Colloquio con la prole: legittima la richiesta del detenuto anche se la figlia di pochi mesi non è in grado di parlare

Illegittimo negare al detenuto il colloquio con la figlia solo perché quest’ultima ha pochi mesi di vita e, ovviamente, non è ancora in grado di parlare.

Risale ad ottobre 2024 la decisione con cui il Gip risponde negativamente alla richiesta avanzata da un detenuto e mirata ad ottenere l'autorizzazione ad intrattenere colloqui (ordinari e straordinari, in presenza e telefonici) con la figlia che non ha neanche 3 mesi di vita. Proprio quest'ultimo dettaglio è centrale nel ragionamento compiuto dal giudice, il quale sostiene che la normativa – ossia il Regolamento sull'ordinamento penitenziario – «presuppone che i figli minori siano in condizione di partecipare al colloquio», circostanza che, invece, «deve escludersi, nel caso specifico, in considerazione dell'età della figlia del detenuto». Questa linea di pensiero è fortemente criticata dall'avvocato che rappresenta il detenuto. Così, col ricorso in Cassazione, la difesa sostiene che il Gip non abbia fatto buon governo della normativa, in cui «è prevista la possibilità», per i detenuti, «di colloqui con la prole di età inferiore ai 10 anni, senza indicare come requisito la capacità del minore di partecipazione al colloquio». A corroborare questa obiezione anche l'osservazione compiuta dal Sostituto Procuratore Generale, il quale evidenzia che «l'istituto dei colloqui con i familiari è strumentale alla funzione rieducativa e risocializzante del condannato». Per la Cassazione, è palese l'errore compiuto dal Gip, il quale ha correttamente richiamato la normativa che «prevede, per i colloqui con prole di età inferiore ai 10 anni, la possibilità di deroga ai limiti ordinari (quattro colloqui al mese)», ma «ne ha fatto un'applicazione da ritenersi contraria sia alla lettera della norma, sia alla ratio che vi è sottesa». Sotto il primo profilo, «la normativa contiene una previsione di favore per i colloqui del detenuto con i figli minori di 10 anni, senza fare alcuna distinzione con riferimento alle loro condizioni, bensì includendo quali destinatari del più vantaggioso trattamento tutti i minori di età non superiore a quella espressamente individuata. Invece, il Gip ha fissato una limitazione al di là della lettera della legge, nel senso che ha ritenuto che la indicazione di agevolazione per i colloqui operi – con riferimento al novero dei minori di 10 anni – solo a partire da quando i minori stessi siano in condizioni di partecipare al colloquio. Ma in questo modo il Gip», continuano i Giudici, «ha inammissibilmente ricompreso, tra i motivi per cui può eventualmente rigettarsi l'autorizzazione ai colloqui, il fatto – non espressamente previsto dal legislatore – che il familiare del detenuto non sia in grado di comunicare verbalmente». E questa è «una statuizione che evidentemente si basa su una interpretazione strettamente letterale del termine colloquio , nella sua accezione di dialogo  o conversazione verbale». Invece, «più opportunamente, dovrebbe attribuirsi a questo termine – ove applicato al peculiare profilo del mantenimento, da parte del detenuto, di contatti con il mondo esterno, e in particolare, con la sua famiglia – il significato, in generale, di occasione di comunicazione tra congiunti (in particolare, tra padre e figli), comunicazione che si esprime attraverso molteplici forme, altrimenti dovendosi ritenere che prima che un figlio impari a parlare sia preclusa ogni possibilità di relazione significativa con i genitori e che al detenuto debba conseguentemente essere negato qualsiasi contatto con i figli nella primissima fase della loro vita», osservano i Giudici. Detto ciò, viene aggiunto un ulteriore dettaglio: «la norma sui colloqui non prevede alcuna distinzione di disciplina a seconda che il minore di 10 anni sia in grado di parlare o meno». Di conseguenza, «ogni decisione che introduca in concreto tale distinzione è da ritenersi contraria anche alla ratio della disciplina dei rapporti del detenuto con la propria famiglia, come complessivamente ricavabile dall'ordinamento penitenziario» che «espressamente prevede, tra gli elementi del trattamento penitenziario rieducativo, l'agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno e dei rapporti con la famiglia». Peraltro, «i colloqui servono anche ai familiari per mantenere contatti con il detenuto, ma sono previsti soprattutto per il detenuto stesso, il quale, attraverso il mantenimento delle relazioni con le persone a lui più care, conserva un legame con il mondo esterno e con la società in cui dovrà reinserirsi» una volta uscito di prigione. In questa ottica, quindi, «le disposizioni sui colloqui sono», annotano i Giudici, «tra quelle attraverso cui più significativamente si realizza la tutela della sfera familiare e affettiva del detenuto, tutela che costituisce uno degli elementi del percorso rieducativo». Non a caso, «particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari e particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni 14». In definitiva, «i rapporti» del detenuto «con la famiglia sono considerati come uno dei principi cardine della legge penitenziaria» e perciò «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con la famiglia» e il trattamento in carcere deve essere impostato «in modo da evitare che i legami affettivi stabili siano interrotti ovvero compromessi dallo stato detentivo». Ciò comporta una conseguenza chiarissima: «l'autorità competente a decidere sui colloqui con i familiari ha un limitatissimo potere di negarli», anche perché «i provvedimenti che decidono sulle istanze dei detenuti in materia di colloqui incidono su diritti soggettivi». E «tra i (ristretti) motivi per cui l'autorizzazione ai colloqui con la prole di età inferiore ai 10 anni può essere eventualmente negata», chiosa la Suprema Corte di Cassazione, «non può farsi rientrare la circostanza che il figlio non disponga ancora dell'uso della parola».

Presidente Casa - Relatore Valiante Ritenuto in fatto 1. Con ordinanza resa in data 9/10/2024, il g.i.p. del Tribunale di Marsala ha provveduto su una istanza, presentata nell'interesse del detenuto Z.M.B., di autorizzazione a intrattenere colloqui ordinari e straordinari, in presenza e telefonici, con la figlia minore, nata il (OMISSIS). Il g.i.p. ha rigettato l'istanza, osservando che l'articolo 37, comma 9, D.P.R. numero 230 del 2000 presuppone che i figli minori siano in condizione di partecipare al colloquio, ciò che nel caso di specie deve escludersi in considerazione dell'età della figlia del detenuto. 2. Avverso tale provvedimento, ha proposto ricorso il difensore di Z.M.B., articolando un unico motivo, con il quale deduce, ai sensi dell'articolo 606, lett. b), cod. proc. penumero, la violazione dell'articolo 37, comma 9, D.P.R. numero 230 del 2000. Censura che il g.i.p. non abbia fatto buon governo della norma in questione, nella quale è prevista la possibilità di colloqui con la prole di età inferiore ai dieci anni, senza indicare come requisito la capacità del minore di partecipazione al colloquio. 3. Con requisitoria scritta del 28.11.2024, il Sostituto Procuratore generale ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza impugnata, evidenziando che l'istituto dei colloqui con i familiari è strumentale alla funzione rieducativa e risocializzante del condannato. Considerato in diritto Il ricorso è fondato. 1. L'ordinanza impugnata, infatti, è viziata da un'erronea interpretazione della norma da applicare al caso specifico. Il giudice procedente ha richiamato, ai fini del rigetto dell'istanza sottoposta al suo esame, l'articolo 37, comma 9, D.P.R. numero 230 del 2000, che, per i colloqui con prole di età inferiore ai dieci anni, prevede la possibilità di deroga ai limiti ordinari stabiliti nel precedente comma 8 (quattro colloqui al mese). Tuttavia, ne ha fatto un'applicazione da ritenersi contraria sia alla lettera della norma, sia alla ratio che vi è sottesa. Sotto il primo profilo, l'articolo 37, comma 9, D.P.R. numero 230 del 2000 contiene una previsione di favore per i colloqui del detenuto con i figli minori di dieci anni senza fare alcuna distinzione con riferimento alle loro condizioni, bensì includendo quali destinatari del più vantaggioso trattamento tutti i minori di età non superiore a quella espressamente individuata. L'ordinanza impugnata, invece, ha fissato una limitazione al di là della lettera della legge, nel senso che ha ritenuto che la indicazione di agevolazione per i colloqui operasse - con riferimento al novero dei minori di dieci anni - solo a partire da quando i minori stessi fossero in condizioni di partecipare al colloquio . Ma in questo modo il giudice ha inammissibilmente ricompreso, tra i motivi per cui può eventualmente rigettarsi l'autorizzazione ai colloqui, il fatto - non espressamente previsto dal legislatore - che il familiare del detenuto non sia in grado di comunicare verbalmente. Si tratta di una statuizione che evidentemente si basa su una interpretazione strettamente letterale del termine colloquio , nella sua accezione di dialogo o conversazione verbale. Più opportunamente, invece, dovrebbe attribuirsi a questo termine - ove applicato al peculiare profilo del mantenimento da parte del detenuto di contatti con il mondo esterno, e in particolare, con la sua famiglia - il significato, in generale, di occasione di comunicazione tra congiunti (in particolare, tra padre e figli), la quale si esprime attraverso molteplici forme, dovendosi altrimenti ritenere che prima che un figlio impari a parlare sia preclusa ogni possibilità di relazione significativa con i genitori e che al detenuto debba conseguentemente essere negato qualsiasi contatto con la prole nella primissima fase di vita. 2. Resta, in ogni caso, il fatto che la norma sui colloqui non preveda alcuna distinzione di disciplina a seconda che il minore di dieci anni sia in grado di parlare o meno e che ogni decisione che la introduca in concreto è da ritenersi contraria anche alla ratio della disciplina dei rapporti del detenuto con la propria famiglia, come complessivamente ricavabile dall'ordinamento penitenziario. L'articolo 15 L. numero 354 del 1975 prevede espressamente, tra gli elementi del trattamento penitenziario rieducativo, l'agevolazione di opportuni contatti con il mondo esterno e dei rapporti con la famiglia. I colloqui servono anche ai familiari per mantenere contatti con il detenuto, ma sono previsti soprattutto per il detenuto stesso, il quale, attraverso il mantenimento delle relazioni con le persone a lui più care, conserva un legame con il mondo esterno e con la società nella quale dovrà reinserirsi. In questo contesto, le disposizioni sui colloqui sono tra quelle attraverso cui più significativamente si realizza la tutela della sfera familiare e affettiva del detenuto, che costituisce uno degli elementi del percorso rieducativo. Sotto tale profilo, l'articolo 18 L. numero 354 del 1975 prevede espressamente al comma 4 che particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari e prima ancora al comma 3 che particolare cura è dedicata ai colloqui con i minori di anni quattordici . La conferma che i rapporti con la famiglia siano considerati come uno dei principi cardine della legge penitenziaria si rinviene nel successivo articolo 28 L. numero 354 del 1975, il quale, prevedendo che particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con la famiglia , esige che il trattamento sia impostato in modo da evitare che i legami affettivi stabili siano interrotti ovvero compromessi dallo stato detentivo. Questo vuol dire che l'autorità competente a decidere sui colloqui con i familiari ha un limitatissimo potere di negarli, tanto che si è ritenuto, in genere, che i provvedimenti che decidono sulle istanze dei detenuti in materia di colloqui incidono su diritti soggettivi. E tra i (ristretti) motivi per cui l'autorizzazione ai colloqui con la prole di età inferiore di dieci anni può essere eventualmente rigettata, non può farsi rientrare - per le ragioni che si sono sopra esposte - la circostanza che il minore non disponga ancora dell'uso della parola. 3. Ne consegue, pertanto, che l'ordinanza impugnata deve essere annullata, con rinvio al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Marsala per un nuovo esame dell'istanza alla luce dei principi sopra richiamati. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Marsala.