È estorsione chiedere con violenza al ladro una somma di denaro come risarcimento per il furto subìto

No alla giustizia “fai da te”: inaccettabile l’azione con cui la vittima di un furto pretende con violenza dal ladro un risarcimento in contanti. Impossibile, chiariscono i Giudici, parlare di mero esercizio arbitrario delle proprie ragioni; più corretto, invece, catalogare il fatto come una estorsione in piena regola.

Scenario della vicenda in esame è il territorio della provincia del Nord Italia, dove a finire sotto accusa è una donna per aver costretto, con violenza, un uomo a darle una corposa somma di denaro. Per difendersi, però, la donna racconta di avere agito così per rifarsi sull'uomo, il quale, a sua volta, le aveva precedentemente rubato due telefonini. Per i giudici di merito, però, nonostante la versione fornita dalla vittima del furto, è doveroso catalogare la sua condotta come una lampante estorsione, aggravata dalla violenza compiuta sull'uomo. Questa visione viene contestata fortemente in Cassazione dall'avvocato che difende la donna. Nello specifico, il legale sostiene si debbano ridimensionare i fatti, addebitando alla sua cliente solo il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poiché ella «aveva richiesto all'uomo il denaro a titolo di risarcimento del danno, avendo lei» precedentemente «subìto il furto di due telefoni proprio ad opera della persona offesa, come evincibile dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate». Prima di esaminare l'obiezione proposta dalla difesa, però, la Cassazione richiama un dato centrale nel quadro probatorio tracciato tra primo e secondo grado: in sostanza, si è appurato che «la condotta intimidatoria posta in essere dalla donna fu finalizzata ad ottenere» dall'uomo «l'illecito corrispettivo di una precedente cessione di stupefacente». Detto ciò, però, «anche se si volesse dar credito alla versione offerta dalla donna, versione secondo cui la richiesta di denaro costituiva una sorta di risarcimento del danno per il furto di due telefoni commesso ai suoi danni dalla persona offesa, la condotta comunque non sarebbe sussumibile nell'ipotesi delittuosa dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni». Decisivo il riferimento al principio secondo cui «deve essere inquadrata nella fattispecie dell'estorsione, e non in quella dell'esercizio arbitrario delle proprie ragioni, la condotta di chi, anziché denunziare all'autorità il presunto autore di un furto, richieda a quest'ultimo, con violenza o minacce, la restituzione del profitto del reato». Peraltro, nella vicenda in esame, «in assenza di qualsiasi accertamento del fatto che la persona offesa si fosse effettivamente resa responsabile del furto dei due telefoni di proprietà della donna ora sotto processo, quest'ultima non aveva all'evidenza alcun “diritto” a esercitare una propria indagine personale, nei confronti del sospettato, diretta a ottenere, con violenza e minaccia, la restituzione di quanto assumeva esser l'oggetto del furto, con l'ulteriore conseguenza che anche l'asserita convinzione della donna di esercitare un diritto si deve considerare del tutto arbitraria». Logico, quindi, l'inquadramento del fatto nel paradigma dell'estorsione, poiché «per la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni è necessario che il soggetto agisca per esercitare un proprio diritto – e non la potestà pubblica volta alla individuazione dell'autore di un fatto illecito ed alla sua repressione, che è integralmente attribuita all'autorità di polizia e all'autorità giudiziaria – con la convinzione, non meramente arbitraria, che esso gli possa competere giuridicamente. Arbitrarietà che, invece, risulta del tutto evidente in capo a chi ritenga di potere pretendere, con violenza o minaccia, la restituzione del profitto del furto precedentemente subito ovvero, in alternativa, una somma a titolo di risarcimento da chi soltanto sospetti, in assenza di alcun accertamento in tale senso, di averlo derubato». In definitiva, «chi ha subìto un reato, non può certo sostituirsi alla pubblica autorità pretendendo di farsi giustizia da sé. Anzi, tale condotta denota ancora una maggiore pericolosità del soggetto, che evidentemente si pone completamente al di fuori delle regole dell'ordinamento», chiosano i Giudici.

Presidente Pellegrino - Relatore D'Auria Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 7/10/2024 la Corte di appello di Milano confermava la sentenza del Tribunale di Alessandria in data 24/05/2023, che aveva condannato C.T. per il reato di estorsione aggravata ascrittole. 2. L'imputata, a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione. 2.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. penumero, in relazione agli articolo 629 e 393 cod. penumero, nonché manifesta illogicità della motivazione. Osserva che la Corte territoriale ha errato nel non ritenere i fatti sussumibili nella fattispecie di cui all'articolo 393 cod. penumero; che, invero, la ricorrente aveva richiesto a M. M. la somma di denaro di cui al capo di imputazione, a titolo di risarcimento del danno, avendo la stessa subìto il furto di due telefoni proprio ad opera della persona offesa, come evincibile dal contenuto di alcune conversazioni telefoniche intercettate. 2.2. Con il secondo motivo eccepisce la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. penumero, in relazione alla circostanza attenuante introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale numero 120 del 2023, nonché manifesta illogicità della motivazione. Rileva che all'udienza del 07/10/2024 la difesa chiedeva il riconoscimento dell'attenuante del fatto di lieve entità, come prevista dalla Corte costituzionale e che, tuttavia, nel relativo verbale di udienza non è fatta menzione di tale istanza difensiva; che, ricorrendone tutti i presupposti, la Corte di merito ben avrebbe potuto riconoscere alla ricorrente detta circostanza attenuante. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 1.1. Il primo motivo non è consentito, atteso che è costituito da doglianze in fatto, che appaiono prevalentemente finalizzate a richiedere al giudice di legittimità una diversa ed alternativa lettura degli elementi di prova, a fronte di una motivazione del provvedimento impugnato che nel complesso non presenta evidenti criticità logiche. Orbene, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, anche a seguito della modifica apportata all'articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. penumero, dalla legge numero 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito. In questa sede, infatti, è precluso il percorso argomentativo seguito dalla ricorrente, che si risolve in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Corte di cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione. In altri termini, eccede dai limiti di cognizione del giudice di legittimità ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso allo stesso è circoscritto, ex articolo 606, comma 1, lett. e), cod. proc. penumero, alla sola verifica dell'esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l'hanno determinata, dell'assenza di manifesta illogicità dell'esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l'utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (cfr., Sez. 3, numero 17395 del 24/01/2023, Chen Wenjian, Rv. 284556 – 01; Sez. 5, numero 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva, Rv. 283370 – 01; Sez. 2, numero 9106 del 12/02/2021, Caradonna, Rv. 280747 – 01). Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può, quindi, estendersi all'esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Dunque, il dissentire dalla ricostruzione compiuta dai giudici di merito ed il voler sostituire ad essa una propria versione dei fatti, costituisce una mera censura di fatto sul profilo specifico dell'affermazione di responsabilità dell'imputato, anche se celata sotto le vesti di pretesi vizi di motivazione o di violazione di legge penale, in realtà non configurabili nel caso in esame, posto che il giudice di secondo grado ha fondato la propria decisione su di un esaustivo percorso argomentativo, contraddistinto da intrinseca coerenza logica. Orbene, la sentenza impugnata – che in relazione alla ricostruzione dei fatti ascritti all'imputata ed alla sua dichiarazione di responsabilità costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d'appello a quella del Tribunale, sia l'ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove  (Sez. 2, numero 6560 del 08/10/2020, dep. 2021, Capozio, Rv. 280654 – 01; Sez. 2, numero 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 – 01) – ha evidenziato come la condotta intimidatoria posta in essere dalla ricorrente e dal coimputato fosse finalizzata ad ottenere l'illecito corrispettivo di una precedente cessione di stupefacente effettuata dal coimputato F.P.. In ogni caso, rileva il Collegio che, se anche si volesse dar credito alla versione offerta dalla C.T., secondo cui la richiesta costituiva una sorta di risarcimento del danno per il furto di due telefoni che si assume sarebbe stato commesso dalla persona offesa, la condotta comunque non sarebbe sussumibile nell'ipotesi delittuosa di cui all'art 393 cod. penumero Invero, il Collegio intende dare continuità al consolidato orientamento secondo il quale deve essere inquadrata nella fattispecie di cui all'articolo 629 cod. penumero e non in quella di cui all'articolo 393 cod. penumero la condotta di chi, anziché denunziare all'autorità il presunto autore di un furto, richieda a quest'ultimo, con violenza o minacce, la restituzione del profitto del reato (cfr., Sez. 2, numero 7964 del 09/01/2024, Cicconi, numero m.; Sez. 2, numero 22952 del 07/04/2022, Cilla, numero m.; Sez. 2, numero 3516 del 01/12/2022, dep. 2023, La Gamba, numero m.; Sez. 2, numero 9972 del 16/02/2022, Gambacurta, numero m.; Sez. 2, numero 23084 del 09/05/2018, Foti, Rv. 273433 – 01). In particolare, in assenza di qualsiasi accertamento del fatto che il M. si fosse effettivamente reso responsabile del furto dei due telefoni di proprietà della C.T., quest'ultima non aveva all'evidenza alcun diritto a esercitare una propria indagine personale, nei confronti del sospettato, diretta a ottenere, con violenza e minaccia, la restituzione di quanto assumeva esser l'oggetto del furto, con l'ulteriore conseguenza che anche l'asserita convinzione della ricorrente di esercitare un diritto si deve considerare del tutto arbitraria. Da ciò il corretto inquadramento del fatto nel paradigma di cui all'articolo 629 cod. penumero, atteso che, per la configurabilità del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, è necessario che il soggetto agisca per esercitare un proprio diritto – e non la potestà pubblica volta alla individuazione dell'autore di un fatto illecito ed alla repressione dello stesso, che è integralmente attribuita all'autorità di polizia e all'autorità giudiziaria – con la convinzione, non meramente arbitraria, che esso gli possa competere giuridicamente; arbitrarietà che, invece, risulta del tutto evidente in capo a chi ritenga di potere pretendere, con violenza o minaccia, la restituzione del profitto del furto precedentemente commesso ovvero, in alternativa, una somma a titolo di risarcimento da chi soltanto sospetti, in assenza di alcun accertamento in tale senso, di averlo derubato. In altri termini, chi ha subìto un reato non può certo sostituirsi alla pubblica autorità pretendendo di farsi giustizia da sé; anzi, tale condotta denota ancora una maggiore pericolosità del soggetto, che evidentemente si pone completamente al di fuori delle regole dell'ordinamento. 1.2. Anche il secondo motivo non è consentito. Invero, in relazione alla circostanza del fatto di lieve entità, introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale numero 120 del 24/05/2023, il Collegio intende dare continuità all'orientamento secondo il quale non è deducibile con ricorso per cassazione l'omessa motivazione del giudice di appello in ordine al denegato riconoscimento di tale diminuente ove la questione, già proponibile in quella sede, non sia stata prospettata nel secondo grado di giudizio con motivi aggiunti ovvero in sede di formulazione delle conclusioni (cfr., Sez. 2, numero 754 del 24/10/2024, dep. 2025, Passalacqua, numerom.; Sez. 2, numero 19543 del 27/03/2024, G., Rv. 286536 – 01). Va, in proposito, evidenziato che l'articolo 597, comma 5, cod. proc. penumero attribuisce al giudice di appello, a prescindere da una specifica richiesta dell'interessato, la facoltà di applicare d'ufficio anche una o più circostanze attenuanti; che tale potere officioso costituisce, tuttavia, una eccezionale deroga al principio devolutivo ed è espressione della fisiologica valutazione di puro merito che compete al giudice di appello in presenza di elementi di fatto che ne consentano ragionevolmente il riconoscimento; che lo «stretto nesso tra ufficiosità, eccezionalità e discrezionalità del potere attribuito al giudice di appello esclude che il suo mancato esercizio possa configurare un vizio deducibile in cassazione»; che, dunque, la «non decisione» in appello su un beneficio che può essere riconosciuto anche d'ufficio – di cui la parte avrebbe comunque potuto sollecitarne l'esercizio - non è denunciabile come vizio di motivazione per mancanza e, neppure, come violazione di norma processuale stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, tale non essendo l'articolo 597, comma 5, cod. proc. penumero (così, Sez. U, numero 22533 del 25/10/2018, dep. 2019, Salerno, Rv. 275376 – 01, in motivazione, con riferimento al profilo della sospensione condizionale della pena). Siffatta impostazione non è in contrasto con i plurimi arresti che hanno affermato che nel giudizio di cassazione è rilevabile d'ufficio, anche in caso di inammissibilità del ricorso, la nullità sopravvenuta della sentenza impugnata nel punto relativo alla determinazione del trattamento sanzionatorio in conseguenza della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma attinente alla determinazione della pena (cfr., Sez. 2, numero 39988 del 12/09/2024, Bejzak, numerom.; Sez. 2, numero 19938 del 15/5/2024, Ghbar Sine Eddine, Rv. 286432 – 01; Sez. 2, numero 4365 del 15/12/2023, dep. 2024, C., Rv. 285862 – 01, la quale, in applicazione di tale principio, ha annullato con rinvio la sentenza impugnata, rimettendo al giudice di merito la quantificazione della pena, proprio in ragione della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell'articolo 629 cod. penumero a opera della sentenza della Corte costituzionale numero 120 del 2023). Invero, tali decisioni sono intervenute in fattispecie nelle quali – diversamente da quella che si sta scrutinando – il giudizio di appello era stato celebrato prima della pronuncia della Corte costituzionale, di talchè mai la questione avrebbe potuto essere sollevata nel giudizio di secondo grado. Nel caso di specie, dal verbale dell'udienza del 07/10/2024 – per stessa ammissione del difensore – non risulta che sia stato richiesto il riconoscimento della circostanza attenuante del fatto di lieve entità. 2. All'inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. penumero, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.