La disciplina dei beni culturali si fonda sulla presunzione di proprietà statale

Con la sentenza in commento la Suprema Corte si è pronunciata in materia di beni culturali, presunzione di proprietà statale e onere del privato di dimostrare il proprio diritto di proprietà, così da escludere l’integrazione del reato previsto e punito dall’articolo 176 del d.lgs. numero 42/2004.

Ai fini della configurabilità del reato di impossessamento illecito di beni culturali non è richiesto, qualora questi siano appartenenti allo Stato, l'accertamento del c.d. interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo: «è sufficiente infatti, che la “culturalità” sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni». La Suprema Corte, con la sentenza in commento, coglie l'occasione per riprendere la ricostruzione della disciplina della tutela dei beni culturali, la quale è retta da una presunzione di proprietà statale che può essere vinta solo attraverso prova idonea. Pertanto, dal complesso delle disposizioni contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d'interesse archeologico e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti. I beni culturali dunque, ovunque essi si trovino, sia che siano stati oggetto di ritrovamento oppure no, appartengono allo Stato. Ricade in capo al privato, il quale afferma il contrario, l'onere di fornire prova idonea a vincere tale presunzione.

Presidente Ramacci Relatrice Vergine Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 16 febbraio 2024 la Corte di appello di Firenze ha confermato quella del 3 marzo 2021 del Tribunale di Firenze, in composizione monocratica, che aveva assolto R.T. dal reato a lui ascritto, di cui all'articolo 176 D.lgs numero 42/2004, per non aver commesso il fatto, ordinando la confisca del corpo del reato in sequestro e la sua destinazione allo Stato, nella specie Soprintendenza ai beni archeologici, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Firenze. 2. R.T. ha proposto, a mezzo del difensore di fiducia, tempestivo ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 2.1. Con il primo motivo di ricorso il difensore impugna la sentenza deducendo che la motivazione in ordine alla natura archeologica dei beni in sequestro, di poi confiscati, si fonda su prove -l'elaborato peritale del consulente del pubblico ministero, B., acquisita a seguito della sua deposizione, quale teste del P.M., su attività compiute dopo la scadenza del termine delle indagini preliminarila cui inutilizzabilità aveva tempestivamente eccepito; assume in forza di tanto l'erroneità del provvedimento di confisca. 2.2. Col secondo motivo di ricorso il ricorrente eccepisce il vizio di omessa o contraddittoria motivazione, vantando un interesse a vedersi riconosciuta una formula assolutoria più favorevole comportante l'automatica restituzione dei beni in sequestro, ovverosia che il fatto non sussiste, a prescindere quindi dalla prova del legittimo possesso. 2.3. Col terzo motivo contesta violazione dell'articolo 535 cod. proc. penumero in relazione alla intervenuta condanna alle spese del processo, a fronte della pronuncia assolutoria. Considerato in diritto 1. Il primo motivo postula la inutilizzabilità della prova, id est relazione di consulenza svolta dal consulente del pubblico ministero, dopo la scadenza del termine per le indagini preliminari. Il rilievo è infondato. 1.1. La Corte distrettuale ha osservato come la prova utilizzata si sia formata in dibattimento a seguito dell'esame dell'ausiliario nel contraddittorio delle parti; all'esame è seguita l'acquisizione della relazione di consulenza (pur senza il consenso della difesa). La soluzione cui è pervenuta la Corte d'appello è corretta. E, infatti, occorre distinguere, da un lato, il profilo concernente il dato probatorio, acquisito prima della scadenza del termine di espletamento delle indagini preliminari e costituito dai beni posti sotto sequestro, dall'altro l'eventuale e successivo profilo concernente l'attività di esame e di studio compiuta su detto materiale che, se espletata oltre il termine di durata delle indagini preliminari, non consente l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento dei risultati in tal modo conseguiti, ma indiscutibilmente non osta alla formazione della prova a seguito dell'esame dell'ausiliario nel contraddittorio delle parti [cfr. Sez. 3, numero 40774 del 06/06/2019 Ud. (dep. 04/10/2019) Rv. 277164 02, in tema di attività di esame e studio svolto dall'ausiliario oltre il termine delle indagini preliminari su materiale informatico tempestivamente posto in sequestro, e Sez. 4, Sentenza numero 18473 del 06/03/2014, in tema di accertamenti tecnici irripetibili, a proposito dell'attività di esame e di studio espletata oltre il termine di durata delle indagini preliminari dal consulente tecnico del P.M. sulla documentazione e sull'attività tempestivamente compiuta, nella specie esame autoptico]. Nel caso in esame, la prova processualmente utilizzata ai fini della decisione è costituita dall'esame dibattimentale dell'ausiliario e detto esame è stato svolto in relazione al materiale legittimamente acquisito. La Corte territoriale ha dunque legittimamente ritenuto superato, in applicazione del superiore principio, qualsivoglia problema derivante dall'inutilizzabilità della consulenza depositata dopo il decorso del termine di durata delle indagini preliminari per l'assorbente ragione dell'avvenuta conferma delle relative risultanze da parte del consulente nel corso del dibattimento nel contraddittorio tra le parti. 1.2. Tanto premesso la natura archeologica dei beni in sequestro risulta acclarata, e da ciò deriva, necessariamente, l'integrazione del reato contestato, di impossessamento illecito di beni culturali di cui all'articolo 176 del d.lgs. 22 gennaio 2004, numero 42, per il quale non è richiesto, al cospetto di beni che sono appartenenti allo Stato, l'accertamento del cosiddetto interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo sufficiente che la culturalità sia desumibile dalle caratteristiche oggettive dei beni. Caratteristiche che la difesa neppure minimamente contesta. 1.3. Ne deriva, anche, che correttamente è stata disposta la confisca che, nella specie, non ha, certamente, natura sanzionatoria. 1.4. Si richiama, condividendola in toto, la ricostruzione della disciplina della tutela dei beni culturali operata da Sez. 3, numero 16513 del 2021, non massimata, preceduta da Sez. 3, Sentenza numero 24065 del 2018, non massimata, nel cui solco la motivazione della disposta confisca trova fondamento. Beni in relazione ai quali la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, numero 24988 del 16/07/2020 Cc. (dep. 02/09/2020) Rv.279756) ha ritenuto la configurabilità del reato di impossessamento illecito di cui all'articolo 176 dlgs numero 42/2004. Se ne riporta un ampio stralcio: «[...] secondo la giurisprudenza di questa Corte, il reato di impossessamento illecito di beni culturali di cui all'articolo 176 del D.Lgs. numero 42 del 2004 non richiede, quando si tratti di beni appartenenti allo Stato, l'accertamento del cosiddetto interesse culturale, né che i medesimi presentino un particolare pregio o siano qualificati come culturali da un provvedimento amministrativo, essendo sufficiente che la culturalità sia desumibile da caratteristiche oggettive del bene (Sez. 2, numero 36111 del 18/07/2014, Medda, Rv. 260366; Sez. 3, numero 24344 del 15/05/2014, Rapisarda, Rv. 259305; Sez. 3, numero 41070 del 07/07/2011, Saccome e a., Rv. 251295). Del resto, «le cose indicate nell'articolo 10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre settanta anni, se mobili...sono sottoposte alle disposizioni della presente Parte fino a quando non sia stata effettuata la verifica di cui al comma 2» (articolo 12, comma 1, d.lgs. 42 del 2004, come modificato dall'articolo 1, comma 175, lett. c, I. 4 agosto 2017, numero 124, che ha elevato il termine in precedenza fissato in cinquanta anni), vale a dire la verifica della sussistenza di interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico». Prosegue la pronuncia sopra citata (Sez. 3, numero 16513 del 2021), a proposito dell'articolo91, comma 1, d.lgs numero 42 del 2004, con l'affermare: «Tale ultima disposizione prevede che fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le cose di interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo. 8.2. Ancora in termini generali, poi, deve essere ricordato che sui beni culturali vige una presunzione di proprietà pubblica, con la conseguenza che essi appartengono allo Stato italiano in virtù della legge (legge numero 364 del 1909, regio decreto numero 363 del 1913, legge numero 1089 del 1939, articoli 826, comma 2, 828 e 832 del codice civile), la cui disciplina è rimasta invariata con l'introduzione del decreto legislativo numero 42 del 2004. Le Sezioni civili di questa Corte (Sez. 1, numero 2995 del 10/02/2006 in motiv.), in particolare, hanno affermato che la legislazione di tutela dei Beni Culturali, in particolare dei beni archeologici, è informata al presupposto fondamentale, in considerazione dell'importanza che essi rivestono (anche alla luce della tutela costituzionale del patrimonio storico artistico garantita dall'articolo 9 Cost.), dell'appartenenza di detti beni allo Stato (...), per cui l'articolo 826 c.c., comma 2, assegna al patrimonio indisponibile dello Stato le cose d'interesse storico, archeologico, paletnologico, paleontologico e artistico, da chiunque e in qualunque modo ritrovate nel sottosuolo : disciplina confermata dalla L. numero 1089 del 1939, articolo 44, 46,47 e 49, cui rinvia l'art 932 c.c., comma 2. In prosieguo di tempo, prima il d.lgs. 29 ottobre 1999, numero 490, articolo 88, Beni Culturali, che quelle norme ha abrogato (articolo 166), ha disposto che i beni di cui all'articolo 2 (che alla lett. a) enumera le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico o demo-etno-antropologico ), da chiunque e in qualunque modo ritrovati, appartengono allo Stato, e, attualmente, il d.lgs. numero 42 del 2004, nei termini appena sopra richiamati. Sono fatte salve, tuttavia, particolari e tassative ipotesi nelle quali il privato può provare la legittima proprietà di reperti archeologici, dovendo al riguardo dimostrare che questi: 1) gli siano stati assegnati in premio per il loro ritrovamento; 2) gli siano stati ceduti dallo Stato; 3) siano stati acquistati in data anteriore all'entrata in vigore della legge numero 364 del 1909 (anche la giurisprudenza di legittimità ha in generale chiarito che il possesso delle cose di interesse archeologico integra il reato di cui all'articolo 176, comma 1, del d.lgs. numero 42 del 2004 e si presume illegittimo, a meno che il detentore non dimostri di averli legittimamente acquistati in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge numero 364 del 1909, di prima disciplina organica della materia (ex multis, Sez. 3, numero 11269 del 10/12/2019, The Pierpont Morgan Library, Rv. 278764; Sez. 3, numero 37861 del 4/4/2017, PG in proc. R.; Sez. 4, numero 14792 del 22/03/2016, Rv. 266981; Sez. 3, numero 49439 del 04/11/2009, Rv. 245743). 8.3. Da questo complesso di norme, dunque, consegue che la disciplina dei beni culturali è retta da una presunzione di proprietà statale che non crea un'ingiustificata posizione di privilegio probatorio, perché fondata, oltre che sull'id quod plerumque accidit, anche su una normalità normativa sicché, opponendosi una circostanza eccezionale, idonea a vincere la presunzione, deve darsene la prova. Pertanto, dal complesso delle disposizioni, contenute nel codice civile e nella legislazione speciale, regolante i ritrovamenti e le scoperte archeologiche, ed il relativo regime di appartenenza, si ricava il principio generale della proprietà statale delle cose d'interesse archeologico, e della eccezionalità delle ipotesi di dominio privato sugli stessi oggetti (tra le altre, Sez. 3, numero 42485 del 10/6/2015, Almagià)». In conclusione, in continuità con le pronunce citate, dal collegio condivise, può affermarsi che i beni culturali ovunque essi si trovino, sia che siano già stati oggetto di ritrovamento oppure no, appartengono allo Stato. Il privato che affermi al contrario il proprio diritto di proprietà su tali beni può soltanto eccepire che i beni stessi sono stati acquisiti in proprietà privata prima del 1909, ovvero far valere una delle ipotesi in cui la legge statale consente che i beni stessi ricadano in proprietà di privati. In tutte tali ipotesi l'onere di fornire la prova di quanto eccepito grava sul privato. Non muta il quadro normativo il riferimento al d. Lgs. 42/2004, perché i beni archeologici per la definizione dell'articolo 13 sono sempre culturali, a meno che non appartengano ai privati, il che può verificarsi solo nei rari casi sopra passati in rassegna. 1.5. Ebbene, come anticipato, nessuna prova in ordine ad un titolo di proprietà ante 1909 il ricorrente è stato in grado di offrire, sicché la Corte, ha dato puntuale applicazione al principio di diritto affermato dalla Cassazione civile: in difetto di prova di un legittimo titolo di proprietà ante 1909 ne ha confermato la confisca. Del resto, è stato anche chiarito con sentenza sempre della prima sezione civile di questa Corte, numero 2995/06, Rv 586959, che il mancato riconoscimento dell'interesse culturale di oggetti archeologici da parte dell'autorità, a mezzo di apposito atto di notifica , non dimostra il carattere privato del bene, e la sua impossibilità di ascriverlo al patrimonio indisponibile dello Stato (e quindi la possibilità di apprensione o usucapione da parte di privati), essendo il requisito del carattere culturale insito negli stessi beni, per il loro appartenere alla categoria delle cose d'interesse archeologico. 2. Infondato è anche il secondo motivo. Gli argomenti svolti non attengono a profili di violazione di legge o omessa motivazione, ma alla pretesa rivalutazione del merito della vicenda sulla scorta della pretesa assenza della natura dei beni in sequestro di valore culturale. Il motivo, pertanto, è manifestamente infondato per tutto quanto dedotto nella discussione del primo a proposito della sussistenza del reato, pur in difetto della imputabilità dello stesso al ricorrente. 3. Quanto, infine, alle spese del processo le stesse sono state poste a carico dell'appellante, la cui domanda di annullamento o revoca della confisca è stata rigettata, dunque del tutto legittimamente al cospetto del mancato accoglimento dei motivi di appello. 4. Il ricorso è perciò, nella sua totalità, infondato. Consegue l'onere per il ricorrente, ai sensi dell'articolo 616 cod. proc. penumero, di sostenere le spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.