A sorpresa la Cassazione smentisce completamente le valutazioni compiute dai giudici di merito, i quali avevano ritenuto, sia in primo che in secondo grado, l’autore dello scritto condiviso sul social network colpevole di diffamazione.
Riflettori puntati sulla città di Amalfi. A sollevare un polverone, con annesso strascico giudiziario, è uno scritto condiviso su Facebook da un consigliere comunale di minoranza, il quale attacca il sindaco e i membri della giunta, criticandoli per il mancato contrasto al degrado cittadino, imputato all’eccessivo accesso di pullman, e arrivando però a definirli “maledetti” e “assassini”. Inevitabile la reazione dei destinatari del messaggio condiviso on line. E questa reazione fa ritrovare il consigliere comunale condannato, sia in primo che in secondo grado, per il reato di diffamazione, commesso, sanciscono i giudici di merito, «pubblicando un post dal contenuto offensivo sul social network e ledendo così l’onore e la reputazione del sindaco e dei componenti della giunta del Comune di Amalfi». Questa valutazione viene criticata dall’avvocato che difende il consigliere comunale. Col ricorso in Cassazione, difatti, il legale sostiene sia stata «erroneamente esclusa la sussistenza dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica politica, posto che l’autore del post, nella sua veste di interlocutore politico della giunta comunale, si è limitato ad esporre questioni di interesse pubblico in quanto afferenti la salute della comunità cittadina. Ed in tal senso le frasi utilizzate erano strettamente funzionali allo scopo di manifestare la propria disapprovazione, senza trascendere in ingiustificate aggressioni ad hominem». Prima di esaminare la questione sollevata dalla difesa, i magistrati di Cassazione ribadiscono un punto fermo fissato in appello: «le offese sono state dirette nei confronti di soggetti determinati o comunque agevolmente identificabili», poiché nello scritto incriminato «non solo viene formulato un espresso riferimento nominativo alla persona del sindaco, ma altresì i giudizi critici – e conseguentemente anche le espressioni utilizzate – sono stati indirizzati anche nei confronti dell’intera amministrazione guidata dal primo cittadino e sono stati collegati al mancato contrasto al degrado cittadino, imputato all’eccessivo accesso di pullman al territorio comunale». Tirando le somme, il consigliere comunale «ha inteso indirizzare la censura nei confronti di coloro che avevano» all’epoca «il potere decisionale di arginare il fenomeno censurato, ossia i componenti della giunta comunale». Detto ciò, resta da sciogliere il nodo relativo alla possibilità di collegare il post alla critica politica. Su questo fronte, in particolare, «i giudici d’appello hanno riconosciuto come la prima parte dello scritto incriminato possa ritenersi riconducibile all’alveo del legittimo esercizio del diritto di critica politica, ma hanno al contempo evidenziato come il consigliere comunale abbia accompagnato il proprio giudizio critico con espressioni, quali “assassini” e “maledetti”, intrinsecamente lesive dell’onore e della reputazione delle persone offese» e, soprattutto, «del tutto gratuite in quanto non funzionali alla manifestazione del pensiero legittimamente espresso» di contestazione all’operato del sindaco e degli assessori. Per inquadrare la questione, comunque, i magistrati di Cassazione richiamano un principio fondamentali, ribadendo che «il rispetto del principio di verità si declina peculiarmente» a fronte di una critica, poiché questa «ha per sua natura, quale espressione di opinione meramente soggettiva, natura di carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica». Ragionando in questa prospettiva, quindi, «il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, che si specifichi nell’esercizio del diritto di critica ovvero di asserzione di verità, deve, comunque, essere contemperato con i principi costituzionali relativi ai diritti inviolabili dell’uomo e alla pari dignità di tutti i cittadini. In questo senso, anche l’errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude il dolo richiesto dalla norma, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità ed essendo sufficiente la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa». In sostanza, «anche la formulazione del pensiero critico non può ritenersi avulsa dalla necessaria continenza, non potendo esso essere espresso mediante eccessive forme di biasimo e di riprovazione», precisano i magistrati di Cassazione. Ampliando l’orizzonte, poi, il limite all’esercizio del diritto di critica è costituito in definitiva dal fatto che essa non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui», osservano ancora i giudici di terzo grado, i quali aggiungono poi che «se l’esimente» relativa al diritto di critica «postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, ciò non vieta» però «l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato». E proprio ragionando in questa ottica, i magistrati di Cassazione fanno presente che «il termine “maledetto” ha progressivamente perduto nel linguaggio comune qualsiasi funzione di epiteto ingiurioso e, comunque, per la sensibilità generale, qualsiasi carattere effettivamente offensivo, traducendosi in una mera espressione di rancore o di imprecazione a cui rimane estranea la necessaria attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona offesa in grado di gettare su di essa una luce negativa. A maggior ragione quando, come nella vicenda in esame, il termine non assume la natura di aggettivo sostantivato». Dunque, «sotto questo profilo, la condotta del consigliere comunale deve ritenersi penalmente irrilevante», sanciscono i magistrati. Per quanto concerne invece il termine “assassini”, «esso, se astrattamente considerato, presenta invece un’effettiva attitudine lesiva dell’altrui reputazione», ma «i giudici di merito sono venuti meno», osservano i magistrati di Cassazione, «all’onere di valutarne l’utilizzo nel contesto in cui si inserisce e nel concreto significato che il consigliere comunale ha inteso attribuirgli». Difatti, «è evidente», sempre per i giudici di terzo grado, «che l’uomo non abbia voluto accusare le persone offese di aver ucciso alcuno, né di avere intenzione di farlo. L’impiego in chiave iperbolica del termine ha» avuto «dunque un evidente fine provocatorio» e ha assunto «una funzione meramente rafforzativa della critica articolata nella prima parte del messaggio, al fine di sottolineare la ritenuta gravità dei fatti denunziati». Allora, «deve escludersi che il consigliere comunale abbia travalicato i limiti della continenza, posto che, soprattutto nell’ambito della manifestazione del pensiero su temi politici e della censura di coloro che ricoprono cariche pubbliche, la critica può assumere forme anche aspre», chiosano i magistrati. Tirando le somme, nessuna sanzione per il consigliere comunale finito sotto processo, poiché «ha agito nell’esercizio del diritto di critica politica».
Presidente Pezzullo – Relatore Pistorelli Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte d'appello di Salerno ha confermato la condanna di C.A. per il reato di diffamazione aggravata, commesso pubblicando un post sul social media (OMISSIS) dal contenuto offensivo ledendo così l'onore e la reputazione del sindaco e dei componenti della giunta del Comune di (OMISSIS). 2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato articolando tre motivi. Con il primo deduce vizi della motivazione della pronunzia impugnata. Sotto un primo profilo eccepisce il ricorrente l'inconfigurabilità del reato contestato difettando la ragionevole certezza della riferibilità a soggetti determinati dei giudizi contenuti nello scritto incriminato. In secondo luogo lamenta che i giudici territoriali avrebbero erroneamente escluso la sussistenza dell'esimente dell'esercizio del diritto di critica politica, posto che l'imputato, nella sua veste di interlocutore politico della giunta comunale, si sarebbe limitato ad esporre questioni di interesse pubblico in quanto afferenti la salute della comunità cittadina. Ed in tal senso le frasi utilizzate sarebbero strettamente funzionali allo scopo di manifestare la propria disapprovazione, senza trascendere in ingiustificate aggressioni ad hominem. Ulteriori vizi di motivazione vengono denunziati con il secondo motivo in merito alla commisurazione della pena ed al denegato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'articolo 131-bis c.p., nonché con il terzo motivo con riguardo alla condanna dell'imputato al pagamento di una provvisionale in favore delle parti civili. 3. Il difensore delle parti civili ha depositato memoria con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese sostenute dai propri assistiti nel grado. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. 2. Invero infondato è il primo motivo. Il giudice dell'appello abbia correttamente ritenuto che le offese fossero dirette nei confronti di soggetti determinati o comunque agevolmente identificabili, atteso che nello scritto di cui si tratta non solo viene formulato un espresso riferimento nominativo alla persona del sindaco D.M., ma altresì i giudizi critici - e conseguentemente anche le espressioni oggetto di contestazione - vengono indirizzati anche nei confronti dell'intera amministrazione guidata dal medesimo e collegati al mancato contrasto al degrado cittadino imputato all'eccessivo accesso di pullman al territorio comunale. È dunque evidente che l'imputato abbia inteso indirizzare la censura nei confronti di coloro che avevano il potere decisionale di arginare il fenomeno censurato, ossia e per l'appunto i componenti della giunta comunale, come correttamente sostenuto dai giudici del merito. 3. Coglie invece nel segno il secondo motivo, al cui accoglimento consegue l'assorbimento del terzo. 3.1 La Corte territoriale ha riconosciuto come la prima parte dello scritto incriminato possa ritenersi riconducibile all'alveo del legittimo esercizio del diritto di critica politica, ma ha al contempo evidenziato come l'imputato abbia accompagnato il proprio giudizio critico con espressioni intrinsecamente lesive dell'onore e della reputazione delle persone offese, quali (OMISSIS) e (OMISSIS) , ritenute del tutto gratuite in quanto non funzionali alla manifestazione del pensiero legittimamente espresso. 3.2 In proposito va anzitutto ricordato che con riguardo alla citata esimente la giurisprudenza di questa Corte si esprime ormai in termini consolidati nel senso per cui il rispetto del principio di verità si declina peculiarmente, in quanto la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva ed asettica (Sez. 5, numero25518 del 26/09/2016, dep. 2017, Volpe, Rv. 270284, Sez. 5, numero7715 del 04/11/2014, dep. 2015, Caldarola). Nella delineata prospettiva, il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero che si specifichi nell'esercizio del diritto di critica ovvero di asserzione di verità deve, comunque, essere contemperato con i principi costituzionali di cui agli articolo 2 e 3 Cost. In questo senso, anche l'errore sulla veridicità dei fatti o sulla correttezza dei giudizi oggetto della condotta incriminata non esclude, tuttavia, il dolo richiesto dalla norma perché non ricade sugli elementi costitutivi della fattispecie, potendo il reato essere consumato anche propalando la verità, ed essendo sufficiente, ai fini della configurabilità dell'elemento soggettivo, la consapevolezza di formulare giudizi oggettivamente lesivi della reputazione della persona offesa (Sez. 5, numero47973 del 07/10/2014, De Salvo, Rv. 261205). Conseguentemente anche la formulazione del pensiero critico non può ritenersi avulsa dalla necessaria continenza, non potendo il medesimo essere espresso mediante eccessive forme di biasimo e di riprovazione. 3.3 Siffatta impostazione si pone inoltre in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, secondo cui la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in con l'articolo 10 CEDU, a meno che non sia «prescritta dalla legge», non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex articolo 10 par. 2 e non sia «necessaria in una società democratica». In riferimento agli enunciati limiti, la Corte EDU ha, in varie pronunce, sviluppato il principio inerente la 'verità del fatto narrato' per ritenere 'giustificabile' la divulgazione lesiva dell'onore e della reputazione: ed ha declinato l'argomento in una duplice prospettiva, distinguendo tra dichiarazioni relative a fatti e dichiarazioni che contengano un giudizio di valore, sottolineando come anche in quest'ultimo sia comunque sempre contenuto un nucleo fattuale che deve essere sia veritiero che oggettivamente sufficiente per permettere di trarvi il giudizio, versandosi, altrimenti, in affermazione offensiva 'eccessiva', non scriminabile perché assolutamente priva di fondamento o di concreti riferimenti fattuali. In tal senso, la Corte Europea si riferisce principalmente al diritto di critica, politica, etica o di costume e, in generale, a quel diritto strettamente contiguo, sempre correlato con il diritto alla libera espressione del pensiero, che è il diritto di opinione, indicando quali siano i limiti da non travalicare nel caso di critica politica. Nella delineata prospettiva si pone la sentenza CEDU Mengi vs. Turkey, del 27.2.2013, che costituisce ancora la più avanzata ricognizione della posizione della Corte in materia di articolo 10 della Carta nella distinzione tra diritto di critica e diritto di cronaca, distinguendo tra statement of facts (oggetto di prova) e value judgements (non suscettibili di dimostrazione), rilevando come nel secondo caso il potenziale offensivo della propalazione, nella quale è tollerabile - data la sua natura - 'exaggeration or even provocation', sia neutralizzato dal fatto che la stessa si basi su di un nucleo fattuale (veritiero e rigorosamente controllabile) sufficiente per poter trarre il giudizio di valore negativo; se il nucleo fattuale è insufficiente, il giudizio è 'gratuito' e pertanto ingiustificato e diffamatorio. Nel quadro così sommariamente delineato, ove il giudice pervenga, attraverso l'esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest'ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell'esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione (Sez. 5, numero 2247 del 02/07/2004, Rv. 231269; Sez. 1, numero 23805 del 10/06/2005, Rv. 231764), sempre che sussista un rapporto di leale confronto tra l'opinione critica ed il fatto che la genera. Il limite immanente all'esercizio del diritto di critica è, pertanto, costituito in definitiva dal fatto che essa non sia avulsa da un nucleo di verità e non trascenda in attacchi personali finalizzati ad aggredire la sfera morale altrui (ex multis Sez. 5, numero 31263 del 14/09/2020, Capozza, Rv. 279909). In tal senso si è però contestualmente precisato che se l'esimente in questione postula una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell'altrui reputazione, ciò non vieta l'utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, abbiano anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato (ex multis Sez. 5, numero 17243 del 19/02/2020, Lunghini, Rv. 279133). 4. Alla luce delle rassegnate e condivise coordinate ermeneutiche deve ritenersi che i giudici del merito non abbiano fatto corretta applicazione die principi illustrati. 4.1 Premesso che in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase o dei singoli termini che si assumono lesivi della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva della condotta ritenuta diffamatoria (ex multis Sez. 5, numero 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145), va anzitutto osservato come il termine maledetto (nel caso di specie declinato al plurale) abbia progressivamente perduto nel linguaggio comune qualsiasi funzione di epiteto ingiurioso e, comunque, per la sensibilità generale qualsiasi carattere effettivamente offensivo, traducendosi in una mera espressione di rancore o di imprecazione alla quale rimane estranea la necessaria attribuzione di qualità sfavorevoli alla persona offesa in grado di gettare una luce negativa su quest'ultima. A maggior ragione quando, come nel caso di specie, lo stesso non assume la natura di aggettivo sostantivato. Dunque, sotto questo profilo, la condotta del C.A. deve ritenersi penalmente irrilevante. 4.2 Ciò detto, con riguardo all'altro termine sul quale si è accentrata l'attenzione della Corte territoriale (OMISSIS) , il quale, se astrattamente considerato, presenta invece un'effettiva attitudine lesiva dell'altrui reputazione, i giudici del merito sono venuti meno all'onere di valutarne l'utilizzo nel contesto in cui si inserisce e nel concreto significato che l'imputato ha inteso attribuirgli. È infatti evidente che egli non abbia voluto accusare le persone offese di aver ucciso alcuno, né di avere intenzione di farlo. L'impiego in chiave iperbolica del termine ha dunque un evidente fine provocatorio e assume una funzione meramente rafforzativa della critica articolata nella prima parte del messaggio, al fine di sottolineare la ritenuta gravità dei fatti denunziati. In tal senso correttamente inteso deve allora escludersi che l'imputato abbia travalicato i limiti della continenza, posto che, soprattutto nell'ambito della manifestazione del pensiero su temi politici e della censura di coloro che ricoprono cariche pubbliche, per consolidato orientamento di questa Corte la critica può assumere forme anche aspre. 4.3 Pertanto deve ritenersi che il fatto non costituisca reato, avendo agito il C.A. nell'esercizio del diritto di critica politica. Conseguentemente la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio e deve altresì essere disposta la revoca delle statuizioni civili adottate nei diversi gradi del giudizio di merito. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.