Il figlio del de cuius nato fuori dal matrimonio, per interrompere l’usucapione dei beni ereditari, non può, o meglio, non deve attendere il passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione [...].
[...] Infatti, ai fini dell’idoneità dell’atto interruttivo del possesso ad usucapione di un bene ereditario, non si richiede l’avvenuto acquisto della qualità di erede da parte del figlio, essendo sufficiente invece l’interesse alla conservazione del patrimonio ereditario; interesse che, sussiste già a partire dalla morte del genitore e che giustificano azioni cautelari e conservative. La vicenda è alquanto complessa e relativa alla domanda di revocazione di testamento, di petizione e di indebito arricchimento promosse in due distinti ricorsi, poi riassunti, dall'erede legittimo, istituito a seguito della dichiarazione di paternità, nei confronti degli eredi legittimi dell'erede testamentario vero dell'erede apparente. I convenuti resistevano in giudizio eccependo anzitutto l'avvenuto usucapione dei beni oggetto della domanda di ripetizione e la salvezza del diritto del terzo acquirente anche se avvenuto a titolo gratuito. Infatti, i beni contesi erano stati precedentemente oggetto di una convenzione matrimoniale all'interno della quale erano confluiti più beni ricevuti da uno dei coniugi per successione da un erede apparente. Fatte le brevissime premesse, con riferimento alla possibilità di interrompere il possesso ad usucapionem , la Corte di Cassazione ha stabilito che il figlio del de cuius nato fuori dal matrimonio, già riconoscibile secondo la legge vigente del tempo (ovvero all'indomani della riforma del diritto di famiglia) e di apertura della successione, ha il potere di interrompere l'usucapione dei beni ereditari, senza dover attendere il passaggio in giudicato della sentenza che accerta la affiliazione. Infatti, ai fini dell'idoneità dell'atto interruttivo del possesso ad usucapione di un bene ereditario, non si chiede, secondo l'attuale pronuncia della Cassazione, l'avvenuto acquisto della qualità di erede da parte del figlio, essendo invece sufficiente l'interesse alla conservazione del patrimonio ereditario; interesse che sussiste già a partire dalla morte del genitore. In altre parole, il figlio di naturale, considerata l'efficacia dichiarativa retroattiva della pronuncia, ha la possibilità di disporre dei propri diritti prima del definitivo accertamento della filiazione e ciò comprende, logicamente, anche il potere di interrompere la prescrizione, acquisitiva o estintiva, dei diritti ereditari, essendo sufficiente in tali ipotesi l'interesse alla conservazione del patrimonio ereditario che certamente sussiste nel caso del figlio naturale già a partire dalla morte del genitore. Definito il tema del decorso del termine di prescrizione per il possesso ad usucapionem, la Suprema Corte ha, poi, precisato con riferimento agli atri motivi di ricorso, e in specie all'azione di petizione ereditaria, che alla fattispecie analizzata era applicabile l'articolo 2038 c.c. trattandosi, nel caso di specie, di un atto di alienazione a titolo gratuito. Infatti, i coniugi, di cui uno era l'erede apparente, uniti in matrimonio prima dell'entrata in vigore della l.n. 151/1975, avevano con apposita convenzione stipulata ai sensi dell'articolo 228, c.2, l. n. 151/1975, deciso di ricomprendere nella comunione legale i beni personali ricevuti in eredità, stipulando così un atto che è comunque valido in quanto manifestava la volontà di dare vita ad una comunione convenzionale. Precisato ciò, la Corte ha, quindi, stabilito che laddove nella comunione convenzionale siano inclusi uno più beni ricevuti da uno dei coniugi per successione da un erede apparente, nei rapporti con l'erede vero, l'atto deve ritenersi a titolo gratuito, con conseguente applicabilità dell'articolo 2038 c.c. Alla luce di quanto sopra, la Cassazione ha quindi definitivamente statuito che, nell'ipotesi di alienazione a titolo gratuito di beni ereditari da parte del possessore, essendo applicabile l'articolo 2038 c.c., l'erede vero si potrà rivolgere al terzo acquirente solo nel limite del suo arricchimento, ferma la preventiva escussione dell'alienante nella sola ipotesi di malafede. Conclude sancendo, inoltre, che, l'obbligazione del terzo acquirente, nel concorso dei presupposti che ne giustificano l'insorgenza, è trasmissibile mortis causa, senza che occorra la prova di un vantaggio personale realizzato da eredi.
Presidente Manna - Relatore Tedesco Fatti di causa 1. - Li.An., dopo avere ottenuto con sentenza del 2012, l'accertamento della propria qualità di figlio di Sa.Ni. fu Be., deceduto a P il (Omissis), ha chiamato in giudizio, dinanzi al Tribunale di Venezia, Sa.Al., Sa.Ni., Sa.An. e Sa.St., eredi di Sa.Gi. e Vi.Ga. Ha precisato che Sa.Gi. era erede testamentario di Sa.Li., sorella del genitore naturale e istituita unica erede nel testamento di lui pubblicato il 10.4.1948. L'accertamento del rapporto di filiazione importava la revocazione del testamento, con il quale il genitore aveva istituito Sa.Li., e l'apertura della successione legittima in favore dei Li. quale unico erede ab intestato. Il giudizio fu iscritto al n. R.G. 315/2013 e la questione della revocazione del testamento, oggetto di sentenza non definitiva del Tribunale n. 1533/2016, è stata diversamente risolta dai giudici di merito: la revocazione del testamento, riconosciuta in primo grado con la menzionata sentenza, fu poi negata in appello con sentenza n. 504 del 2018, con la quale la Corte veneziana ha parzialmente annullato la decisione di primo grado. La domanda di revocazione del testamento di Sa.Ni. fu Be. è stata infine definita in sede di rinvio dalla Corte d'Appello di Venezia con sentenza n. 2991/2021 del 3 dicembre 2021. Tale sentenza ha riconosciuto l'esistenza dei presupposti della revocazione, in applicazione del principio di diritto stabilito da Cass. n. 13680/2019. In base al principio di diritto somministrato dalla Suprema corte al giudice di rinvio, la norma dell'articolo 687 c.c. è applicabile anche là dove l'accertamento giudiziale della filiazione sia stato compiuto nei confronti di un soggetto che abbia testato nella consapevolezza di avere già un figlio, riconoscendo il fondamento oggettivo dell'articolo 687 c.c. In applicazione di tale principio, il giudice di rinvio, una volta dichiarata la revocazione, ex articolo 687 c.c., del testamento del Sa.Ni. fu Be. e la conseguente apertura della successione legittima, accertava e dichiarava che Li.An., quale unico erede ex lege del Sa.Ni. fu Be., era il legittimo proprietario dei beni censiti al Catasto urbano del Comune di Venezia al foglio (Omissis), particella n. (Omissis) sub (Omissis) e al foglio (Omissis), particella n. (Omissis) sub (Omissis). La Corte d'Appello ha negato qualsiasi rilevanza al fatto che l'azione per la revocazione del testamento era stata proposta solo nel 2012, nonostante l'attore avesse consapevolezza della paternità fin dal 1954, allorché aveva proposto ricorso ai sensi dell'articolo 274 c.c., poi non coltivato. Al rilievo degli appellanti, secondo cui una inerzia protratta per un tempo così lungo evidenziava la volontà del figlio di non venire alla successione paterna, la Corte di merito ha replicato che, prima dell'accoglimento della domanda di dichiarazione giudiziale della paternità, il Li.An. non avrebbe potuto svolgere alcuna azione per far valere i propri diritti successori. La corte di merito ha altresì negato che i fratelli Sa.St. potessero aspirare a far salvo il loro acquisto ai sensi dell'articolo 534, commi 2 e 3, c.c. o ai sensi dell'articolo 2652 n. 7 c.c., mancando, nei vari passaggi, un trasferimento a titolo oneroso: il che, secondo la corte di rinvio, rendeva incondizionatamente fondata la pretesa rivolta dall'erede nei loro confronti, legittimati passivi rispetto alla petizione in quanto aventi causa da chi ha posseduto a titolo di erede. Secondo il giudice di rinvio tale conclusione operava per la totalità dei beni, compresa la quota di 1/2 loro donata dalla loro madre, coniuge di Sa.Gi. In relazione a questo aspetto, la Corte veneta richiamava l'atto con il quale Sa.Gi. (erede testamentario dell'erede in base al testamento revocato) e il coniuge di lui Vi.Ga. avevano conferito in comunione i loro interi patrimoni ai sensi dell'articolo 228 della legge 151 del 1975. La Corte, esaminato tale atto, lo riteneva irrilevante, in quanto inidoneo, proprio perché concluso ai sensi della norma transitoria sopra richiamata, a estendere il regime della comunione legale ai beni non destinati a farne parte ai sensi dell'articolo 179 c.c. La Corte d'Appello negava infine la sussistenza, in favore dei fratelli Sa.St., dei presupposti per l'usucapione dei beni oggetto della domanda di petizione svolta dal Li.An. Al riguardo richiamava precedenti di legittimità in base ai quali non si poteva configurare possesso utile per l'usucapione fino quanto il titolare effettivo, nella specie il Li.An., non avesse avuto la possibilità giuridica di interromperlo, ciò che nella specie era avvenuto solo in concomitanza del passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato la paternità naturale. Prima del passaggio in giudicato della sentenza che aveva dichiarato la paternità naturale, il Li.An. non avrebbe potuto svolgere alcuna azione per il recupero dei beni ereditari. Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione i fratelli Sa.St., sulla base di tre motivi. Gli eredi di Li.An. hanno resistito con controricorso. Il Procuratore Generale, nelle proprie conclusioni scritte, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie. 2. - Immediatamente dopo la pronunzia della sentenza in sede di rinvio (v. supra), oggetto del ricorso iscritto al n. 3039 del 2022, è giunto a conclusione il giudizio iscritto al n. 315/2013, rimasto ancora pendente all'esito della pronuncia della sentenza non definitiva n. 1533/2016. Esso è stato definito dal Tribunale di Venezia, con sentenza n. 2428/2021 del 28 dicembre 2021, la quale ha rigettato le ulteriori domande all'epoca formulate dal Li.An. ed aventi ad oggetto la richiesta di condanna degli eredi Sa.St. alla restituzione dei prezzi riscossi per gli immobili medio tempore alienati a terzi dai possessori loro danti causa, mentre ha accolto solo in parte la domanda di restituzione dei canoni percepiti in forza della locazione dei due immobili rispetto ai quali era stata accertata la proprietà del Li.An., riconoscendoli solo per l'immobile censito alla particella n. (Omissis) sub (Omissis), non anche per l'immobile censito alla medesima particella al sub (Omissis). La sentenza di primo grado n. 2428 del 2021 è stata confermata dalla Corte d'Appello di Venezia con sentenza n. 1416/2023 del 29 giugno 2023. Tale sentenza ha rigettato sia l'appello principale proposto dai fratelli Sa.St., sia l'appello incidentale degli eredi di Li.An. Contro tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli eredi di Li.An. sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria. I fratelli Sa.St. hanno resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale sulla base di cinque motivi e depositando anche la memoria. Il Procuratore Generale, nelle proprie conclusioni scritte, conclude per l'accoglimento del solo quarto motivo del ricorso incidentale ed il rigetto del ricorso principale e delle restanti censure di quello incidentale. Ragioni della decisione In primo luogo, va disposta la riunione dei due ricorsi, proposti, il primo, contro la sentenza che ha deciso, in sede di rinvio, sull'appello della sentenza non definitiva del Tribunale sulla istanza di revocazione del testamento e sulla proprietà dei due beni ereditari, il secondo, contro la sentenza che ha definito le ulteriori domande dell'erede ab intestato a seguito della revocazione. A. - Ricorso n. 3039/2022. 1. - Il primo motivo denunzia, in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione dell'articolo 687 c.c. La Corte d'Appello, nella parte in cui ha perentoriamente riconosciuto che il Li.An. non avrebbe potuto agire per la revocazione del testamento prima del passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa della paternità naturale, avrebbe male interpretato quanto dispone il terzo comma dell'articolo 687 c.c., in base al quale è consentito al figlio naturale di manifestare, a partire dalla morte del genitore, l'intento di non voler venire alla successione. Il secondo motivo denunzia, in relazione all'articolo 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione degli articolo 2652 n. 7 e 534 c.c. La Corte di merito, con riferimento agli atti di donazione della metà indivisa degli immobili ereditari da parte della loro madre, avrebbe dovuto sancire, nei limiti di tale quota, la salvezza del diritto dei ricorrenti, che hanno trascritto il loro acquisto ventisei anni prima della trascrizione della domanda giudiziale. Invero, la norma dell'articolo 2652 n. 7, c.c., sancisce la salvezza del diritto del terzo acquirente anche se a titolo gratuito. Il terzo motivo denunzia violazione degli articolo 2935,2934 e 533 c.c. La Corte veneta non ha considerato che il Li.An., in quanto annoverato fra gli eredi legittimi già in forza della disciplina applicabile all'apertura della successione, non si trovava nell'impossibilità giuridico di far valere i propri diritti. Nessun impedimento normativo gli impediva di proporre tempestivamente l'azione per il riconoscimento della paternità, ciò che gli avrebbe consentito di agire in tempo utile per interrompere il possesso utile per l'usucapione dell'erede apparente e dei suoi aventi causa. 2. - Il primo motivo è infondato. È stato ammesso che la dichiarazione giudiziale di paternità dia luogo alla revocazione del testamento per sopravvenienza di figli. La revocazione per sopravvenienza di figli costituisce un'ipotesi di caducità legale della disposizione testamentaria (revoca legale o di diritto). Secondo la regola generale, per stabilire se la caducità si verifichi bisogna attendere che i figli (o discendenti) vengano alla successione; e, in caso negativo, che non si faccia luogo a rappresentazione. Se i figli non vengano alla successione e non si faccia luogo a rappresentazione, la caducità non opera. In questo caso, infatti, viene a mancare lo scopo per cui la revoca è stabilita, quello cioè di far pervenire i beni del testatore ai figli o ai discendenti sopravvenuti. Va da sé che la dichiarazione giudiziale di paternità, qualora intervenuta dopo la morte del genitore, non comporta di per sé l'acquisto della qualità di erede, ma, così come avviene nell'ipotesi del riconoscimento, fa sorgere il diritto del figlio di venire all'eredità come erede ab intestato, diritto prima di allora inesistente. Infatti, la vocazione legale dei figli naturali (oggi figli nati fuori da matrimonio) presuppone che la filiazione sia riconosciuta o giudizialmente dichiarata (articolo 573 c.c.) Il figlio ha diritto di venire all'eredità non solo se la successione del genitore si apre durante il giudizio per l'accertamento della filiazione, ma anche se la sentenza sia pronunziata in accoglimento di una domanda proposta, dopo la morte del genitore, contro i suoi eredi ai sensi dell'articolo 276 c.c.; e dalla data del passaggio in giudicato decorre il termine di prescrizione del diritto di accettare l'eredità. Se il diritto di accettare l'eredità sorge a seguito del passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la filiazione; e se il termine di prescrizione decorre dal passaggio in giudicato della stessa sentenza, non è revocabile in dubbio che, prima del passaggio in giudicato, non è configurabile, in danno del figlio poi giudizialmente riconosciuto, alcuna inerzia rilevante nel far valere la propria qualità di erede in conseguenza del venir meno dell'istituzione testamentaria. In effetti i ricorrenti pongono un problema diverso, non quello della possibilità del figlio di agire per far valere la qualità di erede legittimo prima del passaggio in giudicato della sentenza di dichiarazione giudiziale della paternità, ma piuttosto se il figlio possa efficacemente manifestare l'intento di non venire alla successione prima del definitivo accertamento dello status. Essi richiamano, per suffragare tale possibilità, la pronunzia di Cass. 5037 del 2011, con la quale è stata riconosciuta la validità di una convenzione con la quale il figlio naturale, prima del passaggio in giudicato della sentenza di dichiarazione della paternità, aveva rinunziato dietro corrispettivo, nei confronti dei beneficiari delle disposizioni testamentarie, in ipotesi oggetto di revoca ai sensi dell'articolo 678 c.c., a tutti i diritti di natura patrimoniale (ivi compresi quelli successori) derivanti dal suo preteso stato di figlio naturale del testatore. La soluzione di Cass. n. 5037/2011, fondata sul rilievo che la sentenza di accertamento della filiazione conferisce al figlio uno status con efficacia retroattiva fin dalla nascita (Cass. n. 23596/2006; n. 26575/2007), è certamente da condividere; tuttavia, il richiamo di giurisprudenza non apporta argomento alla tesi dei ricorrenti. Essi, infatti, richiamano il principio in astratto, senza indicare il fatto in ipotesi integrativo della rinunzia, che è identificato in ultima analisi con il mero decorso del tempo. Si sottolinea che il Li.An. aveva proposto il ricorso per la dichiarazione giudiziale di paternità già nel 1957, ma il medesimo non fu poi coltivato, per essere poi proposto nuovamente molti anni dopo. Ma in questi termini il ragionamento finisce per sostenere l'esistenza di un onere del figlio di attivarsi tempestivamente, laddove l'azione giudiziale per il riconoscimento della paternità è imprescrittibile. In presenza di un'azione non soggetta a prescrizione, il ritardo nel suo proponimento, di per sé, non può valere quale rinunzia al diritto successorio derivante dallo status; il che, però, non significa che l'erede possa in ogni caso recuperare l'intero patrimonio ereditario; egli conserva soltanto quei diritti reali che non siano, da terzi o dall'erede apparente, legittimamente acquistati sui beni del de cuius e quei diritti di credito che non si trovino estinti. L'imprescrittibilità della petizione di eredità, sancita dall'articolo 533 c.c., non altera l'ordinario regime di prescrizione dei singoli diritti compresi nell'asse ereditario (Cass. n. 22100/2015). 3. - È prioritario l'esame del terzo motivo del ricorso, che è fondato e il suo accoglimento comporta l'assorbimento del secondo motivo del ricorso. La Corte d'Appello richiama innanzitutto Cass. n. 11203 del 1995: L'azione di riduzione può essere esercitata soltanto al momento dell'apertura della successione, allorquando si può valutare la sussistenza della lesione della legittima e far valere il relativo diritto. È, pertanto, solo da quello stesso momento che il possesso per l'usucapione incomincia a decorrere contro il legittimario che agisce in riduzione . In quel caso, la fattispecie esaminata dalla Corte riguardava l'azione di riduzione in riferimento a beni alienati in vita dal de cuius. La sentenza fece applicazione del principio, già affermato da Cass. n. 10333/1993, secondo cui l'azione di riduzione, dunque, come non mira a recuperare i beni usciti dal patrimonio del de cuius in quanto tali, non contesta il diritto di proprietà dei beneficiari, né la legittimità del titolo del loro diritto, che anzi presuppone; per contro, ha per obiettivo il ripristino di una situazione patrimoniale compatibile con i diritti dei riservatari, tramite il conseguimento del valore dei diritti suddetti. In questo contesto, l'azione non può essere paralizzata dalla eccezione di usucapione ventennale per due ragioni: perché tale eccezione avrebbe la sola funzione di ribadire l'esistenza del dominio, che è il presupposto stesso dell'azione, e perché la domanda di riduzione non è diretta a rivendicare lo specifico bene uscito dal patrimonio del defunto e che si pretende usucapito, ma a far valere sul valore del bene le ragioni successorie spettanti al legittimario... . Nel caso in esame, non fu esperita l'azione di riduzione, ma l'azione di petizione ereditaria contro il possessore dei beni ereditari. Il richiamo, pertanto, è privo di reale attinenza con la vicenda oggetto di causa. 4. - Una ricostruzione più complessa deve farsi con riferimento all'ulteriore richiamo operato dalla sentenza impugnata, che riguarda Cass. n. 2424/2011, la quale a sua volta ha fatto applicazione del principio di Cass. 11024 del 1991. Occorre iniziare l'analisi proprio da tale ultima pronunzia. Nel 1977 l'attrice, affermatasi figlia naturale di una certa persona che aveva disposto della totalità delle proprie sostanze con testamento, chiamò in giudizio l'erede universale, chiedendo che venisse accertata la filiazione naturale e il proprio diritto al conseguente trattamento successorio. Il Tribunale accoglieva la domanda relativa alla dichiarazione di paternità naturale e rigettava quella relativa ai diritti successori. La Corte di appello di Roma confermava la decisione di primo grado. L'originaria attrice proponeva ricorso per cassazione, che veniva accolto da questa S.C. con sentenza n. 3709 del 26 giugno 1984, la quale affermava il principio secondo il quale la dichiarazione giudiziale di paternità naturale ottenuta dopo il 20 settembre 1975 (data di entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia) da un figlio adulterino concepito o nato prima di tale data, dà diritto di partecipare alla successione del genitore apertasi prima di tale data, secondo le norme regolanti i diritti successori dei figli naturali riconosciuti o dichiarati vigenti all'epoca dell'apertura della successione. L'attrice provvedeva alla riassunzione del giudizio davanti alla Corte di appello indicata come giudice di rinvio, che riconosceva alla figlia naturale il diritto ad un terzo della eredità del genitore, riducendo le disposizioni in favore dell'erede istituito. Con riferimento all'eccezione di usucapione sollevata dall'erede testamentario, i giudici di rinvio la ritennero proponibile in linea di principio, ma inammissibile in concreto, in quanto formulata con riferimento ai beni ereditari , senza specificare quali fossero i beni della eredità oggetto della stessa eccezione. La Corte di cassazione propose riflessioni di carattere generale sulla possibilità, ammessa da una parte della dottrina, di usucapire contro il proprio dante causa nella ipotesi in cui il titolo di acquisto venga meno con effetto ex tunc. Tale tesi, però, secondo la corte di legittimità, non avrebbe potuto essere invocata con riferimento alla ipotesi oggetto del giudizio. L'erede nei confronti del quale venga esperita l'azione basata sull'articolo 230 della legge 19 maggio 1975 n. 151, infatti, non vede venir meno il suo titolo di acquisto, ma subisce una riduzione quantitativa di tale acquisto. Il possesso precedente all'esperimento di tale azione non può, pertanto, essere considerato come possesso utile ad usucapionem, non potendosi acquistare col decorso del tempo ciò di cui si è già proprietari. D'altra parte, il possesso ad usucapionem, come strumento per l'acquisto della proprietà, ha come suo tipico contrappeso la possibilità di interruzione da parte del vero proprietario. Non è giuridicamente configurabile un possesso ad usucapionem che non possa in qualsiasi momento essere interrotto. Con riferimento alla ipotesi contemplata dall'articolo 230 L. 19 maggio 1975 n. 151, aderendo alla impostazione della sentenza impugnata, l'erede avrebbe potuto avere già maturata la usucapione al momento della entrata in vigore della legge senza che il figlio naturale avesse mai avuto la possibilità di compiere atti interruttivi, non avendo egli alcun diritto da far valere in base alla disciplina previgente. Il che denota l'assurdità della tesi di principio che qui si discute . Sulla base di tali considerazioni, la Suprema corte rigettò il ricorso dell'erede testamentario, correggendo la motivazione della Corte d'Appello. Questa aveva ritenuto inammissibile l'eccezione di usucapione perché formulata genericamente, con ciò riconoscendo, a contrario, che, nel caso di specie, l'erede testamentario, in linea di principio, avrebbe potuto utilmente invocare gli effetti dell'usucapione nei confronti di chi aveva ottenuto l'accertamento della filiazione dopo l'apertura della successione. La Suprema corte ha invece ritenuto che, nella specie, l'eccezione di usucapione non fosse proponibile in termini assoluti, riconoscendo che l'erede testamentario, proprietario dei beni ereditari in forza del testamento, non vede il proprio titolo travolto a seguito dell'esperimento dell'azione prevista dall'articolo 230 della L. n. 151 del 1975, ma subisce solamente una riduzione quantitativa del proprio acquisto, mancando pertanto il presupposto del possesso utile ad usucapionem, non potendosi acquistare col decorso del tempo ciò di cui si è già proprietari. A un attento esame, l'ipotesi della riduzione solo quantitativa dell'acquisto , posta in luce della pronunzia, non è riferibile solo all'esperimento dell'azione di riduzione contro l'erede istituito, ma può ricorrere anche con riferimento alla petizione di eredità, qualora questa sia stata esercitata contro un erede apparente pro quota: è acquisito che la qualità di erede apparente non implica la rigida contrapposizione di un non-erede all'erede. Tralasciando altre ipotesi è certo che può assumere tale qualità il coerede, il quale apparisca erede per l'intero. Certamente più convincente è il rilievo che l'azione di riduzione, proposta contro disposizioni testamentarie a titolo universale, non ha per oggetto beni, ma una quota di eredità, che sarà poi concretata con la divisione ereditaria. Per quanto sia lungo il tempo durante il quale taluno abbia posseduto tutto o parte dei beni ereditari, non potrà mai vantare di avere acquisito la qualità di unico erede. Il problema dell'usucapione dei beni ereditari non riguarda l'azione di riduzione, ma semmai la susseguente divisione chiesta dal legittimario una volta ottenuta la qualità di erede. Certamente, con riferimento alla riduzione delle disposizioni testamentarie, il termine decennale di prescrizione dell'azione di riduzione rende il problema privo di rilevanza pratica. Tuttavia, qualora il titolo dello status di filiazione che attribuisce la qualità di legittimario (sentenza che dichiara la filiazione) sia costituito successivamente alla morte del de cuius, il termine di prescrizione dell'azione di riduzione dovrebbe farsi decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza, come il termine di accettazione dell'eredità. In questo caso il problema dell'usucapibilità dei singoli beni ereditari si pone. Cass. n. 11024 del 1991, dopo avere negato a priori l'usucapibilità dei beni, aggiunse la considerazione di principio che il possesso ad usucapionem, come strumento per l'acquisto della proprietà, ha come suo tipico contrappeso la possibilità di interruzione da parte del vero proprietario. Non è giuridicamente configurabile un possesso ad usucapionem che non possa in qualsiasi momento essere interrotto . Il rilievo è indubbiamente proposto in termini generali, ma la situazione che la corte di legittimità ritiene di comprendere nel suo ambito è quella del figlio adulterino prima dell'entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, il quale non avendo alcun diritto da far valere in base alla disciplina previgente , non aveva mai avuto la possibilità di compiere atti interruttivi . 5. - In Cass. 2424 del 2011, la vicenda condivide con quella decisa da Cass. 11024 del 1991 la situazione di partenza: figli adulterini, i quali avevano agito all'indomani della riforma del diritto di famiglia, chiedendo il riconoscimento della loro qualità di figli naturali del defunto e, conseguentemente, della loro qualità di eredi. Si trattava in quel caso di successione legittima e la domanda fu proposta nei confronti degli eredi e aventi causa del de cuius, deceduto il 16 novembre 1959. In primo grado, il Tribunale accolse la domanda, proposta con citazione dell'ottobre 1978 e dichiarò che gli istanti erano figli naturali del defunto, ma rigettò la domanda dei medesimi intesa ad ottenere l'accertamento della qualità di eredi legittimi del de cuius. Sul gravame dei soccombenti, la Corte d'appello, in parziale riforma della decisione di primo guado, riconobbe che la dichiarazione giudiziale di paternità naturale, ottenuta dai figli adulterini posteriormente all'entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, dà diritto a partecipare alla successione del genitore naturale apertasi prima di quella data. Proposto ricorso per cassazione, poiché la questione della retroattività della dichiarazione giudiziale anche agli effetti successori era stata risolta in modo difforme da due pronunce delle sezioni semplici, il ricorso è stato rimesso alle Sezioni unite, alle quali fu chiesto di stabilire se il figlio adulterino che abbia ottenuto dopo l'entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia (l. n. 151/75) in sede di dichiarazione giudiziale di paternità lo status di figlio naturale, abbia o meno il diritto di partecipare alla successione del genitore naturate apertasi prima di quella data (20 settembre 1975). Le Sezioni unite hanno adottato la soluzione favorevole alla retroattività dell'accertamento della filiazione anche agli effetti successori, per ragioni che non occorre qui ripercorrere. 6.- In forza di tale sentenza di legittimità, con atto di citazione del 9 febbraio 1987, i figli naturali iniziavano un giudizio per ottenere la condanna dei possessori alla restituzione dei beni lasciati dal de cuius. Si costituivano alcuni dei convenuti, insistendo per la declaratoria di avvenuto acquisto per usucapione della proprietà dei beni caduti nella successione. Il Tribunale riconosceva l'avvenuta usucapione, ma la Corte d'Appello andava in contrario avviso e accoglieva la domanda degli attori, riconoscendo l'inidoneità, agli effetti dell'usucapione, del possesso antecedente l'entrata in vigore della legge del 1975. Investita del ricorso proposto dai soccombenti, la Corte di cassazione ha confermato il rigetto della domanda di usucapione. Secondo la Corte di cassazione, il possesso ad usucapionem, concepito come strumento per l'acquisto della proprietà (nella sussistenza dei requisiti previsti dall'articolo 1158 c.c.), ha come suo tipico contrappeso la possibilità di interruzione da parte dell'effettivo proprietario, con la conseguenza che non si prospetta configurabile un possesso utile ai fini dell'usucapione che non possa in qualsiasi momento essere interrotto. Anche in Cass. n. 2424 del 2011, l'ipotesi di fatto considerata è pur sempre quella contemplata dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, articolo 230: nei confronti dei figli adulterini, il possesso dei beni ereditari, precedente l'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, non è utile per l'usucapione, non essendo i medesimi titolari di alcun diritto da far valere in base alla disciplina previgente . 7. - L'esame fin qui compiuto consente di affermare che, nei confronti di coloro che hanno acquistato il diritto di conseguire lo status solo con la riforma del 1975, il decorso del tempo precedente all'entrata in vigore della legge non ha alcun riflesso negativo sui diritti ereditari derivanti da successioni apertesi anteriormente. Non si rinviene, in tali pronunce, nessuna presa di posizione sulla posizione del successibile nel periodo compreso fra l'entrata in vigore della legge del 1975 e il concreto esercizio dei diritti sui singoli beni ereditari. Infatti, i riferimenti che emergono dalle sentenze rendono quel segmento temporale del tutto indifferente. Nell'uno e nell'altro caso l'azione del figlio fu esercitata ben prima che fosse decorso il decennio dall'entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia (e a fortiori il ventennio). Pertanto, i precedenti richiamati nella sentenza impugnata non sono immediatamente riferibili al caso in esame, nel quale il figlio non incontrava alcun impedimento nel far valere i propri diritti già secondo la disciplina vigente al tempo della morte, la quale già gli attribuiva la qualità del solo successibile ex lege (articolo 576 c.c. nel testo originario). La sentenza impugnata si potrebbe giustificare alla luce di quei precedenti a patto di ritenere che la situazione dei figli adulterini, prima del 1975, sia una esemplificazione di un principio più ampio, valevole anche nel caso in cui l'azione per reclamare lo status sia proponibile già a partire dall'apertura della successione. Fino a quando tale azione non sia stata sperimentata con successo, il figlio si troverebbe nell'impossibilità giuridica non solo di accettare l'eredità, ma anche di compiere atti interruttivi dell'usucapione dei beni ereditari, esattamente come il figlio adulterino prima del 1975; è nello stesso tempo chiaro che, se tale principio fosse realmente sussistente, le considerazioni fatte nei precedenti di legittimità, specificamente riferibili ai figli adulterini prima del 1975, perderebbero ogni rilievo pratico, costituendo un argomento di contorno rispetto a un principio che già li preservava dal rischio della prescrizione e dell'usucapione, che anche nei loro confronti poteva cominciare a decorrere solo dal passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione. 8. - Si impone a questo punto l'esame di Cass. 14917 del 2012. Nella vicenda, la Corte d'Appello aveva accolto la domanda di petizione, proposta dal figlio naturale dopo il definitivo accertamento dello status; coloro i quali apparivano eredi ab intestato in assenza di discendenti avevano eccepito sia la prescrizione del diritto di accettare l'eredità, sia l'usucapione dei beni ereditari. La Corte d'Appello ha ritenuto infondate ambedue le eccezioni. La Suprema corte ha rigettato il ricorso proposto dagli eredi apparenti. Cass. n. 14917 del 2012, in primo luogo, ha richiamato i precedenti di legittimità sopra esaminati; quindi, ha proseguito la propria analisi, richiamando il principio, affermato anche da Cass. 2326 del 1990, in base al quale per i figli naturali il termine di prescrizione del diritto di accettare l'eredità decorre solo dal passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della filiazione, trovandosi essi, fino a tale accertamento, nell'impossibilità giuridica e non di mero fatto di accettare l'eredità (v. articolo 480 c.c., come modificato dall'articolo 69 del D.Lgs. n. 154 del 2013). D'altra parte - sempre secondo Cass. 14917 del 2012 ora in esame - la vocazione legale dei figli naturale presuppone che la filiazione sia riconosciuta o giudizialmente accertata, trovandosi pertanto il figlio biologico, prima del passaggio in giudicato della sentenza sullo status, nell'impossibilità giuridica di esercitare l'azione di petizione. Conseguentemente, il possesso esercitato fino a questo momento dall'erede apparente non è utile per l'usucapione, in quanto il titolare non è nella condizione giuridica di compiere atti interruttivi. 9. - Si inserisce in questa ricostruzione, in apparenza logica e lineare, una prima obiezione, che deriva proprio da Cass. 2326 del 1990, le cui considerazioni hanno avuto un ruolo determinante sulla decisione di Cass. n. 14917 del 2012, che non ha avuto dubbi nel proporre soluzione identica sia per il decorso della prescrizione del diritto di accettare l'eredità, che non corre, per il figlio naturale, se non dal passaggio in giudicato che dichiara la filiazione, sia per la decorrenza del termine utile per l'usucapione in favore dei possessori dei beni ereditari. Anche questo termine non potrà che decorrere da quando la filiazione sia stata giudizialmente dichiarata: fino a tale momento, il figlio naturale non acquista le posizioni soggettive dipendenti dall'apertura della successione, fra le quali è inclusa quella che gli consentirebbe di compiere atti interruttivi dell'usucapione dei beni ereditari. In verità, nella vicenda di Cass. 2326 del 1990, i figli naturali avevano notificato una domanda giudiziale in pendenza del giudizio di accertamento dello status. La Corte di appello ha riconosciuto l'idoneità di tale domanda ad interrompere il corso dell'usucapione. Tale affermazione fu censurata in sede di legittimità, sostenendosi che i figli del de cuius, non ancora dichiarati suoi figli naturali, non erano chiamati all'eredità..., né perciò legittimati... a interrompere l'usucapione dei beni da parte dei possessori . La Corte di cassazione dichiaro inammissibile la censura in rito, in quanto diretta ad ottenere il riesame di una questione ormai preclusa perché non prospettata al giudice d'appello. Nonostante la soluzione in rito, Cass. n. 2326 del 1990 sentì il bisogno di precisare che l'assunto preliminare della Corte di merito - secondo cui la domanda giudiziale, benché atto non idoneo di accettazione dell'eredità (in quanto posto in essere da soggetto non ancora dichiarato figlio naturale, non chiamato all'eredità e carente, perciò, della legittimazione alla petizione ereditaria) valse tuttavia ad interrompere il termine per l'usucapione - era giuridicamente corretto e, come tale, non passibile della proposta censura per violazione di legge . Si legge testualmente in Cass. n. 2326 del 1990, ora in esame, In tema di legittimazione alla domanda giudiziale, quale atto idoneo a produrre la c.d. interruzione civile (in contrapposizione a quella naturale) della usucapione ex articolo 1165 e 2943 citati, deve invero rilevarsi come l'ordinamento giuridico, nel quadro della tutela giurisdizionale dei diritti, attribuisca al soggetto il diritto potestativo di chiedere il rilascio di beni in possesso altrui e di interrompere così il corso e ciò, in dipendenza di una particolare relazione di diritto (lo ius possidendi) che intercorra fra lui ed i beni. Né questa relazione cessa di essere rilevante a tale fine, quando si esprima soltanto in un diritto che è in fieri o condizionato. Anche in tale caso la posizione del soggetto trova, invero, tutela nella esperibilità di atti volti al suo soddisfacimento o semplicemente conservativi, al quale fine, per preliminare postulato, si prescinde dall'effettivo fondamento della pretesa, accertabile soltanto con la successiva pronuncia giudiziale. Così, nel caso di specie, come ha già ritenuto il giudice d'appello e conformemente alle ulteriori argomentazioni ora svolte dal controricorrente..., deve rilevarsi che gli attori, al momento della domanda introduttiva, benché non fossero ancora legittimati alla azione di petizione ereditaria né all'accettazione dell'eredità paterna in pendenza del giudizio di accertamento del loro stato di figli naturali, erano tuttavia, abilitati a compiere, per mezzo della connessa domanda di rilascio o di collazione dei beni ereditari in possesso dei convenuti, un valido atto di opposizione a tale possesso, al fine di farne cessare il carattere pacifico e d'interrompere, perciò, l'usucapione fino al momento della pronuncia giudiziale che avesse accertato la esistenza (anche sopravvenuta) delle condizioni dell'azione, convalidando, così, gli effetti del previo atto conservativo - interruttivo. La riproposta eccezione con cui si nega la idoneità della domanda giudiziale ad interrompere l'usucapione risulta, dunque, infondata, indipendentemente dalla rilevata preclusione processuale, cui soggiace la più ampia questione in cui essa si colloca . 10. - Conclusivamente, Cass. n. 11024 del 1991 e Cass. 2424 del 2011 considerano la posizione dei figli adulterini prima dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975 e con riferimento a questi riconoscono che il possesso dei beni ereditari, esercitato prima dell'entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia, non è utile per l'usucapione. Questo perché, fino ad allora, i figli naturali non avevano mai avuto la possibilità (nell' intervallo temporale antecedente alla stessa entrata in vigore della citata legge) di compiere atti interruttivi, non essendo essi ancora titolari di alcun diritto da far valere in base alla disciplina previgente (così testualmente Cass. 2424 del 2011). Cass. 14917 del 2012 ritiene che il medesimo principio si applichi anche se i diritti ereditari del figlio naturale sono già riconosciuti dalla legge vigente al momento di apertura della successione. Emerge da tale ultima pronunzia la convinzione che riconoscere che il diritto di accettare non si prescrive se non dal passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la filiazione ed affermare, nello stesso tempo, che possa maturare, in favore del possessore di beni ereditari, il termine ventennale dell'acquisto per usucapione significherebbe ammettere un assurdo giuridico, non potendo il figlio naturale, prima di allora, compiere atti interruttivi. Tale affermazione è principalmente giustificata alla luce di Cass. n. 2326 del 1990, la quale tuttavia, come ampiamente chiarito, tiene separato il diritto di accettare l'eredità, non esercitabile prima del passaggio in giudicato della sentenza che dichiara la filiazione, dalla possibilità di esercitare azioni idonee a interrompere il decorso dell'usucapione. Queste sono esercitabili dal figlio anche prima. Non sono rari gli esempi di tutela dei beni ereditari accordata indipendentemente dalla attuale qualità di erede, purché sia comunque ravvisabile un interesse a che sia preservata l'integrità del patrimonio ereditario. Si pensi ai poteri di natura conservativa previsti dall'articolo 460 c.c., azionabili prima dell'accettazione, che includono certamente il potere di compiere atti interruttivi della prescrizione, estintiva o acquisitiva. 11. - Ad avviso del collegio, l'equivoco insito nella soluzione di Cass. 14917 del 2012, la sola che pone un principio idoneo a legittimare la decisione impugnata, consiste nel sovrapporre il diritto di accettare l'eredità, il quale diventa attuale dopo la dichiarazione giudiziale, con il potere di compiere atti giudiziali interruttivi di prescrizioni acquisitive o estintive dei diritti ereditari: tale diritto, nelle condizioni che ricorrevano nel caso in esame (figlio naturale riconoscibile e annoverato fra i successibili ex lege dalle norme vigenti già al tempo di apertura della successione), è esercitabile anche prima, come già affermato da Cass. n. 2326 del 1990. Una conferma di siffatta possibilità si ritrova anche in Cass. n. 5037 del 2011, richiamata nell'esame del primo motivo: invero la possibilità del figlio naturale, riconosciuta da tale pronunzia, di disporre dei propri diritti prima del definitivo accertamento della filiazione, considerata l'efficacia dichiarativa e retroattiva della pronunzia, comprende, logicamente, anche il potere di interrompere la prescrizione, acquisitiva o estintiva, dei diritti ereditari. A questi effetti non si richiede l'avvenuto acquisto della qualità di erede, essendo sufficiente l'interesse alla conservazione del patrimonio ereditario, interesse il quale, nella situazione di cui sopra, certamente sussiste nel caso del figlio naturale già a partire dalla morte del genitore, in considerazione dell'efficacia ex tunc della dichiarazione giudiziale (Cass. n. 26575/2007), la quale opera anche rispetto alle posizioni successorie (Cass. n. 2923/1990); e se del suo stato avesse avuto notizia solo dopo molto tempo dalla nascita, tale circostanza concreta un ostacolo di fatto, irrilevante ai sensi dell'articolo 2935 c.c.: L'impossibilità di far valere il diritto, quale fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione ex articolo 2935 c.c., è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l'esercizio e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, in relazione ai quali il successivo articolo 2941 c.c. prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione della prescrizione, tra le quali, salva l'ipotesi di occultamento doloso del debito, non rientra l'ignoranza da parte del titolare del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sull'esistenza di tale diritto o il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento (Cass. n. 22072/2018; n. 14193/2021). 12. - Si deve aggiungere che, già in passato, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha riconosciuto l'idoneità, ai fini dell'interruzione della prescrizione, della notificazione della citazione per la dichiarazione giudiziale di paternità naturale e la conseguente petizione di eredita ha il duplice contenuto di atto introduttivo del giudizio (articolo 2943, primo comma, c.c.) per i diritti spettanti agli attori nella qualità, giudizialmente riconosciuta, di figli naturali e di atto di costituzione in mora (articolo 2943, quarto comma, c.c.) dei convenuti per il diritto creditorio all'assegno vitalizio, che, sulla medesima eredità, spetta agli attori qualora, respinta la domanda o dichiarazione inidonea a produrre effetti processuali, la filiazione risulti nei modi indicati nell'articolo 279 c.c. (Cass. n. 421/1964). Del resto, come già rilevato, nella fattispecie decisa da Cass. n 11024 del 1991, che è la pronunzia nella quale si rinviene, in materia dei diritti ereditari dei figli naturali, la prima compiuta affermazione del principio sulla quale la corte di merito ha ritenuto di potere fondare la decisione, il figlio chiese nel medesimo giudizio sia l'accertamento della filiazione naturale, sia riconoscimento dei diritti successori. Invero, ciò che la giurisprudenza di legittimità esclude è la possibilità dell'accertamento incidentale dello stato, senza efficacia di giudicato e con effetto limitato alla controversia principale (Cass. n. 2220/1985); con la conseguenza che, se una questione di stato si presenti come pregiudizievole dinanzi al giudice civile, si applicherà l'articolo 34 c.p.c. e considerarsi la questione di stato fra quelle questioni che, per legge e cioè per il sistema legislativo, non possono decidersi se non con autorità di giudicato. Se mancano le condizioni necessarie richieste esplicitamente per quelle azioni dalla legge, il giudice adito non potrà giudicare. Qualora invece il giudice adito sia competente anche per la questione di stato e sussistano le condizioni soggettive (legittimazione del soggetto attivo e del soggetto passivo) ed oggettivo il giudice adito potrà giudicare anche sull'azione di stato, ma principaliter e con efficacia di giudicato (Cass. n. 1515/1966). Si ricorda ancora che l'articolo 715 c.c. prevede la pendenza di un giudizio sulla filiazione quale motivo di sospensione della divisione ereditaria, ma fa salva la possibilità dell'autorità giudiziaria di autorizzarla, disponendo le opportune cautele. B. - Ricorso n. 18773/2023. 1. - Il primo motivo del ricorso principale denunzia violazione dell'articolo 2041 c.c. Assodato che Sa.Gi. e Vi.Ga. hanno venduto immobili facenti parte dell'eredità di Sa.Ni., arricchendosi in misura corrispondente ai prezzi riscossi, i medesimi erano obbligati a indennizzare il Li.An. nei limiti di tale arricchimento. L'impoverimento del Li.An. si sarebbe verificato in concomitanza con la maturazione del termine, in favore degli acquirenti, per il compimento dell'usucapione ex articolo 1159 c.c. Il secondo motivo denunzia violazione dell'articolo 687 c.c. e del precedente giudicato derivante dalla sentenza della Suprema corte n. 13680 del 2019. La sentenza d'appello, contro l'accertamento compiuto in sede di legittimità, attribuisce a Sa.Gi. e al coniuge di lui la qualità di erede diretti di Sa.Ni. fu Be. , essendo invece il solo e unico erede il Li.An. In aggiunta, la sentenza, al fine di negare i presupposti di applicabilità dell'articolo 2041 c.c., in favore del Li.An. e nei confronti dei fratelli Sa.St., ha attribuito rilievo al fatto che ci fosse o non ci fosse la prova che essi avessero tratto vantaggio dalle alienazioni compiute da loro genitori. Al contrario tale circostanza era del tutto irrilevante. La obbligazione dei fratelli Sa.St. non dipendeva da ciò, ma sussisteva per il solo fatto di essere essi eredi degli alienanti, debitori dei prezzi conseguiti. Con il terzo motivo di ricorso, denunciando violazione dell'articolo 754 c.c., si sostiene che i fratelli Sa.St., quali eredi di coloro che avevano alienato i beni ereditari e incassato il prezzo, erano tenuti ex articolo 2041 c.c. o in alternativa ex articolo 535, comma 2, c.c., nei confronti del Li.An., a prescindere dalla prova che quanto riscosso sia poi pervenuto ai figli. Il quarto motivo del ricorso principale denunzia violazione dell'articolo 167 c.p.c. e degli articolo 61 e 194 c.p.c. e dell'articolo 2697 c.c. La sentenza è oggetto d censura nella parte in cui ha negato che fosse stata data la prova del contratto di locazione relativamente all'unità immobiliare identificata dalla particella 1753 sub 7. Il quinto motivo denunzia violazione degli articolo 91 e 96, oltre la violazione dell'articolo 13, comma 1, quater del Testo unico delle spese di Giustizia n. 115 del 2003. I ricorrenti si dolgono della compensazione delle spese di lite del grado e del rigetto della domanda di condanna al risarcimento del danno ai sensi dell'articolo 96 c.p.c. 2. - I primi quattro motivi del ricorso incidentale censurano, sotto diversi profili, la decisione, nella parte in cui è stata accolta la domanda di restituzione dei canoni relativi ai due immobili ereditari dei quali era stata accertata la proprietà del Li.An. con la sentenza non definitiva n. 1533 del 2016. Il quinto motivo del ricorso incidentale riguarda la decisione sulle spese di lite. 3. - I primi tre motivi del ricorso incidentale, da esaminare congiuntamente, sono fondati nei limiti di seguito indicati. In via preliminare è bene identificare la posizione dei soggetti coinvolti nella vicenda. I fratelli Sa.St. sono eredi legittimi veri dell'erede testamentario vero (Sa.Gi.) dell'erede apparente (Sa.Li.). L'erede testamentario dell'erede apparente, e a fortiori i suoi eredi legittimi (i fratelli Sa.St.), in quanto successori a titolo universale, non possono beneficiare della tutela accordata a coloro che abbiano acquistato diritti dall'erede apparente. Essi non possono invocare né l'articolo 534, commi 2 e 3, c.c., né l'articolo 2657 n. 7 c.c. In effetti si discute se tale ultima norma debba estendersi al legatario, fermo restando, in ogni caso, l'inapplicabilità agli acquisti a titolo di erede. È tuttavia avvenuto che Sa.Gi., erede testamentario vero dell'erede apparente, ha concluso una convenzione matrimoniale con il coniuge Vi.Ga. ai sensi dell'articolo 228 della disciplina transitoria della legge n. 151 del 1975. Nelle intenzioni, la convenzione era riferita a tutti i beni personali dei coniugi, compresi quelli apparentemente acquistati da Sa.Gi. in forza della successione testamentaria di Sa.Li. (erede apparente di Sa.Ni.). La Vi.Ga., secondo quanto emerge dalla ricostruzione operata dalla Corte d'Appello, ha disposto della quota dei beni che il coniuge aveva acquistato quale erede testamentario di Sa.Li., resi comuni per effetto della convenzione. La Corte d'Appello ha negato l'efficacia di tale convenzione, in quanto ritenuta estranea all'ambito di applicazione dell'articolo 228 della disciplina transitoria della legge di riforma del diritto di famiglia. In questo senso la decisione è contraria alla giurisprudenza della Corte. È stato infatti affermato il principio secondo cui i coniugi uniti in matrimonio prima dell'entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, e che, con apposita convenzione, abbiano deciso di ricomprendere nella comunione legale tutti i loro beni, ivi compresi quelli personali acquistati prima del matrimonio, hanno stipulato un atto che è da ritenere estraneo alla fattispecie tipica prevista dall'articolo 228, secondo comma, della legge n. 151 del 1975, e che, tuttavia, è valido poiché manifesta la volontà di dare vita ad una comunione convenzionale - istituto previsto dall'articolo 210 c.c.. (esercitando una facoltà che solo arbitrariamente avrebbe potuto essere esclusa per le famiglie già costituite) (Cass. n. 21786/2008). Infatti, la disciplina della comunione può essere parzialmente derogata dai coniugi mediante convenzione matrimoniale. L'oggetto della comunione può essere ampliato dai coniugi nel senso che questi possono assoggettare alla comunione anche i beni personali (ad esempio ricevuti per successione o donazione). Laddove nella comunione legale siano inclusi uno o più beni personali di uno solo o di entrami i coniugi, la dottrina prevalente concorda sulla natura gratuita della convenzione, mentre non rileva in questa sede indagare se l'assoggettamento alla comunione di beni personali comporti un atto di liberalità di un coniuge a favore dell'altro (o una liberalità reciproca se la messa in comunione riguardi beni personali di entrambi). È stato ritenuto che, nel caso in cui un coniuge metta in comunione un bene personale, è configurabile una liberalità, che è riducibile in sede successoria e revocabile ex articolo 2901 c.c. ad iniziativa dei creditori personali del coniuge stesso. Oltre al rimedio dell'azione revocatoria, l'articolo 211 c.c. statuisce che costoro possono rivalersi su qualsiasi bene della comunione, ma limitatamente al valore dei beni (già personali) entrati a farne parte. La giurisprudenza riconosce la revocabilità del negozio costitutivo di fondo patrimoniale quale atto gratuito (cfr. Cass. 34872/2023; 9192/2021). Accertato così che la Vi.Ga. è acquirente a titolo gratuito da Sa.Gi. della quota indivisa dei beni provenienti dalla successione di Sa.Ni., entrati in comunione, consegue che essa è in ogni caso esclusa dalla tutela predisposta dall'articolo 534, commi 2 e 3, c.c., che suppone una convenzione a titolo oneroso. Si deve aggiungere che la Vi.Ga. non è avente causa dall'erede apparente, avendo acquistato dall'erede vero (Sa.Gi.) dell'erede apparente (Sa.Li.). Si osserva in dottrina che l'articolo 534 attribuisce rilevanza soltanto a una situazione di apparenza della qualità di erede, la quale cessa con la morte di chi ne è investito. La legge protegge gli aventi causa dall'erede apparente e tale non è l'avente causa dall'erede dell'erede apparente. Si osserva ancora che l'inconveniente pratico della soluzione si attenua sensibilmente quando si pensi che normalmente la questione non sorge se non dopo un certo lasso di tempo dalla trascrizione dell'acquisto dell'erede apparente, e che i terzi acquirenti dal suo erede, esclusi dall'ambito applicativo dell'articolo 534, possono però invocare la protezione dell'articolo 2652 n. 7 c.c., il quale prescinde da una situazione di apparenza in senso tecnico. Sotto questo profilo, oggetto del secondo motivo del ricorso dei Sa.St., la questione è stata superata dall'accoglimento del terzo motivo del ricorso medesimo. Se ne fa riferimento in questa fase perché il rilievo consente di stabilire la posizione dei protagonisti della vicenda rispetto ai beni ereditari oggetto di alienazione. Le alienazioni, nei rapporti con l'erede vero, debbono ritenersi tutte effettuate o direttamente dall'erede apparente Sa.Li. o da Sa.Gi. erede testamentario vero dall'erede apparente. Fra le alienazioni compiute da Sa.Gi. è compresa la convenzione matrimoniale conclusa con la Vi.Ga. È questo l'atto di disposizione rilevante nei confronti dell'erede vero, non le successive alienazioni compiute dalla Vi.Ga., senza che sia qui utile indagare se ricorressero o no i presupposti che le consentivano di fare salvo l'acquisto ai sensi dell'articolo 2652, n. 7, c.c. Infatti, come è stato autorevolmente chiarito, il diritto dell'erede vero nei confronti del possessore alienante, riconosciuto dall'articolo 535 comma 2, integrato dall'articolo 2038 c.c. sussiste non soltanto nel caso in cui l'alienazione compiuta dall'erede apparente sia efficace, ma pure nel caso in cui - essendo l'alienazione inefficace - l'erede conserva contro l'acquirente l'azione per la restituzione del bene. In entrambi i casi, infatti, l'erede ha diritto di conseguire dall'erede apparente la controprestazione dell'alienazione: se gli si negasse tale diritto, quando può pretendere la restituzione del bene dal terzo, l'erede apparente sarebbe ingiustamente avvantaggiato, in quanto farebbe proprio il corrispettivo, tutte le volte che l'erede non possa o non voglia agire contro il terzo. In altre parole, l'erede vero potrebbe benissimo agire contro l'erede apparente per conseguire il corrispettivo dell'alienazione, salvo ad agire successivamente, quando se ne presenti l'opportunità contro il terzo, naturalmente offrendo a quest'ultimo quanto già ricevuto dall'erede apparente. Tale considerazione rende irrilevante ogni indagine volta a stabilire se l'erede vero, con riferimento ai beni alienati, avesse la possibilità di sperimentare l'azione ereditaria nei confronti dell'avente causa, in base all'eccezionale legittimazione passiva conferita dall'articolo 534, comma 1, c.c. a quest'ultimo. Le azioni volte al conseguimento del corrispettivo o del valore sono proponibili nei confronti del possessore alienante sia nell'uno, sia nell'altro caso, salvo quanto sopra detto se l'erede vero ottenga poi la restituzione dall'avente causa. 4. - Ex articolo 535, comma 2, c.c., il possessore di buona fede, il quale ha alienato pure in buona fede una cosa dell'eredità, è solo obbligato a restituire all'erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Se il prezzo o il corrispettivo è ancora dovuto, l'erede subentra nel diritto di conseguirlo . Secondo il giudice di primo grado, il presupposto della domanda di restituzione (e del conseguente obbligo restitutorio) è espressamente individuato dal legislatore nel possesso del bene in capo all'alienante. E dunque il soggetto a cui può essere chiesta la restituzione e tenuto alla ripetizione è esclusivamente quello che, nel possesso del bene ereditario, l'abbia alienato . In base a tale assunto la domanda di restituzione svolta dall'erede aveva quali legittimari passivi solo coloro che avevano personalmente alienato i beni ereditari, non i convenuti, i quali non hanno mai avuto il possesso né la proprietà degli immobili alienati, essendo quindi privi di legittimazione rispetto alla domanda di cui all'articolo 535, comma 2, c.c. . In appello la decisione fu censurata dagli eredi Li., i quali riconobbero che l'articolo 535, comma 2, c.c. risultava inapplicabile al caso di specie; nondimeno le somme, ricevute quali corrispettivo delle alienazioni, erano comunque dovute a titolo di arricchimento senza causa , dovendosi dare per acquisito che i beni non erano recuperabili dagli acquirenti, i quali avevano in ogni caso maturato l'usucapione. La censura fu rigettata in appello, in base al rilievo che l'affermazione del primo giudie, circa la mancanza di una specifica prova che quanto percepito dagli eredi diretti di Sa.Ni. sia stato poi oggetto di acquisto a titolo ereditario da parte dei quattro appellanti non è stato oggetto di specifica doglianza... . I ricorrenti sostengono che l'accoglimento della domanda, nei confronti dei fratelli Sa.St., non richiedeva tale prova. 5. - È noto che la legittimazione passiva rispetto all'azione di petizione ereditaria compete a chiunque possegga tutto o parte dei beni ereditari a titolo di erede o senza titolo alcuno, nonché, come risulta dall'articolo 534, comma 1, ai suoi aventi causa. Secondo le regole poste dall'articolo 535, comma 2, c.c., il possessore che si ritiene di buona fede, il quale abbia alienato, pure in buona fede, una cosa dell'eredità è obbligato a restituire all'erede il prezzo o il corrispettivo ricevuto. Per possessore di buona fede si intende colui che ha acquistato il possesso dei beni ereditari, ritenendo per errore non derivante da colpa grave di essere erede. La buona fede, al solito si presume (Cass. n. 5093/2010; n. 21505/2019). In caso di mala fede, il possessore alienante è tenuto a corrispondere il valore in base all'articolo 2038, comma 2, stante la strettissima analogia fra le due ipotesi. L'articolo 2038, comma 1 è poi applicabile nel caso che l'alienazione effettuata dal possessore sia stata a titolo gratuito. In questo caso, l'erede vero non può avvalersi della facoltà concessa dall'articolo 535, comma 2, che riguarda le sole alienazioni rispetto alle quali è dovuto il prezzo o il corrispettivo. L'erede vero si potrà rivolgere al terzo nei limiti del suo arricchimento, nonché dopo che fosse stato inutilmente escusso l'alienante di mala fede, secondo quanto dispone l'articolo 2038, comma 2, c.c. È ragionevole riconoscere che gli obblighi, derivanti dall'alienazione di beni ereditari, presuppongano, che al tempo dell'alienazione, non fosse già maturato, in favore del possessore, l'usucapione ventennale con riguardo al bene alienato. Se l'usucapione fosse invece maturata, il bene alienato, in quanto acquistato a titolo originario dal possessore, aveva cessato di appartenere all'asse ereditario. In questo caso non sorge neanche l'azione residuale contro il terzo acquirente a titolo gratuito. Consegue dalla ricostruzione di cui sopra che l'azione di arricchimento, mentre è configurabile nei confronti del terzo acquirente della cosa ereditaria a titolo gratuito, non è configurabile nei confronti del possessore alienante, in quanto l'erede, nei confronti di costui, ha a disposizione un'azione tipica, che la giurisprudenza fa rientrare nell'ambito della petizione non solo quando sia tendente, ex articolo 535, comma 2, a ottenere il prezzo o il corrispettivo, ma anche quando, nel caso di alienazione in mala fede, sia volta a ottenere il valore della cosa (Cass. n. 796/1960). Il punto è tuttavia controverso in dottrina, registrandosi, sul tema del rapporto tra l'azione petitoria e l'azione di cui al comma 2 dell'articolo 535 c.c., un orientamento che invece conferisce all'istituto in esame, la qualifica di azione personale di credito, distinta dalla petitio e prescrittibile. Rimane, ad ogni modo, fermo che l'obbligazione del possessore, sia che abbia ad oggetto il prezzo o il corrispettivo ai sensi dell'articolo 535, comma 2, c.c., sia che abbia ad oggetto il valore attuale della cosa nel caso di mala fede, una volta sorta in capo al possessore alienante, si trasmette agli eredi, al pari di qualsiasi debito ereditario. Lo stesso dicasi per l'obbligazione ex articolo 2038, comma 1 e 2, c.c., nei limiti dell'arricchimento, dell'acquirente a titolo gratuito. 6. - L'azione di arricchimento ha carattere sussidiario in quanto essa improponibile quando l'impoverito può esercitare altre azioni per farsi indennizzare. Che il danneggiato non può esercitare altra azione è inteso come non spettanza di azioni fondate su titoli diversi . Nella giurisprudenza di legittimità è principio consolidato che ai fini del rispetto della regola di sussidiarietà di cui all'articolo 2042 c.c., la domanda di ingiustificato arricchimento (avanzata autonomamente ovvero in via subordinata rispetto ad altra domanda principale) è proponibile ove la diversa azione - sia essa fondata sul contratto ovvero su una specifica disposizione di legge ovvero ancora su clausola generale - si riveli carente ab origine del titolo giustificativo, restando viceversa preclusa ove quest'ultima sia rigettata per prescrizione o decadenza del diritto azionato o per carenza di prova del pregiudizio subito o per nullità derivante dall'illiceità del titolo contrattuale per contrasto con norme imperative o con l'ordine pubblico (Cass., S.U., n. 33954/2023). È stato anche chiarito che, qualora la diversa azione esista, l'azione generale di arricchimento è inammissibile anche quando la domanda ordinaria, dopo essere stata proposta, non sia stata più coltivata dall'interessato (Cass. n. 8020/2009; n. 6295/2913). 5. - È stato anticipato che il giudice di primo grado aveva, nella specie, ritenuto inapplicabile la disciplina prevista dall'articolo 535, comma 2, c.c., rigettando la relativa domanda del Li.An., svolta in via principale; ha quindi ritenuto ammissibile la domanda residuale, originariamente svolta in via gradata, di indebito arricchimento conseguente all'alienazione degli immobili. Anche tale domanda fu rigettata. Sussisteva quindi l'onere, a carico del soccombente, il quale avesse voluto insistere anche nella domanda principale, di impugnare l'intero contenuto sfavorevole della decisione, il che non è avvenuto. Come risulta dalla stessa sentenza impugnata, nell'atto di appello del Li.An., riconoscendosi l'inapplicabilità dell'articolo 535 c.c., l'obbligo restitutorio fu fondato esclusivamente sull'indebito arricchimento. Vale quindi il principio secondo il quale a norma dell'articolo 329, secondo comma, c.p.c., l'impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza non impugnate che hanno respinto domande del tutto autonome le une dalle altre (Cass. n. 19346/2004; n. 15980/2010). In sede di cassazione, i ricorrenti invocano l'articolo 535 c.c. quale giustificazione normativa del diritto, in via alternativa rispetto all'articolo 2041 c.c.; tale richiamo, in verità operato solo nella rubrica del terzo motivo, è irrilevante, in quanto è correlato a un contenuto della decisione di primo grado, sfavorevole all'erede vero, non impugnato con l'appello, con il quale fu impugnato esclusivamente il rigetto della domanda subordinata di arricchimento senza causa (cfr. Cass. n. 9631/2003; n. 13602/2013; n. 36572/2022). È stato chiarito che allorché la parte abbia proposto, nello stesso giudizio, due o più domande alternative, ma tra loro compatibili, ovvero legate da rapporto di subordinazione, l'accoglimento della principale o della domanda alternativa compatibile non obbliga l'attore, che voglia insistere su quella non accolta, a proporre appello incidentale, essendone sufficiente la riproposizione ai sensi dell'articolo 346 c.p.c.; diversamente, qualora si tratti di domande incompatibili, ovvero sia stata accolta la subordinata, l'attore che voglia insistere nella domanda alternativa incompatibile non accolta, ovvero nella domanda principale, ha l'onere di farlo mediante appello incidentale, eventualmente condizionato all'accoglimento del gravame principale, in quanto solo in tal modo può evitare la formazione del giudicato sull'accertamento dei fatti posti a fondamento della pretesa accolta ed incompatibili con quella disattesa (Cass. n. 8674/2017). A maggior ragione l'onere di impugnazione sussiste quando, come nel caso in esame, il giudice di primo grado abbia rigettato sia la domanda principale, sia la domanda subordinata. Nel caso in esame, invece, è stato impugnato in appello il solo rigetto della domanda subordinata di indebito arricchimento. Questa, però, secondo quanto già precisato, risulta in astratto pertinente nei soli confronti della Vi.Ga., tenuta, in quanto acquirente a titolo gratuito, nei limiti del suo arricchimento. Deceduta la Vi.Ga., la relativa obbligazione, se e in quanto sussistente, si è certamente trasmessa agli eredi, nei cui confronti, secondo le regole della successione universale, l'erede vero può rivolgere le istanze che avrebbe potuto rivolgere contro il de cuius. Solo in questi limiti, la censura proposta con i motivi in esame (l'obbligazione dei fratelli Sa.St. sussisteva a prescindere dalla prova di un loro personale arricchimento) è fondata, salvo il potere del giudice di rinvio di esaminare il complesso delle difese formulate in proposito dai fratelli Sa.St., rimaste assorbite dal rigetto della domanda. 7. - Il quarto motivo del ricorso principale, riguardante la questione dei frutti dei beni oggetto della domanda di petizione, è inammissibile, trattandosi di capo della decisione travolto dall'accoglimento del terzo motivo nella causa n. 3039 del 2022; è assorbito il quinto motivo. 8. - Sono parimenti inammissibili, in conseguenza dell'accoglimento del terzo motivo sopra richiamato, i primi quattro motivi del ricorso incidentale dei fratelli Sa.St., riguardanti anch'essi la questione dei frutti dei beni oggetto dell'eccezione di usucapione; è assorbito il quinto motivo del ricorso incidentale. 9. - Le sentenze sono cassate in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione, che dovrà decidere attenendosi ai seguenti principi di diritto: Il figlio del de cuius nato fuori dal matrimonio, già riconoscibile secondo la legge vigente al tempo di apertura della successione, ha il potere di interrompere l'usucapione dei beni ereditari, senza dovere attendere il passaggio in giudicato della sentenza che accerta la filiazione. Infatti, ai fini della idoneità dell'atto interruttivo del possesso ad usucapionem di un bene ereditario, non si richiede l'avvenuto acquisto della qualità di erede da parte del figlio, essendo sufficiente l'interesse alla conservazione del patrimonio ereditario, interesse che, nella situazione di cui sopra, sussiste già a partire dalla morte del genitore . All'ipotesi di alienazione a titolo gratuito di beni ereditari da parte del possessore, è applicabile l'articolo 2038 c.c. Pertanto, l'erede vero si potrà rivolgere al terzo acquirente nei limiti del suo arricchimento, ferma la preventiva escussione dell'alienante nella sola ipotesi di mala fede. L'obbligazione del terzo acquirente, nel concorso dei presupposti che ne giustificano l'insorgenza, è trasmissibile mortis causa, senza che occorra la prova di un vantaggio personale realizzato dagli eredi . I coniugi, uniti in matrimonio prima dell'entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, e che, con apposita convenzione stipulata ai sensi dell'articolo 228, secondo comma, della legge n. 151 del 1975, abbiano deciso di ricomprendere nella comunione legale i beni personali, stipulano un atto che è comunque valido, poiché manifesta la volontà di dare vita ad una comunione convenzionale; e laddove nella comunione siano inclusi uno o più beni ricevuti da uno dei coniugi per successione da un erede apparente, nei rapporti con l'erede vero, l'atto deve ritenersi a titolo gratuito, con conseguente applicabilità dell'articolo 2038 c.c. . Al medesimo giudice di rinvio si demanda di provvedere anche sulla liquidazione delle spese. P.Q.M. La Corte, nella causa n. 3039 del 2022, accoglie il terzo motivo del ricorso; rigetta il primo motivo e dichiara assorbito il secondo; nella causa n. 18773 del 2022, accoglie, nei sensi di cui in motivazione, i primi tre motivi del ricorso principale; dichiara inammissibile il quarto e assorbito il quinto motivo dello stesso ricorso principale; dichiara inammissibili i primi quattro motivi del ricorso incidentale e assorbito il quinto motivo; cassa le sentenze impugnate in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte d'Appello di Venezia in diversa composizione anche per le spese.