Non basta la buona fede per evitare l’illecito disciplinare. Ai fini dell’imputabilità dell’infrazione, infatti, è sufficiente la volontarietà con la quale è stato computo l’atto deontologicamente scorretto.
Questo, in sintesi, il principio affermato dal Consiglio Nazionale Forense, nella sentenza numero 325/2024, pubblicata il 19 febbraio 2025 sul sito del Codice deontologico. I fatti Il procedimento prende le mosse dall'esposto di un ex cliente nei confronti dell'avvocato, nel quale si lamentavano varie omissioni attribuite al professionista, al quale l'esponente si era rivolto per essere assistito in una controversia nei confronti di un istituto bancario. Veniva aperto procedimento disciplinare, all'esito del quale il Consiglio distrettuale di disciplina riteneva l'incolpato responsabile della violazione relativa all'omessa tempestiva costituzione in giudizio ed alla partecipazione all'udienza del subprocedimento per l'inibitoria, rilevando come «tra i doveri di diligenza del professionista rientri anche quello di accertarsi presso il domiciliatario e/o di accedere al fascicolo d'ufficio per effettuare le opportune verifiche». La responsabilità, tuttavia, veniva considerata attenuata, sia in ragione della presenza del codifensore domiciliatario, sia del mutamento dell'orientamento della giurisprudenza relativa all'oggetto del contenzioso civile patrocinato, che rendeva più che probabile l'accoglimento dell'inibitoria e dell'appello nel merito. Il professionista veniva pertanto sanzionato con l'avvertimento. Il ricorso L'avvocato proponeva impugnazione chiedendo il proscioglimento dall'addebito, in quanto non aveva potuto partecipare incolpevolmente alla camera di consiglio, non essendone stato informato dalla collega domiciliataria. In merito, escludeva la sussistenza di un obbligo di vigilanza nei confronti dell'attività della stessa, la quale, non era semplice domiciliataria bensì codifensore nel procedimento de quo. Ribadiva, in sostanza, di aver agito con la doverosa diligenza professionale e di non aver violato alcun precetto deontologico. La buona fede Il CNF, tuttavia, afferma che in ordine all'elemento soggettivo, ai fini dell'integrazione dell'illecito disciplinare, la costante giurisprudenza ritiene sufficiente, «la suitas della condotta, come volontà consapevole dell'atto che si compie; non è necessario, infatti, un dolo generico ovvero specifico, ma è sufficiente la volontarietà con la quale l'atto deontologicamente rilevante è stato compiuto ovvero omesso» (cfr., da ultimo, CNF 242/2022). Peraltro, l'illecito, aggiunge il Consiglio, «non è scriminato neppure dalla buona fede, elemento del quale si può tenere conto ai fini della determinazione-quantificazione della sanzione» (cfr. CNF 269/2022). La giurisprudenza precisa, inoltre, che «la “dimenticanza” non può costituire esimente e perciò derogare all'obbligo di dare istruzioni e informazioni al collega» (CNF 50/2019). La decisione Nel caso concreto, riassume quindi il CNF, da un lato, il CDD, nell'incertezza sulla circostanza oggettiva se l'incolpato abbia ricevuto o meno comunicazione/notizia da parte del codifensore domiciliatario, ha comunque posto l'accento sul dovere di diligenza dell'avvocato, sottolineando che il ricorrente si sarebbe dovuto adoperare per verificare, anche accedendo al fascicolo d'ufficio, l'eventuale proposizione del ricorso. Dall'altro, il ricorrente esclude la sussistenza di violazioni di carattere deontologico e di un'eventuale culpa in vigilando. Per cui, «richiamato il principio che le sole dichiarazioni dell'esponente non bastano a ritenere provato l'illecito e ribadito che nel caso concreto lo stesso CDD ha escluso che sia stata provata la conoscenza del subprocedimento in capo all'incolpato – il Collegio ritiene – di dover dare prevalenza al principio generale della presunzione di non colpevolezza, espresso nel noto brocardo in dubio pro reo». La prova della violazione deontologica – conclude il CNF – «non può ritenersi infatti sufficientemente raggiunta e l'insufficienza induce a ritenere fondato un ragionevole dubbio sulla sussistenza della responsabilità dell'incolpato, che pertanto va prosciolto dall'addebito, in quanto, per l'irrogazione della sanzione disciplinare, non incombe all'incolpato l'onere di dimostrare la propria innocenza, né di contestare espressamente le contestazioni rivoltegli, ma è onere del CDD verificare in modo approfondito la sussistenza e l'addebitabilità dell'illecito deontologico». Per cui, il ricorso è accolto.
CNF, sentenza numero 325/2024