegno divorzile, nonostante l’opposizione di lui, e lo quantificano in 600 euro al mese. Decisivo è in Appello il raffronto tra le posizioni economiche dei due ex coniugi, raffronto che ha permesso di rilevare un significativo divario in sfavore della donna. Come spiegare questo divario? Per i giudici di secondo grado il quadro è chiaro: nel matrimonio – durato circa dieci anni e allietato dalla nascita di due figli – il passaggio decisivo è stato rappresentato dal trasferimento lavorativo di Carlo nella Capitale, poiché esso ha coinciso con la richiesta di lavoro part-time di Barbara. In sostanza, la decisione, come moglie, di seguire il marito ha comportato per Barbara non solo «un allontanamento dalla città di residenza» ma anche «un oggettivo aggravio», ritrovandosi «da sola ad accudire i due figli in tenera età». E ciò, chiarisce la Corte territoriale, a prescindere se sia trattato o meno di una scelta condivisa della coppia. Per Carlo, invece, «il cambiamento lavorativo ha costituito un indubbio vantaggio, reso evidente dal rifiuto di due antecedenti richieste di trasferimento e l’accettazione dell’ultima proposta» in quanto «migliorativa della propria posizione lavorativa», a differenza dell’allora moglie «la cui condizione lavorativa si è fermata ed anzi è retrocessa». Inutili, secondo la Cassazione, le ulteriori obiezioni sollevate da Carlo, che, perciò, dovrà versare mensilmente 600 euro all’ex moglie. Prima di esaminare in dettaglio la vicenda, comunque, i Giudici richiamano il principio secondo cui «l’assegno divorzile, che va attribuito e quantificato senza riferimenti al tenore di vita goduto durante il matrimonio, deve assicurare, in ragione della sua finalità composita – assistenziale, perequativa e compensativa –, all’ex coniuge che lo richiede, un livello reddituale adeguato al contributo fornito in ogni ambito di rilevanza, mediante complessiva ponderazione dell’intera storia coniugale e della prognosi futura, tenendo conto anche delle eventuali attribuzioni o degli introiti che abbiano compensato il sacrificio di aspettative professionali e realizzato l’esigenza perequativa». Fondamentale, quindi, «la valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito – dal coniuge che richiede l’assegno – alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio», senza dimenticare, poi, «l’età del coniuge che pretende l’assegno divorzile». Non caso, «l’assegno divorzile è finalizzato a garantire un livello reddituale parametrato alle pregresse dinamiche familiari ed è perciò necessariamente collegato, secondo la composita declinazione delle sue tre componenti (assistenziale, perequativa e compensativa), alla storia coniugale e familiare». Fatta questa importante premessa, la Suprema Corte, tornando alla vicenda oggetto del processo, sottolinea «l’esistenza del divario» reddituale tra Carlo e Barbara, divario che costituisce precondizione per il successivo accertamento dei requisiti per l’attribuzione e la determinazione dell’assegno». Nello specifico, a fronte di una vita coniugale sviluppatasi in un arco temporale di dieci anni e a seguito del confronto delle due differenti posizioni economiche, va posto in evidenza, secondo i giudici, «il contributo oggettivo che la moglie ha dato alla crescita professionale del marito, il quale ha, all’epoca, accettato il trasferimento a Roma potendo contare sull’apporto della moglie su cui gravavano inevitabilmente gli oneri di accudimento di figli in tenera età», oneri che l’hanno fatta «optare per un lavoro part-time, retrocedendo in termini di carriera e di retribuzione, e a tutto vantaggio del marito». In definitiva, Barbara ha provato «la contrazione del reddito e dell’impegno lavorativo in concomitanza con il trasferimento a Roma» per seguire l’allora marito, e da questo quadro è logico dedurre, secondo i Giudici, «la prova del suo maggiore impegno domestico e di cura dei figli», da cui deriva il diritto a percepire l'assegno divorzile.
Presidente Acierno - Relatore Caprioli Fatti di causa Ritenuto che: Il Tribunale di Firenze con sentenza nr. 2507/2023 disponeva, nell'ambito del procedimento di divorzio tra Bi.Yu. e Ch.Ir., l'affidamento condiviso dei figli minori Ed. e Vi., ad entrambi i genitori con collocamento prevalente presso la madre Ch.Ir., assegnava a quest'ultima l'ex casa familiare, poneva a carico del padre quale contributo per il mantenimento dei figli l'importo di Euro 800,00 e le spese straordinarie nella misura di 2/3 nonché l'ulteriore somma di Euro 700,00 a titolo di assegno divorzile. Avverso tale decisione Bi.Yu. proponeva appello. Si costituiva Ch.Ir. resistendo al gravame e chiedendone il rigetto. Con sentenza nr 66/2024 la Corte di appello di Firenze accoglieva parzialmente l'appello relativamente all'entità dell'assegno divorzile previsto che riduceva ad Euro 600,00 ferme restando le ulteriori statuizioni. A tal fine raffrontava le posizioni economiche dei due ex coniugi rilevandone un significativo divario. In questo senso rilevava che la Ch.Ir. disponeva di un reddito lordo di circa Euro 23800,00 gravata da un'imposta pari a Euro 3300, nell'anno 2023 che porta ad un netto mensile di 1700 Euro circa su 12 mensilità. Il Bi.Yu. percepiva nel medesimo anno una entrata di Euro 140.000,00 lordi con imposte per 55.000,00 Euro e con credito di imposta per Euro 6000,00 pertanto 90.000 Euro circa ed un conseguente guadagno netto mensile di circa Euro 7500,00 (su 12 mensilità), superiore di 4 volte quello dell'appellata. La Corte di appello considerava che la casa familiare di proprietà di entrambi era gravata da mutuo pagato a metà, per l'importo di Euro 600,00 a testa ed inoltre il Bi.Yu. pagava la somma di Euro 730,00 a titolo di canone di locazione. Osservava poi che le ragioni poste a fondamento dell'eliminazione dell'assegno divorzile si riassumevano nel contestare il contributo della ex moglie alla carriera dell'ex marito; nell' ascrivere la differenza reddituale alla responsabilità dell'ex moglie, la quale non aveva optato per un tempo pieno, e alla mancanza di promozioni lavorative collegate al basso titolo di studio e alla sua scarsa empatia nel luogo di lavoro. La Corte distrettuale muovendo dalla premessa che il matrimonio era durato circa 10 anni ed era stato allietato dalla nascita di due figli e dal dato fattuale che nell'anno 2014 il Bi.Yu. si era trasferito a Roma nel 2014 per ragioni lavorative, in coincidenza con la richiesta di lavoro part time della moglie, ha considerato che tale allontanamento dalla città di residenza rappresentasse oggettivamente un aggravio per la donna chiamata da sola ad accudire figli in tenera età figli (all'epoca 4 e 1 anno) a prescindere se fosse stato frutto di una scelta condivisa. Riteneva che il cambiamento lavorativo dell'appellante aveva costituito un indubbio vantaggio reso evidente dal rifiuto di due antecedenti richieste di trasferimento e l'accettazione di quest'ultima migliorativa della propria posizione lavorativa, diversamente da quanto è invece accaduto all'appellata la cui condizione lavorativa si era fermata ed anzi era retrocessa. Né era stato fornito alcun elemento sulla effettiva possibilità di lavorare ora a tempo pieno e sulla concretezza dell'aumento di stipendio. In questo quadro confermava la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile rideterminandolo in Euro 600,00 in ragione delle spese che gravano sul Bi.Yu. anche per la pari permanenza dei figli presso di lui e della maggiore partecipazione alle spese straordinarie. Avverso tale decisione Bi.Yu. ha proposto ricorso per cassazione affidato a 4 motivi cui ha resistito con controricorso Ch.Ir. Ragioni della divisione Considerato che: Con il primo motivo si denuncia ex articolo 360 n. 3 cpc: la violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 5 L. 898/1970 per aver la Corte di Appello di Firenze confermato il diritto della Sig.ra Ch.Ir. a percepire l'assegno divorzile sulla base del solo divario reddituale esistente tra i due ex coniugi - pur in assenza dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno divorzile. Con un secondo motivo si deduce ex articolo 360 n. 3 cpc: la violazione e/o falsa applicazione degli articolo 115 cpc, 116 cpc e art 2729 c.c. - per aver il Collegio mal esercitato il suo potere di prudente apprezzamento delle prove ed aver confermato il diritto della sig.ra Ch.Ir. all'assegno divorzile sulla base di fatti contestati ed elementi non attinenti ai fatti causa e su presunzioni non chiare, precise e concordanti; violazione e/o falsa applicazione articolo 2697 c.c. per violazione del principio dell'onere della prova in relazione alla sussistenza della funzione. Il Collegio giudicante si sarebbe avvalso di argomentazioni generaliste per suffragare la propria decisione e non di dati oggettivi emersi nel corso del giudizio . L'impiego part-time della sig.ra Ch.Ir., ad oggi implementato a 6 ore lavorative giornaliere, sarebbe stato definito dalla Corte come un peggioramento della posizione femminile senza interrogarsi se effettivamente questo fosse effettivamente il caso della resistente. Con un terzo motivo si censura la decisione sotto il profilo ex articolo 360 n. 5 cpc: dell'omesso esame di un fatto decisivo e violazione articolo 111 comma sesto Cost. e articolo 132 cpc, in relazione all'aumento dell'orario lavorativo e, quindi, della retribuzione della sig.ra Ch.Ir. La sentenza oggetto del presente gravame risulta viziata per aver la Corte di appello omesso completamente l'esame su un fatto decisivo riguardante le reali capacità reddituali della signora Ch.Ir. Con il quarto motivo si deduce ex articolo 360 n. 3 cpc: la violazione e/o falsa applicazione art 91 e articolo 92, comma 2, cpc, per violazione del principio della soccombenza per aver compensato le spese di lite per 1/3 ponendo i 2/3 a carico del Sig. Bi.Yu. in favore della Ch.Ir. per entrambi i gradi di giudizio, in riforma della decisione di primo grado pur avendo accolto la domanda dallo stesso proposta e per l'illogicità, la contraddittorietà e l'insufficienza della motivazione posta a giustificazione della compensazione con maggior carico sul Bi.Yu. Il primo motivo è infondato. L'assegno divorzile, che va attribuito e quantificato facendo applicazione in posizione pari ordinata dei parametri di cui all'articolo 5, comma 6, prima parte, della L. n. 898 del 1970, senza riferimenti al tenore di vita goduto durante il matrimonio, deve assicurare all'ex coniuge richiedente, in ragione della sua finalità composita - assistenziale, perequativa e compensativa -, un livello reddituale adeguato al contributo dallo stesso fornito in ogni ambito di rilevanza declinato tramite i suddetti parametri, mediante complessiva ponderazione dell'intera storia coniugale e della prognosi futura, tenendo conto anche delle eventuali attribuzioni o degli introiti che abbiano compensato il sacrificio delle aspettative professionali del richiedente e realizzato l'esigenza perequativa (Cass., n. 4215/21). Il giudizio deve essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto. L'assegno divorzile è finalizzato a garantire un livello reddituale parametrato alle pregresse dinamiche familiari ed è perciò necessariamente collegato, secondo la composita declinazione delle sue tre componenti (assistenziale, perequativa e compensativa), alla storia coniugale e familiare (cfr. Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 5055 del 24/02/2021). Ciò posto la Corte di appello ha correttamente verificato l'esistenza del divario che costituisce come da giurisprudenza consolidata precondizione per il successivo accertamento dei requisiti per l'attribuzione e la determinazione dell'assegno. Ha infatti ricostruito la vita coniugale sviluppatasi in un arco temporale di 10 anni mettendo a confronto le posizioni economiche di entrambe le parti accertandone un significativo divario e passando poi a considerare il contributo oggettivo che la moglie aveva dato alla crescita professionale del marito il quale aveva accettato il trasferimento a Roma potendo contare sull'apporto della moglie su cui gravavano inevitabilmente gli oneri di accudimento di figli in tenera età per il cui assolvimento la Ch.Ir., aveva dovuto optare per un lavoro part-time, retrocedendo in termini di carriera e retribuzione a tutto vantaggio del marito. Il giudice distrettuale non ha pertanto limitato la sua analisi al divario reddituale ma ha spinto la sua indagine anche alla verifica dei presupposti normativi che giustificano l'erogazione dell'assegno divorzile. Per il resto il motivo è ampiamente meritale, poiché - sebbene sia prospettata la violazione di legge - tende ad una inammissibile rivisitazione del giudizio in fatto operato dal giudice di merito. Com'è noto, infatti, è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici o delle risultanze istruttorie operata dal giudice di merito (Cass., Sez. U, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019; Cass., Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 29404 del 07/12/2017; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 19547 del 04/08/2017). Il secondo motivo in cui si intrecciano profili di inammissibilità e di infondatezza è da respingere. La pronuncia di appello ritiene che la ex moglie abbia assolto all'onus probandi su di lei ricadente dimostrando la contrazione del reddito e dell'impegno lavorativo in concomitanza con il trasferimento a Roma. Da questi fatti noti ed univoci ne è conseguita la prova presuntiva del suo maggiore impegno domestico e di cura dei figli. A tale valutazione parte ricorrente ne oppone una diversa non ammissibile in questa sede. Il ricorrente per cassazione infatti non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l'apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall'analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l'apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, in quanto, nell'ambito di quest'ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione del giudice di merito, a cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all'uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra esse, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass., n. 32505/2023). La valutazione delle prove raccolte, anche se si tratta di presunzioni, costituisce un'attività riservata in via esclusiva all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione, sicché rimane estranea al vizio previsto dall'articolo 360, comma 1, n. 5 c.p.c. qualsiasi censura volta a criticare il convincimento che il giudice si è formato, a norma dell'articolo 116, commi 1 e 2, c.p.c., in esito all'esame del materiale istruttorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, atteso che la deduzione del vizio di cui all'articolo 360 n. 5 c.p.c. non consente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali, contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass., n. 20553/2021). In tema di prova per presunzioni, la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dall'articolo 2729 c.c. e dell'idoneità degli elementi presuntivi dotati di tali caratteri a dimostrare, secondo il criterio dell' id quod plerumque accidit , i fatti ignoti da provare, costituisce attività riservata in via esclusiva all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito (Cass., n. 27266/23n. 9054/22). Con riferimento agli articolo 2727 e 2729 c.c., spetta al giudice di merito valutare l'opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all'utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l'ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l'assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass., n. 22366/21). Nella specie, il ricorrente lamenta l'apprezzamento dei fatti compiuto dalla Corte territoriale, assumendo che la pronuncia sull'assegno divorzile sarebbe stato il frutto di presunzioni erroneamente applicate in mancanza dei loro elementi costitutivi. Questo lo abbiamo messo in apertura non serve più. Inoltre, la Corte territoriale ha correttamente ritenuto non dimostrate le mere deduzioni difensive contrapposte alla prova del ruolo endofamiliare svolto dalla controricorrente, sia in relazione alla autonomia assoluta di scelta del part time sia in relazione alle altre circostanze meramente dedotte riferite all'incremento di reddito, peraltro da ricomprendersi nella contrazione del quantum stabilita dal giudice di merito. In conclusione, il ricorrente, per un verso ha opposto alla valutazione dei fatti a fondamento della prova presuntiva una propria contrapposta ed inammissibile valutazione. Dall'altro non ha provato i fatti impeditivi che ha meramente dedotto, ritenendo, infondatamente che si dovesse ritenere onerata la controricorrente di provare anche la ragione soggettiva del part time e l'espresso riferimento ad un accordo preventivo familiare, laddove questi profili sono stati insindacabilmente ritenuti provati presuntivamente dal giudice del merito, sulla base della oggettiva fotografia della distribuzione dei ruoli familiari una volta trasferitosi per lavoro e per perseguire obiettivi di carriera il ricorrente. Infatti, il ricorrente ha contrapposto a tale motivazione, una diversa prospettazione dei fatti di causa chiedendo, sul presupposto di un'erronea prospettazione di una violazione di legge concernente la corretta applicazione di asserite presunzioni, un riesame della valutazione di merito, inammissibile in questa sede. Il terzo motivo è inammissibile. Com'è noto, la nuova formulazione dell'articolo 360 c.p.c. consente l'impugnazione ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c. per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e non più per omessa insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio . La norma si riferisce al mancato esame di un fatto decisivo, che è stato offerto al contraddittorio delle parti, inteso come fatto storico, accadimento naturalistico. Costituisce, pertanto, un fatto ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non una questione o un punto, ma un vero e proprio evento, un preciso accadimento, una determinata circostanza in senso storico-naturalistico, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 24035 del 03/10/2018; v. anche Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 13024 del 26/04/2022). Non integrano, viceversa, fatti, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex articolo 360, comma 1, n. 5, c.p.c., le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 2268 del 26/01/2022; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. 22397 del 06/09/2019; Cass., Sez. 2, Sentenza n. 14802 del 14/06/2017), né i singoli elementi di un accadimento complesso, comunque apprezzato, o le mere ipotesi alternative, e neppure le singole risultanze istruttorie, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27415 del 29/10/2018), o le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, oppure i motivi di appello (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 29952 del 13/10/2022). Nel caso di specie nessun fatto, inteso nel senso sopra evidenziato, risulta non essere stato esaminato. L'elemento dedotto dal ricorrente non riveste alcuna decisività giacchè la Corte di appello ha preso in esame la posizione economica della richiedente quale emergeva dalla dichiarazione dei redditi nel quale è riportata la retribuzione percepita in base alle ore lavorate. Il quarto motivo è inammissibile. In tema di impugnazioni, il potere del giudice d'appello di procedere d'ufficio ad un nuovo regolamento delle spese processuali, quale conseguenza della pronuncia di merito adottata, sussiste in caso di riforma in tutto o in parte della sentenza impugnata, in quanto il relativo onere deve essere attribuito e ripartito in relazione all'esito complessivo della lite, laddove, in caso di conferma della decisione impugnata la decisione sulle spese può essere dal giudice del gravame modificata soltanto se il relativo capo della decisione abbia costituito oggetto di specifico motivo d'impugnazione (tra le tante Cass. 27606/2019). Nella specie, stante la riforma della sentenza del Tribunale, correttamente la Corte di merito ha proceduto ad una nuova regolazione delle spese di lite anche del primo grado tenendo conto dell'esito complessivo della lite riconoscendo una compensazione in ragione di 1/3. È stato affermato che in materia di compensazione delle spese, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa (cfr. tra le più recenti, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. nn. 9014 e 3308 del 2023; Cass. n. 37825 del 2022; Cass. n. 10685 del 2019), altresì ricordandosi che è la statuizione di compensazione delle spese giudiziali che deve formare oggetto di adeguata motivazione, non la decisione del giudice di non procedere a compensazione, totale o anche soltanto parziale (cfr., Cass. n. 2984 del 2022; Cass. n. 26912 del 2020; Cass. nn. 11744 e 6756 del 2004; Cass. n. 10009 del 2003). In altri termini, la facoltà di disporre la compensazione tra le parti delle spese processuali rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l'eventualità di una compensazione, non può essere censurata in Cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (cfr. Cass. n. 11329 del 2019). Alla stregua delle considerazioni sopra esposte il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono il principio di soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge.