Stabilimento per la fabbricazione di prodotti chimici: niente licenziamento per la lavoratrice sorpresa a fumare

Vittoria piena per la dipendente, che ottiene non solo la reintegra ma anche un indennizzo economico pari a quasi 3mila euro. Accertato l’episodio, è esclusa, contrariamente a quanto sostenuto dall’azienda, l’ipotesi di un potenziale pericolo.

Scenario dell’episodio incriminato è una fabbrica dedicata alla realizzazione di prodotti chimici. A finire nei guai è una lavoratrice, beccata a fumare nonostante il divieto imposto dall’azienda e connaturato alla peculiarità dei materiali utilizzati per la produzione effettuata nello stabilimento. Per la società datrice di lavoro non ci sono dubbi: la condotta tenuta dalla dipendente va valutata come gravissima, a fronte del potenziale pericolo arrecato a sé stessa e agli altri lavoratori, e legittima, quindi, il licenziamento. Così, a metà agosto del 2020, la lavoratrice viene messa alla porta. A sorpresa, però, in appello, la visione prospettata dall’azienda viene respinta. Di conseguenza, viene annullato il licenziamento e la società datrice di lavoro viene condannata alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore di un’indennità risarcitoria pari a quasi 3mila euro. Allo stesso tempo, viene accertata anche l’illegittimità della sospensione cautelare disposta nei confronti della lavoratrice, che, perciò, si vede riconosciuto un risarcimento quantificato in poco più di 300 euro a fronte del danno economico patito. Per i giudici, accertato il comportamento tenuto dalla lavoratrice - la quale ha ammesso di avere fumato in azienda, nonostante lo specifico divieto -, a contare è il riferimento a uno specifico passaggio del contratto collettivo, laddove si ritiene legittimo il licenziamento a fronte di una infrazione gravemente colposa poiché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali. Ragionando in questa ottica, la lavoratrice ha fumato all’interno dei locali aziendali, ma non ha messo in pericolo, attraverso quell’attività vietata, la sicurezza di persone, impianti o materiali. Tirando le somme, contrariamente a quanto sostenuto dall’azienda, a fronte della condotta vietata dalla lavoratrice, non si è manifestato in concreto, secondo i giudici d’appello, alcun pericolo. Questa visione viene ritenuta corretta anche dai magistrati di Cassazione, i quali osservano che «i fatti materiali contestati non consistevano nella nuda circostanza di avere» la dipendente «fumato all’interno dei locali aziendali», in quanto «la datrice di lavoro esponeva, nella lettera di contestazione, precise circostanze di fatto, di tempo e di luogo indicative dell’assunta pericolosità in concreto della condotta addebitata alla lavoratrice». Non a caso, peraltro, il contratto collettivo di settore sancisce che «tra le infrazioni che possono determinare l’immediata rescissione del rapporto di lavoro» è inclusa «l’inosservanza del divieto di fumare» però «quando tale infrazione sia gravemente colposa perché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali». Ragionando in questa ottica, quindi, per poter esaminare l’ipotesi della giusta causa di licenziamento, vi è sempre la necessità di valutare le circostanze concrete che hanno caratterizzato il comportamento del lavoratore incolpato, cioè se vi sia rischio di incendio oppure l’esposizione a pericolo di persone e cose. E, sanciscono i magistrati di Cassazione, corretta è la valutazione compiuta in appello, essendosi escluso, a fronte di un ordinamento giuridico che tuttora non prevede un divieto generalizzato di fumare, che la condotta addebitata in fatto alla lavoratrice, condotta in sé incontestata, fosse tale da indurre pericolo in concreto, cioè suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali. Tirando le somme, esclusa la pericolosità potenziale della condotta tenuta dalla lavoratrice, è palesemente illegittimo il licenziamento deciso dall’azienda.

Presidente Doronzo – Relatore Caso Fatti di causa 1. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d'appello di Venezia, in accoglimento del primo motivo del reclamo proposto dalla (OMISSIS) s.p.a. contro la sentenza del Tribunale di Vicenza numero 174/2022 la quale aveva revocato l'ordinanza del medesimo Tribunale resa nella fase sommaria del procedimento ex lege numero 92/2012, dichiarava la nullità di detta sentenza e della sua successiva integrazione; nel merito, in accoglimento della domanda proposta da S.L., così provvedeva: a) annullava il licenziamento intimato in data (OMISSIS) a detta lavoratrice dalla società datrice di lavoro e condannava quest'ultima alla reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto, pari ad € 2.932,32 dal giorno del licenziamento sino a quello della retribuzione globale di fatto, oltre ad interessi e rivalutazione monetaria dalla data di maturazione al saldo; b) condannava altresì il datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento, fino a quello della effettiva reintegrazione; c) accertava l'illegittimità della sospensione cautelare disposta nei confronti della lavoratrice e condannava (OMISSIS) s.p.a. a corrispondere in suo favore la somma di € 305,37 a titolo di risarcimento del danno economico patito per l'effetto, oltre interessi e rivalutazione dalla data di maturazione dei titoli al saldo. 2. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, riferiti i motivi di reclamo della società, giudicava fondato il primo con il quale si deduceva la nullità della sentenza resa dal Tribunale in sede di opposizione. 3. La stessa Corte, nel ritenere fondata la domanda attorea e da accogliere per quanto di ragione in ordine all'illegittimità del licenziamento, rilevava che la contestazione disciplinare, contenendo l'espresso riferimento agli articolo 52 e 54 lett. c) (“quando tale infrazione sia gravemente colposa perché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali”) del CCNL Gomma e Plastica, è relativa non alla circostanza di aver fumato all'interno dei locali aziendali, ma a quella di aver messo in pericolo, attraverso quell'attività vietata, la sicurezza di persone, impianti o materiali; il che trovava conferma nella lettera di licenziamento. 3.1. Osservava, allora, la Corte che non era condivisibile l'ordinanza del sommario nella parte in cui aveva ritenuto di valutare la pericolosità della condotta ex post e in astratto. La condotta doveva essere qualificata secondo la previsione sanzionatoria sopra richiamata in ragione di un pericolo in concreto per mutuare la tradizionale classificazione penalistica dovendosi effettuare, pertanto, una valutazione ex ante e in concreto (c.d. prognosi postuma). 3.2. E in tale prospettiva considerava che sul punto il C.T.U. aveva condivisibilmente escluso la sussistenza di un pericolo. 4. Riteneva, quindi, che la condotta contestata non sussisteva, onde ne conseguiva il riconoscimento della c.d. tutela reale “debole” di cui al 4° comma dell'articolo 18 l. numero 300/1970, nei termini specificati in dispositivo, richiamando a riguardo una decisione di legittimità. 5. Avverso tale decisione la (OMISSIS) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 6. L'intimata ha resistito con controricorso. 7. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia ex articolo 360, comma 1, numero 3), c.p.c.: “Violazione e/o falsa applicazione dell'articolo 7 L. 300/70, dell'articolo 2 della L. numero 604/66 e degli articolo da 1362 a 1371 c.c.”. Deduce che la Corte d'appello, laddove <ha ritenuto di poter considerare il fatto contestato esclusivamente la condotta relativa “non alla circostanza di aver fumato all'interno dei locali aziendali, ma a quella di aver messo in pericolo, attraverso quell'attività vietata, la sicurezza di persone, impianti o materiali” ha patentemente violato e, comunque, fatto falsa applicazione> degli articoli in rubrica indicati. 2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia ex articolo 360, comma 1, numero 3), c.p.c.: “Violazione e/o falsa applicazione degli articolo 2375,2094,2104,2105,2106 e 2119 c.c., degli articolo 52,53 e 54 del CCNL Gomma Plastica, nonché degli articolo 19 e 20 del D.lgs. numero 81/2008 e dell'articolo 18, comma 4, L. 300/70”. Rileva che la Corte d'appello ha considerato che: “L'ipotesi normativa della “insussistenza del fatto contestato” comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”. E deduce che, “nel caso di specie, nessuno dei due requisiti risulta integrato”. Assume che la Corte d'appello ha fatto malgoverno dell'articolo 2735 c.c. laddove ha omesso di riconoscere la portata confessoria delle giustificazioni rese dalla lavoratrice, con cui ha: - ammesso di aver trasgredito il divieto di fumo; - ammesso di essere pienamente al corrente “che non si (poteva) fumare, oltretutto perché si lavorano prodotti ad alto grado alcolico”; - ammesso di aver compiuto una “mancanza disciplinare grave”. Sostiene, ancora, che le mancanze addebitate alla sig.ra S.L. si pongono in evidente violazione anche degli articolo 19 e 20 del d.lgs. numero 81/2008. 3. Con il terzo motivo denuncia ex articolo 360, comma 1, numero 5), c.p.c.: “omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, avendo la società avanzato critiche specifiche e circostanziate in relazione alle risultanze della CTU, rimaste prive di precisa risposta argomentativa nonché omesso esame di un fatto decisivo del giudizio per non avere la Corte in alcun modo valutato l'inserimento del bagno all'interno dell'area a rischio nel DVR allegato dalla società”. 4. Il primo motivo è infondato, presentando profili d'inammissibilità. 5. Come già accennato in narrativa, la valutazione del caso della Corte territoriale muoveva dal rilievo che: <La contestazione disciplinare contenendo l'espresso riferimento agli articolo 52 e 54 lett. c) (“quando tale infrazione sia gravemente colposa perché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti ai materiali”) del CCNL Gomma e Platica è relativa non alla circostanza di aver fumato all'interno dei locali aziendali, ma a quella di aver messo in pericolo, attraverso quell'attività vietata, la sicurezza di persone, impianti o materiali>, e che tanto trovava <conferma nella lettera di licenziamento ove si dà atto che “la gravità del Suo comportamento, gravemente colposo perché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali (fumava in bagno sito in Reparto Riempimento, che ricade nel campo di applicazione del D.lgs. 105/2015) ha fatto venir meno il rapporto fiduciario …”>. 6. Osserva allora il Collegio che la censura ora in esame è inammissibile per difetto di specificità nella parte in cui vi si lamenta globalmente ed indiscriminatamente la violazione o la falsa applicazione di tutti i criteri ermeneutici legali di cui agli articolo 1362-1371 c.c. (applicabili agli atti unilaterali come la contestazione disciplinare e l'atto di recesso solo per il tramite di cui all'articolo 1324 c.c. nei limiti di compatibilità), senza specificare anche nello svolgimento della doglianza quale di tali canoni sarebbe stato violato e perché. 7. La doglianza è, comunque, priva di fondamento perché la ricorrente non pone in dubbio che, prima, la contestazione disciplinare e, poi, la nota di licenziamento contenessero i passi che la Corte di merito ha richiamato nella sua motivazione. Anzi, per quanto riguarda la contestazione disciplinare, ne riporta in ricorso (a pag. 18) il testo integrale dal quale si trae conferma che in limine vi si faceva “particolare riferimento agli articolo 52 e 54 lettera c)” del “C.C.N.L. Gomma e Plastica applicato in Azienda”. Nel seguito del testo trascritto dalla stessa ricorrente si desume che alla lavoratrice era, tra l'altro, contestato in fatto che “in quel momento si stava svolgendo proprio vicino al bagno un'operazione di ripasso con svuotamento di liquido disinfettante per mani ad alto grado alcolico”. Analogamente, per quanto riguarda la lettera di licenziamento (a pag. 19 del ricorso), la ricorrente ne riporta l'intero contenuto testuale, compresa la parte trascritta dalla Corte d'appello, e nota questo Collegio che il passo anteriore a quello trascritto dalla Corte tornava a fare “particolare riferimento all'articolo 54 – 2 – lettera c) del vigente CCNL Industria Gomma e Plastica”. 8. Pertanto, non è assolutamente condivisibile l'assunto della ricorrente, secondo il quale “la Corte d'Appello avrebbe dovuto valutare – al netto degli articoli citati all'interno della lettera di contestazione – i fatti materiali ivi contestati (doc. 1 fasc. 1° fase), oggetto di espresso richiamo nella lettera di licenziamento” (così a pag. 18 del ricorso). 8.1. Invero, già i fatti materiali contestati non consistevano nella nuda “circostanza di aver fumato all'interno dei locali aziendali”, come esattamente considerato dai giudici del reclamo, in quanto la datrice di lavoro nella lettera di contestazione esponeva precise circostanze di fatto, di tempo e di luogo indicative dell'assunta pericolosità in concreto della condotta addebitata alla lavoratrice. E nello stesso senso, ovviamente, depone il precipuo richiamo in essa (replicato nella nota di licenziamento) all'articolo 54, comma 2, lett. c), del CCNL di settore, che, tra le “infrazioni”, che possono determinare l' “immediata rescissione del rapporto” (cfr. comma 1 dell'articolo, rubricato “Licenziamento per mancanze”), contempla l' “inosservanza del divieto di fumare quando tale infrazione sia gravemente colposa perché suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali”; e, come si è visto, per l'appunto quest'ultima parte del disposto contrattuale collettivo veniva ripresa nella lettera di licenziamento. 9. Si osserva, inoltre, che la giurisprudenza di questa Corte, anche risalente, quando ha affrontato casi nei quali venivano in considerazione norme collettive che in vario modo sanzionavano l'inosservanza del divieto di fumare o comunque precipui divieti a riguardo, hanno sempre sottolineato la necessità che il giudice di merito (in particolare per valutare la sussistenza della giusta causa di licenziamento quale nozione legale) valuti le circostanze concrete che hanno caratterizzato il comportamento del lavoratore incolpato (cfr. Cass., sez. lav., numero 12841/2020, cit. dalla Corte territoriale), o che vi sia rischio di incendio (Cass. numero 14481/2015, pure richiamata dalla stessa); oppure l'esposizione a pericolo di persone e cose (Cass. numero 7291/2004; numero 2465/1989 in caso analogo a quello che ci occupa; numero 6325/1979). 10. Pertanto, la valutazione del caso, da parte della Corte territoriale, da un lato, è del tutto aderente al tenore letterale anzitutto della contestazione disciplinare, e, dall'altro, è stata correttamente impostata - in un ordinamento giuridico che tuttora non prevede un divieto generalizzato di fumare - nel senso di verificare se la condotta addebitata in fatto alla lavoratrice, in sé incontestata, fosse tale da indurre pericolo in concreto, cioè “suscettibile di provocare incidenti alle persone, agli impianti, ai materiali”. 11. Anche il secondo motivo è in parte infondato e in parte inammissibile. 12. In particolare, non chiarisce la ricorrente perché reputi violati o falsamente applicati gli articolo 2104,2105,2106 c.c., gli articolo 52, 53 e 54 del CCNL; ma anche rispetto agli articolo 19 e 20 d.lgs. numero 81/2008, la ricorrente si limita a riportarne parzialmente il testo senza spiegare perché li ritenga violati (cfr. pagg. 21-22 del ricorso); il che induce l'inammissibilità della censura in parte qua. 13. Nel merito giuridico della doglianza, giova ricordare che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, anche di recente confermato, nella nozione di insussistenza del fatto contestato, di cui all'articolo 18, comma 4, l. numero 300/1979 novellato, sono comprese l'ipotesi di assenza ontologica del fatto e quella di fatto che, pur sussistente, sia tuttavia privo del carattere di illiceità (cfr. ex multis Cass. numero 18070/2023; numero 30543/2022; numero 3076/2020; numero 31529/2019; numero 12102/2018), oppure le ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore (Cass. numero 36729/2021; numero 12174/2019). 13.1. Ebbene, la Corte d'appello, dopo aver escluso in linea di fatto che il comportamento della lavoratrice avesse provocato una situazione di pericolo in concreto nei termini addebitati sulla base dell'accertamento tecnico operato dal consulente d'ufficio nominato in prime cure, ha fatto riferimento per l'appunto a tale orientamento di legittimità (v. tra la pag. 19 e la pag. 20 e la nota 2) in calce a quest'ultima), che contiene il passaggio motivazionale specificamente censurato dalla ricorrente. 14. La ricorrente, nell'ambito del secondo motivo, assume che la Corte d'appello avrebbe “fatto malgoverno dell'articolo 2735 c.c. laddove ha omesso di riconoscere la portata confessoria delle giustificazioni rese dalla Lavoratrice”, nei termini sopra riassunti e riportate in modo testuale alla fine dello svolgimento del primo motivo di ricorso (cfr. pag. 20 di tale atto). 14.1. La ricorrente non si confronta, però, con l'effettiva ratio decidendi della Corte territoriale. Invero, quest'ultima aveva dato conto che l'allora reclamante, nell'ambito del secondo motivo d'impugnazione, aveva tra l'altro dedotto che il giudice di primo grado “non ha considerato che i fatti contestati sono stati ammessi dalla lavoratrice in sede di giustificazioni” (v. § 3.2.1. a pag. 10). 14.2. Tuttavia, la Corte di merito, come si trae chiaramente dalla sua motivazione in fatto e in diritto, non ha assolutamente posto in discussione la materialità del fatto contestato, ma ne ha escluso l'illiceità, e quindi in questa chiave ha ritenuto “l'insussistenza del fatto contestato”. 15. Anche il terzo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. 16. In termini generali, giova premettere che, in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice ha ampio potere discrezionale: può infatti disporre l'eventuale rinnovazione delle indagini peritali, la sostituzione del consulente, la richiesta di chiarimenti sulla relazione già depositata, disporre un supplemento o un'integrazione delle indagini, la rinnovazione in toto o in parte delle attività peritali; e per tale ampia discrezionalità, che in particolare connota l'esercizio del potere del giudice di rinnovare la consulenza tecnica, non è esercitabile alcun sindacato in sede di legittimità (Cass. numero 24487/2019). Di recente, è stato considerato che l'articolo 195 c.p.c. prevede, all'ultimo comma, che il consulente tecnico d'ufficio deve trasmettere la sua relazione alle parti costituite nel termine stabilito dal giudice con ordinanza resa all'udienza in cui è intervenuto il conferimento dell'incarico e il relativo giuramento, che le parti possono trasmettere al consulente le proprie osservazioni sulla relazione entro l'apposito termine fissato dal giudice con la medesima ordinanza e che entro il successivo termine ivi fissato dal giudice il consulente deve depositare in cancelleria la relazione, le osservazioni delle parti e una sintetica valutazione sulle stesse. Pertanto, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito accogliere o rigettare l'istanza di riconvocazione del consulente d'ufficio per chiarimenti o per in supplemento di consulenza, cosicché non costituisce error in procedendo la decisione del giudice che ritenga di non dare corso all'appendice del procedimento consulenziale con la richiesta di chiarimenti (in tal senso Cass. numero 698/2023). 17. La ricorrente si riferisce al consolidato indirizzo di questa Corte, per il quale, se, in via generale, il giudice di merito che aderisce alle conclusioni del consulente tecnico esaurisce l'obbligo di motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento, non dovendo necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, ove, invece, le censure all'elaborato peritale si rivelino non solo puntuali e specifiche, ma evidenzino anche la totale assenza di giustificazioni delle conclusioni dell'elaborato, la sentenza che ometta di motivare la propria adesione acritica alle predette conclusioni risulta affetta da nullità (così, da ultimo, Cass. numero 15804/2024). 18. Ebbene, il motivo in esame si appalesa infondato proprio alla stregua di tale orientamento. 18.1. La ricorrente stessa, infatti, neppure deduce di aver formulato critiche puntuali e specifiche all'elaborato peritale, una volta depositato, oppure, in precedenza, nell'ambito del contraddittorio tecnico con il consulente ex articolo 195, comma terzo, c.p.c. novellato (né deduce attualmente, o di averlo fatto in sede di reclamo, la violazione di tale ultima norma). 18.2. Assume, piuttosto, che all'udienza del 4.2.2022 (innanzi al primo giudice), come risultava dal relativo verbale, il suo difensore aveva chiesto “che il ctu sia sentito a chiarimenti per la mancata considerazione dell'attività in corso al momento del fatto nei locali attigui al bagno, cioè il ripasso con svuotamento di liquidi disinfettanti con elevato grado alcolico” (così a pag. 23 del ricorso). 18.3. Ora, a prescindere dalla considerazione che la ricorrente neppure deduce in questa sede se o come il giudice dell'opposizione si fosse pronunciato su tale richiesta di chiarimenti, per quanto detto il non aver dato corso a quest'ultima non integra alcun error in procedendo deducibile nella presente sede di legittimità, stante l'ampia discrezionalità dei giudici di merito a riguardo. 18.4. Le critiche, poi, che la ricorrente attualmente rivolge al parere peritale (cfr. pagg. 24-26 del ricorso) non possono essere ovviamente prese in considerazione in questa sede di legittimità, non essendo stato dedotto, prima che dimostrato, che fossero state a tempo debito formulate durante i gradi di merito e in termini puntuali e specifici. 19. Nell'ambito del terzo motivo, inoltre, si sostiene in particolare l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio “per non avere la corte in alcun modo valutato l'inserimento del bagno all'interno dell'area a rischio nel dvr allegato dalla società”. Deduce in particolare la ricorrente che “la valutazione del rischio è stata condotta ex ante, sulla base di una relazione redatta da una società indipendente (doc. 12 fasc. 2° fase) ed è esitata nella inclusione del reparto riempimento – di cui il bagno fa parte – tra le aree a rischio incidente rilevante ai sensi del d.lgs. 105/2015, il che presuppone la necessità di un rispetto incondizionato ed assoluto del divieto di fumo”, e che “La ragione dell'inclusione del bagno all'interno dell'area RIR (doc. 15 e 16 fasc. 2° fase) risiede proprio nella sua vicinanza ai reparti di miscelazione e riempimento (vicinanza, peraltro, confermata anche dalla CTU)”. 19.1. Osserva il Collegio che il dedotto vizio non può reputarsi sussistente, perché l'inserimento del bagno nell'area a rischio, che si assume dimostrato dai richiamati documenti, non si può ritenere un fatto “decisivo”. Invero, la Corte territoriale, in base a puntuale e diffusa motivazione, a sua volta, resa sulla scorta di apposita C.T.U., comprensiva di sopralluogo del consulente, ha comunque escluso la sussistenza di un pericolo in concreto all'atto della condotta contestata (tra l'altro ponendo in luce che la lavoratrice in quel frangente si trovava all'interno del gabinetto con le porte in alluminio, ossia, in materiale ignifugo, sia del bagno che del gabinetto, entrambe chiuse, e che parte datoriale non aveva indicato all'interno del bagno prescrizioni e accorgimenti che riguardano gli ambienti con pericolo di esplosione (v. in extenso pagg. 18-19 della sentenza). 20. La ricorrente, in quanto soccombente, dev'essere condannata al pagamento, in favore dei difensori della controricorrente, dichiaratisi anticipatari, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, e distrae in favore dei difensori della controricorrente. Ai sensi del D.P.R. numero 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1 bis, se dovuto.