Nel contenzioso tributario, è costituzionalmente illegittimo il divieto assoluto di produzione di nuovi documenti in appello (non temperato dalla indispensabilità e dalla non imputabilità), di cui al comma 3 dell’articolo 58, d.lgs. numero 546/1992, come modificato dal d.lgs. numero 220/2023, ove investa le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.
I giudizi tributari a quo La decisione della Corte Costituzionale origina da due distinti contenziosi tributari, giunti in grado d'appello dinanzi alle Corti di giustizia tributaria, rispettivamente, della Campania e della Lombardia. Nel primo giudizio, promosso nei confronti dell'Agenzia delle entrate - Riscossione (qui di seguito “ADER”), un contribuente aveva dedotto l'omessa notificazione di sei cartelle di pagamento relative a vari tributi, alla base di un'intimazione di pagamento ricevuta dalla medesima Agenzia. Il ricorso veniva accolto solo parzialmente in primo grado. Nel giudizio di appello, incardinato il 30 gennaio 2024, l'ADER depositava documenti ulteriori rispetto a quelli prodotti in primo grado, intesi a dimostrare l'avvenuta notifica delle cartelle. L'appellante ne eccepiva l'irritualità ai sensi dell'articolo 58, comma 3, d.lgs. numero 546/1992, come introdotto dall'articolo 1, comma 1, lettera bb), d.lgs. numero 220/2023, secondo cui, nel giudizio di appello tributario: «[n]on è mai consentito il deposito delle deleghe, delle procure e degli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti, delle notifiche dell'atto impugnato ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità che possono essere prodotti in primo grado anche ai sensi dell'articolo 14 comma 6-bis». Nel secondo giudizio, un contribuente aveva invece impugnato con successo, nei confronti dell'ADER, una comunicazione preventiva di iscrizione ipotecaria, deducendo, tra l'altro, la mancata notificazione di cinque cartelle di pagamento richiamate nell'atto impugnato. Nel giudizio di appello, l'ADER produceva ex novo una serie di documenti già depositati in primo grado, tra cui le notificazioni delle cartelle esattoriali, di cui però il giudice di prime cure non aveva potuto tenere conto in ragione della costituzione tardiva, in quel giudizio, dell'Agenzia. Le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 58, comma 3, d.lgs. numero 546/1992 Nelle rispettive ordinanze di rimessione, le due Corti, previa censura dell'asserita violazione della legge delega e constatazione dell'impraticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata dell'articolo 58, comma 3, D.lgs. numero 546/1992 (come successivamente modificato), in ragione del suo inequivoco tenore letterale, individuavano una serie di parametri costituzionali asseritamente violati: a) l'articolo 3, comma 1 Cost., perché la norma, ponendo un divieto probatorio privo di una ratio coerente con un “criterio di razionalità pratica”, violerebbe i canoni dell'eguaglianza e della ragionevolezza e, in combinato disposto con il comma 1, rivelerebbe una “autoevidente contraddizione”; inoltre, applicandosi immediatamente ai giudizi di appello relativi a ordinanze di primo grado rese tuttavia in base alla disciplina previgente, inciderebbe in modo pregiudizievole, irreparabile e discriminatorio sulla scelta difensiva delle parti (prima loro consentita e ora loro preclusa), di rinviare il deposito di documenti al giudizio di appello; b) l'articolo 24, comma 2 Cost., per la lesione del diritto di difesa delle parti, inteso come diritto al giudizio e alla prova; c) l'articolo 111, comma 1 Cost., perché, escludendo perentoriamente la produzione in appello di determinate tipologie di documenti, impedirebbe al giudice di pervenire ad una decisione “possibilmente giusta”, attraverso la ricerca della “verità materiale”; d) l'articolo 111, comma 2 Cost., perché discriminerebbe tra la parte privata, autorizzata a produrre nuovi documenti, sia pure nei limiti stabiliti dai commi 1 e 2 dell'articolo 58, e parte pubblica, cui sarebbe precluso il deposito proprio degli atti che “rendono legittima la pretesa tributaria”; e) l'articolo 102, comma 1 Cost., per l'illegittima intromissione del legislatore in un ambito (la valutazione della indispensabilità delle prove) riservato ai giudici. La decisione della Corte Costituzionale La Corte, dopo aver disposto la riunione della trattazione delle due ordinanze di rimessione, ai fini di una loro decisione congiunta, rigettava, in via preliminare, le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei Ministri, intervenuto in entrambi i giudizi e relative, rispettivamente: all'erronea indicazione della norma ritenuta costituzionalmente illegittima, all'inesatta indicazione del precetto costituzionale rilevante per la censura di eccesso di delega e alla praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata. Nel merito, osserva la Corte che la formulazione del comma 3 dell'articolo 58 del d.lgs. numero 546/1992, con l'espressa indicazione delle ipotesi escluse dall'ambito applicativo della regola generale e la perentorietà del tenore letterale del divieto, ne impedisce una lettura costituzionalmente orientata, che consenta, cioè, di riferire la valutazione di indispensabilità di cui al comma 1 (principio portante del sistema delle prove nel processo tributario) anche ai documenti menzionati dal comma 3. Tuttavia, le deleghe, le procure e gli altri atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti non possono essere ricondotti alla categoria dei “temi di prova”, come tali soggetti alle ordinarie preclusioni istruttorie, perché non attengono al merito della causa, ma alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e, quindi, alla regolare costituzione del rapporto processuale. Il divieto assoluto, senza temperamenti, della loro produzione, oltre a non trovare appiglio alcuno in loro caratteristiche oggettive – strutturali, effettuali o funzionali –, altera la parità delle armi e comprime ingiustificabilmente il diritto alla prova quale nucleo essenziale del diritto di difesa ex articolo 24 Cost. e del contraddittorio (Corte Cost., sent. nnumero 41/2024, 275/1990 e 205/1997). In ragione, dunque, della manifesta irragionevolezza dell'opzione del legislatore, risulta fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 58, comma 3, nella parte in cui vieta il deposito, per la prima volta nel grado di appello, dei documenti summenzionati. Il divieto di produzione in appello delle notifiche dell'atto impugnato, ovvero degli atti che ne costituiscono presupposto di legittimità, non sarebbe invece né irragionevole, né contrario ai parametri costituzionali evocati dalle Corti rimettenti (diritto alla prova, violazione del principio di eguaglianza e di parità delle armi, principio del contraddittorio). In ragione della duplice natura della notificazione come condizione di efficacia degli atti impositivi (che hanno carattere recettizio), senza tuttavia incidere sulla loro validità (Cass., ord. numero 21071/2018) e, al contempo, requisito di validità dell'atto consequenziale (Cass. S.U., sent. numero 5791/2008; Cass., ord. numero 1144/2018), la dimostrazione, o meno, della notificazione contestata definisce il giudizio, perché «o la notifica esiste, oppure la stessa pretesa è da ritenersi inefficace ab origine e quindi non può essere fatta valere». Con il divieto di cui al comma 3, dunque, il legislatore ha inteso evitare che l'appello venga promosso al solo fine di effettuare un deposito documentale, omesso in prime cure, che sarebbe da solo sufficiente per la definizione del giudizio. La Corte costituzionale ha ritenuto altresì fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 4, comma 2, d.lgs. numero 220/2023, là dove dispone l'immediata applicabilità delle nuove regole sulle prove in appello ai processi di secondo grado incardinati a far data dal giorno successivo all'entrata in vigore del decreto, anziché a quelli il cui primo grado sia instaurato successivamente a detta entrata in vigore . L'attuale formulazione della norma incide, infatti, sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso, operando dunque una sorta di retroattività impropria, con vulnus alla prevedibilità delle regole processuali e dell'affidamento delle parti sulla tutela di posizioni legittimamente acquisite (v. Cass., sent. numero 70 e numero 4/2024, numero 210/2021). Portata della decisione L'arresto della Corte Costituzionale traccia una netta distinzione, quanto al regime applicabile ai nova in appello, tra documenti che attengono alla legittimazione processuale o alla rappresentanza tecnica e documenti idonei, da soli, a definire il giudizio, riservando al divieto assoluto (non temperato dai casi di indispensabilità e non imputabilità) del deposito tardivo solo dei primi la scure della sanzione di incostituzionalità. Al di là degli utili chiarimenti sulla distinzione in tema di natura ed effetti dei documenti cumulativamente ricompresi dall'articolo 58, comma 3 e del contributo su ulteriori declinazioni di alcuni principi costituzionali fondamentali, la decisione non dovrebbe avere alcuna ricaduta sulla disciplina dei nova in appello disciplinato dal codice di rito, in ragione della non assimilabilità dei due contesti giudiziali. È bensì vero che l'originaria disciplina dei nova istruttori nell'appello tributario rinveniva il suo immediato referente nell'articolo 345 c.p.c. (come modificato dalla l. numero 353/1990), di cui riportava pedissequamente il contenuto. Dal coevo modello codicistico, tuttavia, l'articolo 58 già in origine si discostava per la previsione espressa della facoltà, per le parti, di produrre sempre in appello nuovi documenti (a prescindere dalla ricorrenza di una delle condizioni richieste dal comma 1 per l'introduzione degli altri mezzi di prova); facoltà interpretata dalla giurisprudenza di legittimità con particolare ampiezza (che, nello specifico, aveva confermato la producibilità in appello di entrambe le tipologie di prove documentali al centro dell'odierna pronuncia della Consulta: v. Cass., sent. numero 19190/2019; ord. numero 14567/2021). L'unico limite era rappresentato dall'essere quei documenti diretti a dimostrare la fondatezza delle domande e delle eccezioni precluse dall'articolo 57 del d.lgs. numero 546 del 1992: v., ex multis, Cass., sent. numero 17638/2024; ord. numero 27741/2024). Il divario tra i due sistemi è nel frattempo tempo aumentato, in ragione della successiva riscrittura della disposizione del codice di rito in senso sempre più restrittivo, che ha reso ancora più marcata la configurazione del giudizio di appello quale revisio prioris instantiae, piuttosto che come novum iudicium. Il riferimento è, nello specifico, all'articolo 46, comma 18, l. numero 69/2009, che ha aggiunto l'espresso divieto di produzione di nuovi documenti in appello e all'articolo 54, comma 1, lett. b), d.l. numero 83/2012, poi convertito in legge, che ha eliminato la possibilità di svolgere attività istruttoria in secondo grado in ragione della indispensabilità del mezzo probatorio.