Medico dell’INPS accusato e condannato per molestie sessuali compiute durante alcune visite: legittimo ritenere colpevole anche l’istituto previdenziale quale datore di lavoro, con annesso obbligo risarcitorio in favore della vittima delle condotte tenute dal dottore.
Per risalire all’origine della vicenda bisogna tornare indietro di dieci anni, quando una donna accompagna il figlio, che accusa patologie invalidanti, ad una visita medica presso l’INPS e ciò per vedere confermata la prestazione assistenziale riconosciuta in favore del ragazzo. Nel corso della visita, il medico fa avvicinare la madre al paziente – che è steso sul lettino e, quindi, non ha il viso rivolto verso il medico e la donna– e, all’improvviso, le palpeggia ripetutamente il seno. A fronte di tale situazione, però, la donna decide di non reagire, soprattutto per non allarmare il figlio, che, tuttavia, pare comunque accorgersi di quanto accaduto, tanto da scoppiare a piangere. E proprio di fronte alle lacrime del ragazzo, il medico si ferma e interrompe la condotta di palese violenza ai danni della donna. Immaginabile lo shock della vittima, che scoprirà poi di non essere stata l’unica vittima del medico. Difatti, dell’episodio, che l’ha vista vittima, sono state effettuate, all’insaputa sua e del medico, delle riprese. Ciò perché il medico, a seguito della denuncia presentata da altre vittime di molestie sessuali da lui compiute in analoghe circostanze di luogo e di occasione, cioè in occasioni di visite, è stato sottoposto procedimento penale e «nel corso delle indagini preliminari sono state disposte anche delle riprese ambientali». Il fronte penale si conclude in Tribunale con una condanna del medico a nove anni di reclusione per violenza sessuale reiterata in danno di diverse donne. In ambito penale, però, la donna non si è costituita parte civile, e così ella cita in giudizio l’INPS quale datore di lavoro del medico condannato, e ottiene, sia in primo che in secondo grado, un risarcimento di poco superiore a 52mila euro. Col ricorso in Cassazione i legali che rappresentano l’INPS puntano a mettere in discussione la responsabilità attribuita all’ente previdenziale quale datore di lavoro del medico condannato. In quest'ottica, perciò, la difesa evidenzia due elementi: primo, «la sentenza penale di condanna emessa dal Tribunale nei confronti del medico non può, in quanto non passata in giudicato, fare stato ai fini civili»; secondo, «la liquidazione di oltre 50mila euro è eccessiva e comunque immotivata alla stregua delle risultanze del caso». Per quanto concerne il primo aspetto, i Giudici ritengono corretto l’operato dei giudici di merito, i quali «hanno rivalutato i fatti a prescindere dal passaggio in giudicato della pronuncia di condanna». Ciò alla luce del principio secondo cui «il giudice civile può avvalersi, ai fini della statuizione risarcitoria e indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisca il processo penale, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre che utilizzare prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata – in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni – non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva». Peraltro, «il nesso di occasionalità tra le funzioni di medico della previdenza sociale e la condotta di violenza sessuale è evidente», anche perché «il medico, al momento in cui palpeggiò reiteratamente la donna nell’ambulatorio dell’INPS, era già sottoposto a procedimento penale perché aveva commesso episodi analoghi a quello e tutti in costanza dell’espletamento delle proprie funzioni di medico dell’istituto, cosicché alcune vittime delle violenze avevano sporto denuncia e la Procura della Repubblica aveva iniziato a svolgere indagini preliminari, anche a mezzo di telecamere e comunque di mezzi di videoripresa». Poi, ampliando l’orizzonte, i Giudici richiamano il principio secondo cui «in tema di fatto illecito, la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto del dipendente non richiede che tra le mansioni affidate all’autore dell’illecito e l’evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente che ricorra un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che le incombenze assegnate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo». Sul fronte della liquidazione dei danni, quantificati in oltre 52mila euro, la Cassazione respinge in modo secco le obiezioni sollevate dai legali dell’INPS e pone in evidenza, invece, «la gravità e la riprovevolezza, anche alla luce del luogo, della condotta tenuta dal medico nei confronti di persona in stato di evidente situazione di minorata difesa», senza dimenticare, poi, «la funzione professionale del medico dell’INPS».
Presidente Travaglino - Relatore Valle Fatti di causa Nell'anno 2015 Be.No. accompagnò il figlio, che accusava patologie invalidanti, a una visita medica presso l'INPS di Siena al fine della conferma di prestazione assistenziale. Nel corso della visita il medico strutturato dell'INPS, Co.Na., la fece avvicinare al figlio, mentre questo era steso sul lettino, e non aveva quindi il viso rivolto verso il medico e la madre, e le palpeggiò reiteratamente il seno. La donna non reagì nell'immediatezza, per non allarmare il figlio, ma il questi si accorse comunque di quanto stava accadendo e si mise a piangere. Soltanto allora il Na. cessò la condotta di violenza. Dell'accaduto furono effettuate, all'insaputa della Be. e del Na. delle riprese video, in quanto il medico, a seguito di denuncia di altre vittime, nelle analoghe circostanze di luogo e di occasione, era sottoposto a procedimento penale e nel corso delle indagini preliminari erano state disposte anche delle riprese ambientali. Il procedimento penale instaurato nei confronti del Na. dinanzi al Tribunale, in composizione collegiale, di Siena si concluse con la condanna di questi a nove anni di reclusione per violenza sessuale reiterata in danno di diverse donne. Be.No. non si era ritualmente costituita parte civile nel processo penale e pertanto non ricevette alcuna provvisionale. La Be. propose, dinanzi al Tribunale di Siena, ricorso con rito sommario nei confronti dell'INPS quale datore di lavoro e, nella resistenza dell'Istituto previdenziale, ottenne la liquidazione di cinquantamila Euro (Euro 52.236,71) a titolo di danni, con condanna del convenuto alle spese di fase. L'INPS impugnò l'ordinanza di condanna e la Corte d'appello di Firenze, con sentenza numero 2703 del 5/12/2022, ha rigettato l'impugnazione gravando l'Istituto delle spese di lite. L'INPS ha proposto ricorso per cassazione, avverso la sentenza della Corte territoriale, con due motivi. Be.No. è rimasta intimata. Il Procuratore Generale non ha depositato conclusioni. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell'articolo 380 bis 1 c.p.c. All'adunanza camerale del 13/01/2025 il ricorso è stato trattenuto per la decisione e il Collegio ha riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni. Ragioni della decisione L'INPS propone i seguenti motivi di ricorso. Primo motivo: violazione e falsa applicazione dell'articolo dell'articolo 2047 (in prosieguo, e correttamente, articolo 2049) del c.c. e seguenti in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3, c.p.c. L'INPS afferma che la sentenza penale di condanna nei confronti di Co.Na. del Tribunale di Siena, in quanto non passata in giudicato, non possa fare stato ai fini civili. Secondo motivo: violazione e falsa applicazione degli articolo 115 e 116 c.p.c nonché dell'art 2043 del c.c. in relazione all'articolo 360, primo comma, numero 3, c.p.c. L'Istituto previdenziale afferma che la liquidazione di oltre cinquantamila Euro è eccessiva e comunque immotivata alla stregua delle risultanze del caso. Il primo motivo è inammissibile. La Corte territoriale ha rivalutato i fatti a prescindere dal passaggio in giudicato della pronuncia di condanna e ciò in conformità con le affermazioni ricorrenti della giurisprudenza di legittimità, posto che il giudice civile può avvalersi, ai fini della statuizione risarcitoria e indipendentemente dal passaggio in giudicato della sentenza che definisca il processo penale, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, oltre che utilizzare prove raccolte in diverso giudizio fra le stesse o altre parti, delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari svolte in sede penale, le quali debbono, tuttavia, considerarsi quali semplici indizi idonei a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, la cui concreta efficacia sintomatica dei singoli fatti noti deve essere valutata - in conformità con la regola dettata in tema di prova per presunzioni - non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, accertandone la pregnanza conclusiva in base ad un apprezzamento che, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, non è sindacabile in sede di legittimità (Cass. numero 19521 del 19/07/2019 Rv. 654570 - 01). Il nesso di occasionalità tra le funzioni di medico della previdenza sociale svolte dal Na. e la condotta di violenza sessuale era talmente evidente che questi, al momento in cui palpeggiò reiteratamente, nell'ambulatorio dell'INPS in Siena, la Be. era già sottoposto a procedimento penale perché aveva commesso episodi analoghi a quello in anno della Be. e tutti in costanza dell'espletamento delle proprie funzioni di medico dell'Istituto, cosicché alcune vittime delle violenze avevano sporto denuncia e la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Siena aveva iniziato a svolgere indagini preliminari, anche a mezzo di telecamere e comunque di mezzi di videoripresa. È, inoltre, giurisprudenza di questa Corte che in tema di fatto illecito, la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto del dipendente ex articolo 2049 c.c. non richiede che tra le mansioni affidate all'autore dell'illecito e l'evento sussista un nesso di causalità, essendo sufficiente che ricorra un rapporto di occasionalità necessaria, nel senso che le incombenze assegnate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento produttivo del danno al terzo. Ciò è stato affermato (Cass. numero 22058 del 22/09/2017 Rv. 646017 - 01) con riferimento a fattispecie concreta avente forti analogie con quella in concreto realizzata dal medico dell'INPS (nella specie: per i danni provocati da un medico autore di violenza sessuale in danno di paziente, perpetrata in ospedale e in orario di lavoro, nell'adempimento di mansioni di anestesista, narcotizzando la vittima in vista di un intervento chirurgico, è stata ravvisata la responsabilità in sede di merito e di legittimità - anche oltre che quella dell'autore materiale della condotta di violenza sessuale - dell'azienda ospedaliera). Il secondo motivo sulla liquidazione dei danni è privo di ogni specificità e non spiega in alcun modo per quale ragione la liquidazione di Euro cinquantamila dovrebbe ritenersi eccessiva, o, meglio, lo afferma sulla base del fatto che il Na. è stato assolto dalla contestazione di concussione ma nulla deduce in ordine all'accertamento, compiuto dai giudici civili di merito in ordine alla oggettiva rilevanza della condotta del medico, che era stato comunque condannato, nel processo penale nel cui ambito Be.No., sebbene irritualmente costituita parte civile, era comunque persona offesa dal reato, a nove anni di reclusione e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici per violenza sessuale reiterata, con diniego delle attenuanti generiche. Nella specie i giudici del merito hanno, in coerente adesione alla giurisprudenza di legittimità (Cass. numero 22272 del 13/09/2018 Rv. 650596 - 01, concernente fattispecie di illegittima riduzione del risarcimento accordato a vittima di violenza sessuale, operata dal giudice dell'impugnazione di merito) dato ampiamente conto dei parametri, quali la gravità e la riprovevolezza della condotta e del luogo in cui essa era perpetrata, nei confronti di persona in stato di evidente situazione di minorata difesa, anche in considerazione della funzione professionale del Na., così esplicitando adeguatamente il percorso logico giuridico seguito al fine di pervenire alla suddetta misura del risarcimento. Il ricorso è nel riscontro dell'inammissibilità di entrambi i motivi è, quindi, dichiarato inammissibile. Nulla per le spese, in quanto Be.No. è rimasta intimata. La decisione di inammissibilità del ricorso comporta, nondimeno, che deve darsi atto, ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell'Istituto ricorrente e in favore del competente Ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto. Va disposto che, ai sensi dell'articolo 52 del D.Lgs. numero 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi di Be.No. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente e in favore del competente Ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1 - bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.