Dura condanna della CEDU sull’inefficacia delle indagini per la morte di un ex dipendente dell’Ilva

La CEDU ha stigmatizzato il comportamento delle autorità inquirenti italiane per non aver fatto alcuno sforzo per dimostrare il nesso eziologico tra il mesotelioma, che ha ucciso il de cuius dei ricorrenti nel caso in esame, e l’esposizione a sostanze tossiche nell’arco della sua vita lavorativa [...].

[...] Non hanno dato validi motivi per giustificare l'archiviazione della querela, sostenendo piuttosto l'impossibilità di individuare il responsabile della sicurezza per l'avvicendarsi di una pluralità di superiori gerarchici che avevano ricoperto tale incarico. Violato l'art.2 Cedu (diritto alla vita) sotto l'aspetto procedurale. È quanto deciso il 27 marzo nella Laterza e D'Errico c.Italia (ric.30336/22). I ricorrenti sono i familiari di un ex dipendente dell'Ilva, specializzata nella produzione di tubi in ghisa ed acciaio, che morì di tumore al polmone nel 2010 dopo che tra il 1980 ed il 2004 fu esposto ad amianto ed altre sostanze inquinanti (benzene, idrocarburi e diossina). Il lavoratore aveva prestato servizio anche in un'altra azienda siderurgica ed era un fumatore. Nel 2015 denunciarono X per omicidio colposo, ma la querela ed il successivo gravame furono archiviati. Lo Spesal (servizio specializzato per la prevenzione e la sicurezza sul lavoro dell'ASL) vista la mancanza di collaborazione delle aziende coinvolte, che non avevano fornito dati sulle mansioni svolte e sulle misure di sicurezza adottate, malgrado un DM del 10 ottobre 2014 riconoscesse che «i tumori polmonari rientravano tra le patologie per le quali, in caso di esposizione all'amianto, l'origine professionale era considerata altamente probabile», concluse sull'impossibilità di acclarare la malattia professionale per l'assenza di dette informazioni. Una perizia presentata dai ricorrenti invece provava che «qualsiasi esposizione a sostanze di questa natura comportava un rischio di tumore». Essa ha fatto riferimento, in particolare, a segnalazioni relative all'attività inquinante della società Ilva, tra cui la relazione SENTIERI ( Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento ), nonché a uno studio epidemiologico effettuato nel 2013 dall'Agenzia Sanitaria Locale di Taranto, in cui, secondo la perizia, si evidenziava, con riferimento a tutti i soggetti inclusi nello studio, un tasso più elevato di tumori polmonari tra le persone che vivono vicino a siti di emissioni nocive. La perizia concludeva che, alla luce di tali dati, l'esistenza di un nesso causale tra l'attività dello stabilimento Ilva e i casi di tumori polmonari nella provincia di Taranto poteva essere dimostrata, e che tale nesso esisteva a maggior ragione per i dipendenti dello stabilimento di cui trattasi». Vani i ricorsi di opporsi all'archiviazione per i motivi in epigrafe, le Corti interne e la Cassazione hanno sposato la teoria della c.d. dose - correlata elaborata dalla Cass. numero 34341/20, escludendo l'altra della c.d. dose innescante : in base a questa tesi era impossibile determinare il momento d'induzione della malattia per la molteplicità di responsabili alla sicurezza che avevano ricoperto il ruolo e si erano avvicendati nel periodo d'interesse. Non è stato fatto nulla per ricostruire i fatti che hanno portato al decesso del de cuius dei ricorrenti. Contrasti giurisprudenziali Come detto, questa teoria è la prevalente ed è supportata da «uno studio del 2015 intitolato III Italian Consensus Conference on Malignant Pleural Mesothelioma e secondo cui, d'altra parte, si ritiene che anche l'esposizione all'amianto che si verifica dopo l'insorgenza della patologia e durante la cosiddetta fase di induzione della malattia abbia un nesso causale con essa, in quanto contribuisce ad accelerarne la progressione ( effetto accelerante )».  In base a questa tesi «spetta al giudice di merito, in particolare, attraverso un'analisi approfondita della letteratura scientifica pubblicata in tale settore e con l'assistenza di esperti qualificati e indipendenti, valutare l'applicabilità delle teorie esistenti in materia, selezionare le più pertinenti e applicare i principi così individuati alle circostanze del caso di specie, quali risultano dall'indagine, per determinare le esposizioni alla sostanza nociva che sono causalmente correlate alla patologia». L'altra tesi minoritaria è quella della c.d. dose innescante secondo cui deve essere ravvisato un nesso di causalità tra malattia e l'esposizione alle sostanze nocive che hanno contribuito all'insorgere della stessa. Non solo la prassi di legittimità è divisa, ma anche quella di merito con chi sostiene che non si possa accettare la teoria della dose correlata, poichè in assenza di dati scientifici sulla durata della fase d'induzione e dall'analisi di quelli raccolti durante il processo tale nesso non poteva essere determinato (CDA Torino numero2891/18 e Trib. Milano nnumero4988/15 e 4901/17). Altri giudici, invece, la avallano sostenendo che al termine del procedimento sia possibile determinare il periodo corrispondente alla fase di induzione e, quindi, individuare responsabile delle violazioni delle misure di sicurezza (CDA Lecce n .563/17, relativa allo stabilimento Ilva, CDA Milano del 21 marzo 2019 relativa alla causa Fibronit risolta dalla Cass. numero 34341/20). Infine, la recente Cass. numero10209/21 sembra aver cambiato nuovamente idea sostenendo che non può avallare l'una o l'altra teoria, ma che il suo compito è vagliare se la verifica dell'esistenza del nesso eziologico può essere considerata razionale o meno. Principi elaborati nella fattispecie in analisi In primis la Corte chiarisce che l'onere di tutelare la vita anche con indagini effettive ed efficaci, punendo i colpevoli di deroghe a questo diritto può riguardare anche le persone fisiche o giuridiche, non solo le autorità interne, soprattutto in caso di omicidio colposo e di attività industriali che espongano a sostanze nocive. Più precisamente «l'obbligo di disporre di un sistema giudiziario efficace può essere considerato soddisfatto se fornisce ai parenti della vittima un ricorso dinanzi ai giudici civili, da solo o in combinazione con un ricorso dinanzi ai giudici penali, che può portare all'accertamento di un'eventuale responsabilità e alla concessione di un adeguato risarcimento civile». Le indagini devono essere dettagliate e scrupolose. Nella fattispecie detti oneri non sono stati rispettati: i giudici interni hanno fatto un ragionamento circolare escludendo a priori il nesso causale tra il mesotelioma del de cuius dei ricorrenti e l'esposizione a sostanze tossiche dovute al suo lavoro. Al di là della tesi giurisprudenziale prescelta, non è stato fatto alcuno sforzo per raccogliere dati scientifici, le perizie proposte sono state rigettate così come studi e dati da altre analoghe pronunce in materia. I giudici italiani non hanno, dunque, ordinato alcuna supplemento d'indagine per acquisire nuove prove atte a dimostrare tale nesso, sì che non hanno fatto nulla per porre rimedio a queste carenze e l'archiviazione è avvenuta senza motivo: in breve, non è stato rispettato nessuno dei principi elaborati dalla sopra citata giurisprudenza interna di legittimità e di merito. Si noti che non vi è stata alcuna condanna pecuniaria solo perché i ricorrenti non avevano svolto alcuna domanda in tal senso.

CEDU, 27 marzo 2025, Laterza e D’Errico c. Italia (ric. 30336/22)