Inquinamento ambientale: tra prova del danno e condotte riparatorie

L’articolo 452-bis c.p. individua un reato di danno, la cui prova non richiede l’espletamento di accertamenti tecnici, essendo sufficiente il riscontro empirico delle conseguenze negative della condotta. L’attenuante del ravvedimento operoso può essere integrata solo da condotte riparatorie che si siano tradotte in un concreto aiuto all’ambiente.

Il caso Con la sentenza in commento, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione offre rilevanti spunti interpretativi sul delitto di inquinamento ambientale, di cui all'articolo 452-bis c.p., e sulla configurabilità della circostanza attenuante del c.d. ravvedimento operoso, prevista dall'articolo 452-decies c.p. Nella specie, due fratelli erano titolari di un'officina meccanica nell'ambito della cui attività di impresa si svolgeva, per loro stessa ammissione, sin dagli anni '80 e senza alcuna autorizzazione, una persistente attività di sversamento di liquidi inquinanti sul terreno della stessa impresa e dell'area circostante. Condannati nei giudizi di merito, i fratelli ricorrevano in Cassazione, censurando la sentenza di appello per non aver, da un lato, rilevato l'assenza di prova circa la sussistenza e la consistenza di una situazione di inquinamento, e, da altro lato, applicato l'attenuante del c.d. ravvedimento operoso, pur avendo collaborato nella messa in sicurezza delle aree oggetto di contestazione. L'inquinamento ambientale La Suprema Corte offre una precisa panoramica degli elementi oggettivi del delitto di inquinamento ambientale, operando un'esegesi testuale della fattispecie criminosa e soffermandosi sulla prova del danno. L'articolo 452-bis c.p. individua un reato di danno, integrato da un evento di danneggiamento, rappresentato, alternativamente, dalla “compromissione” o dal “deterioramento” dell'ambiente, eventi che stanno ad indicare un'alterazione dell'originaria consistenza della matrice ambientale o dell'ecosistema. Più precisamente, la “compromissione” va intesa come condizione di squilibrio funzionale che incide sul rapporto tra il bene e i bisogni (o gli interessi) che lo stesso soddisfa, mentre il “deterioramento” sottintende una condizione di squilibrio strutturale, legata al decadimento o alla riduzione del bene in misura tale da diminuirne in modo apprezzabile il valore o da impedirne, anche parzialmente, l'uso, ovvero da rendere necessaria un'attività non agevole di ripristino.  Il reato, dunque, può dirsi integrato ove sia accertato un concreto pregiudizio al bene giuridico tutelato, secondo i limiti di rilevanza che lo stesso articolo 452-bis c.p. individua. Infatti, i descritti eventi di danno devono essere “significativi” (quindi rilevanti), e “misurabili” (cioè quantitativamente apprezzabili), senza che il Giudice risulti vincolato, nel loro accertamento, a tener conto dei parametri imposti dalle regole di settore. Allo stesso modo, la prova del danno, ossia del deterioramento o della compromissione, non richiede l'espletamento di specifici accertamenti tecnici (pur presenti nel caso concreto), ben potendo essere data per il tramite di un riscontro della realtà empirica e, in particolare, delle conseguenze negative della condotta. La Suprema Corte, dunque, ritiene che la Corte di Appello di Roma abbia fatto buon uso dei principi richiamati, ritenendo provato il danno all'ambiente, in considerazione degli accertamenti effettuati sullo stato dei luoghi, ritraenti massivi e prolungati riversamenti di olii esausti sul suolo e nel sottosuolo, per la cui bonifica sono risultati necessari lavori di tre anni. L'attenuante del c.d. “ravvedimento operoso” La Suprema Corte indaga la ratio dell'attenuante del c.d. “ravvedimento operoso”, di cui all'articolo 452-decies c.p., collegandola ad analoghe previsioni, proprie del c.d. “diritto premiale”, e ravvisandola nella sussistenza di condotte successive al fatto che abbiano determinato un «concreto aiuto all'ambiente». Così, il beneficio in favore di «colui che si adopera per evitare che l'attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori» si giustifica solo ove il reo abbia posto in essere interventi, non preventivamente tipizzabili (e, quindi, distinti da quelli specificamente indicati nel prosieguo della disposizione), che si connotino per dar luogo ad un'effettiva quanto stabile interruzione delle conseguenze del reato». La norma, infatti, è connotata da una prospettiva di risultato, volta a “premiare” condotte effettivamente riparatorie degli effetti dannosi del reato e non la mera buona volontà del reo nè la sussistenza di comportamenti necessitati e non spontanei. In questi termini, la Corte di Cassazione condivide le conclusioni cui è giunta la Corte di Appello di Roma, che non ha riconosciuto l'attenuante in esame, rilevando come gli imputati abbiano provveduto a rimuovere residui ferrosi presenti in loco, diversi dai liquidi che hanno determinato l'inquinamento, in quanto si trattava di materiali la cui presenza ostacolava le attività di bonifica che erano in corso e, quindi, financo al di fuori di ogni spontanea iniziativa. Allo stesso modo, la Suprema Corte replica alle censure dei ricorrenti - secondo cui non sarebbe stata loro imputabile la mancata bonifica, trattandosi di procedura realizzabile solo da tecnici - rilevando come, ai fini dell'attenuante in esame, sarebbe stato comunque possibile contribuire alla bonifica o, comunque, porre in essere delle reali iniziative volte ad eliminare le conseguenze dannose del reato.

Presidente Ramacci - Relatore Noviello Il testo integrale della pronuncia sarà disponibile a breve.