Per dare il via libera ad una piccola opera in condominio può bastare l’emoticon del “pollice in su” di WhatsApp sulla chat condominiale. Questo il principio fissato dai giudici, i quali, chiamati a prendere in esame il contenzioso sorto in uno stabile a Bologna, hanno respinto le obiezioni sollevate da una donna e mirate a contestare la legittimità della pergotenda installata da due genitori per la figlia.
A dare il “la” alla querelle giudiziaria è l’azione con cui una donna – Paola, nome di fantasia – chiede la reintegrazione nel possesso del diritto di veduta in appiombo esercitato dalle finestre dell’appartamento, di sua proprietà, verso il piano terra dell’edificio, e precisa di esserne stata spogliata dai comproprietari – moglie e marito – di un immobile posto al piano terra del medesimo edificio, con annesse aree cortilizie, i quali hanno installato una struttura in ferro ancorata stabilmente al suolo, posta ad appena venti centimetri sotto la soglia delle sue finestre. In sostanza, tale struttura impedisce, secondo la donna, la veduta in appiombo che, in precedenza e in assenza di detta struttura, ella esercitava dalle proprie finestre verso il piano terra dell’edificio condominiale. Per completare il quadro, infine, Paola spiega di non aver mai dato il proprio assenso alla installazione di tale manufatto, che, come detto, le impedisce di esercitare dalle proprie finestre la veduta in appiombo fino alla base dell’edificio e che, peraltro, funge anche da possibile accesso di malintenzionati all’appartamento di sua proprietà. Tirando le somme, preso atto che il diritto di veduta va riconosciuto sia in caso di vera e propria edificazione, sia in ipotesi di messa in opera di strutture dotate di apprezzabile stabilità e consistenza, con esclusione soltanto di quei manufatti destinati ad un uso occasionale o temporaneo, Paola chiede di essere reintegrata nel pieno e pacifico possesso del diritto di veduta in appiombo verso il piano terra dell’edificio e, per l’effetto, domanda che venga ordinato il ripristino dello status quo ante, con annessa eliminazione della struttura, a cura e spese dei condòmini che l’hanno installata, presente nell’area cortilizia di pertinenza dell’immobile di loro proprietà. Per i due coniugi che hanno provveduto all’installazione della pergotenda non vi sono dubbi: la richiesta avanzata da Paola è assolutamente priva di fondamento. Ciò soprattutto per una ragione: l’installazione della pergotenda è stata preceduta dalla specifica comunicazione, fatta a Paola, della volontà di installare il manufatto in questione, comunicazione accompagnata, peraltro, dalla descrizione analitica dell’opera e cui faceva seguito l’assenso di Paola stessa. A loro avviso, quindi, non si è verificato alcuno spoglio violento o clandestino, né vi è mai stato l’elemento soggettivo dell’animus spoliandi. Peraltro, sempre a loro parere, la struttura realizzata, per le sue caratteristiche (pergola con telo e impacchettamento, retrattile, autoportante e non ancorata al suolo), non è riconducibile alla nozione di costruzione e non integra un intervento di edilizia privata, in base alle disposizioni del Regolamento Edilizio del Comune di Bologna, che prevedono l’esenzione dal rispetto delle distanze per l’installazione di tende a pergola, e, aggiungono, la tenda in questione è collocata al di sotto di un’unica porta finestra della proprietà di Paola, risultando tutte le altre finestre e il balcone sovrastanti completamente liberi, considerando che l’area cortilzia di pertinenza dell’immobile di loro proprietà presenta una superficie di oltre centottanta metri quadrati, a fronte dello spazio di tredici metri quadrati occupato dalla tenda, che, peraltro, serve a garantire la fruibilità, sotto il profilo della privacy, di una piccola porzione dell’area cortilizia, destinata alle necessità della loro figlia minore che la utilizza per la ginnastica posturale, stante il proprio stato di salute. A fronte degli elementi probatori a disposizione, inclusa una decisiva chat condominiale, per i giudici non vi sono i presupposti per accogliere l’istanza avanzata da Paola. Impossibile, quindi, ipotizzare l’invocata tutela possessoria, con annessa rimozione della pergotenda. Dalla documentazione prodotta dai due coniugi risulta un dettaglio importante: «l’installazione della struttura in questione era stata preceduta da una comunicazione, tramite messaggio WhtasApp inviato sulla chat condominiale», con cui essi «segnalavano la volontà di installare il manufatto nella loro area cortilizia, fornendone una descrizione analitica, seguita da rilievi fotografici che ne evidenziavano caratteristiche e posizionamento. E tale informativa era accompagnata dalla domanda se gli altri condòmini fossero d’accordo con la soluzione prospettata, domanda seguita da manifestazioni di assenso», compresa «la dichiarazione favorevole di Paola, “Mi sembra una ottima idea”, seguita dal simbolo del pollice sollevato». Non a caso, «soltanto successivamente all’approvazione» in chat «da parte dei condòmini», moglie e marito effettuarono l’ordine della tenda e provvidero al pagamento del prezzo convenuto, «come si desume dalle date delle fatture emesse dal venditore, in acconto e a saldo». Per i giudici, quindi, «non era necessario, al fine di conseguire l’assenso di Paola, discutere della questione in sede di assemblea condominiale». Anche perché «non appare ragionevole ritenere che Paola, con la risposta» in chat «alla richiesta di approvazione dell’opera proposta» dai coniugi, «avesse inteso semplicemente esprimere un commento astratto sull’estetica del manufatto». Ciò anche tenendo presente che «la richiesta era molto specifica e riguardava sia le caratteristiche estetiche, tecniche e strutturali della tenda, sia il suo posizionamento della stessa (“la metterò davanti solo ad una delle tre porte finestre nel cortile, quindi starà in fondo dove il cortile è più largo”). Veniva dunque puntualmente indicato il luogo esatto di installazione della struttura, davanti ad una porta finestra dell’immobile, sottostante a quella omologa dell’appartamento del piano superiore». Di conseguenza, Paola «non avrebbe neppure potuto ragionevolmente ritenere che la tenda venisse invece collocata a ridosso della recinzione esterna dell’area cortilizia, solo per il fatto che le era stata sottoposta la fotografia di un gazebo rappresentato in mezzo ad un giardino». Invero, come si desume dalla documentazione fotografica, «le dimensioni ristrette dell’area cortilizia, di proprietà dei due coniugi, pressoché interamente occupata nella sua larghezza dalla tenda in questione (nella limitata area adiacente ad una delle porte finestre), portano ad escludere», spiegano i giudici, «che fosse possibile installare la struttura in prossimità del confine esterno dell’area medesima, osservando nel contempo il limite di tre metri di distanza dall’edificio». Tirando le somme, «l’assenso espresso in chat da Paola alla installazione dell’opera vale ad escludere la sussistenza dei presupposti dell’invocata tutela possessoria. Non può, infatti, ravvisarsi alcuno spoglio violento o clandestino nell’azione autorizzata da chi abbia la materiale disponibilità della cosa». Impossibile, quindi, ipotizzare la clandestinità dello spoglio, poiché «Paola era stata puntualmente edotta dell’intervento da realizzare e aveva manifestato la propria approvazione» e, chiosano i giudici, «il consenso (espresso o tacito) del possessore è considerato causa di esclusione dell’animus spoliandi, quale elemento soggettivo dell’illecito».
Giudice Chierici Fatto e diritto 1. Con ricorso ex articolo 703 c.p.c. e 1168 c.c., Parte_1 proponeva domanda di reintegrazione nel possesso del diritto di veduta in appiombo esercitato dalle finestre dell'appartamento di loro proprietà, sito in Bologna, via Montebello numero 7/4, verso il piano terra dell'edificio, dichiarando di esserne stata spogliata dai resistenti Controparte_1 e Controparte_2. A tal fine la ricorrente esponeva: di essere proprietaria di un appartamento sito in Bologna, via Montebello numero 7/4, al piano primo; i resistenti sono a loro volta comproprietari pro indiviso di un immobile posto nel medesimo edificio, al piano terra, con annesse aree cortilive; in data 26.05.2023 i resistenti hanno installato una struttura in ferro ancorata stabilmente al suolo, posta ad appena 20 cm sotto la soglia delle finestre della ricorrente, in violazione dell'articolo 907 c.c.: tale struttura impedisce la veduta in appiombo che, in precedenza e in assenza di detta struttura, la ricorrente esercitava dalle proprie finestre verso il piano terra dell'edificio condominiale; in data 22.06.2023 i resistenti hanno aggiunto alla struttura una bandinella che unisce il manufatto alla facciata CP_3 nessun effetto ha determinato la trasmissione ai resistenti della raccomandata del legale del 07.02.2024, con cui veniva richiesta la rimozione della struttura. La ricorrente dichiarava di non aver mai dato il proprio assenso alla installazione di tale manufatto, che le impedisce di esercitare dalle proprie finestre la veduta in appiombo fino alla base dell'edificio e che funge anche da possibile accesso di malintenzionati al proprio appartamento, richiamando la giurisprudenza della Suprema Corte che riconosce tale diritto di veduta sia in caso di vera e propria edificazione, sia in ipotesi di messa in opera di strutture dotate di apprezzabile stabilità e consistenza, con esclusione soltanto di quei manufatti destinati ad un uso occasionale o temporaneo. In conclusione, Parte_1 chiedeva di essere reintegrata nel pieno e pacifico possesso del diritto di veduta in appiombo verso il piano terra dell'edificio e, per l'effetto, domandava che venisse ordinato ai resistenti di ripristinare lo status quo ante e di eliminare, a loro cura e spese, la struttura installata nell'area cortiliva di pertinenza dell'immobile di loro proprietà, con condanna degli stessi, in solido, al pagamento della somma di € 100,00 per ogni giorno di ritardo nella rimozione dell'opera, ai sensi dell'articolo 614 bis c.p.c.. 2. Nella memoria difensiva di costituzione, Controparte_1 e Controparte_2 eccepivano, innanzitutto, la carenza dei presupposti di legge per il ricorso all'azione di reintegrazione nel possesso: al riguardo, deducevano che l'installazione della c.d. “pergotenda” era stata preceduta in data 11.01.2023 dalla comunicazione alla ricorrente, da parte del CP_1 , della volontà di installare il manufatto in questione, accompagnata dalla descrizione analitica dell'opera, cui faceva seguito l'assenso della Parte_1 dunque, a parere dei resistenti, non si sarebbe verificato alcuno spoglio violento o clandestino, né sussisterebbe l'elemento soggettivo dell'animus spoliandi di cui all'articolo 1168 c.c.. I resistenti eccepivano, altresì, il decorso del termine annuale di decadenza previsto per l'azione di spoglio, operante sin dalla manifestazione di volontà espressa nel gennaio 2023, quale atto strumentale percepibile come potenzialmente lesivo del possesso. In secondo luogo, i resistenti eccepivano l'infondatezza della domanda di reintegrazione nel possesso, in quanto la struttura realizzata, per le sue caratteristiche (pergola con telo e impacchettamento, retrattile, autoportante e non ancorata al suolo), non sarebbe riconducibile alla nozione di costruzione e non integrerebbe un intervento di edilizia privata, in base alle disposizioni del Regolamento Edilizio del Comune di Bologna, che prevedono l'esenzione dal rispetto delle distanze per l'installazione di tende a pergola, tenuto anche conto del parere rilasciato dal tecnico incaricato (docc. 9 bis e 9 ter); rilevavano che, oltretutto, la tenda in questione è collocata al di sotto di un'unica portafinestra della proprietà Parte_1 , risultando tutte le altre finestre e il balcone sovrastanti completamente liberi, considerando che l'area cortiliva di pertinenza dell'immobile di loro proprietà presenta una superficie di oltre 180 mq, a fronte dello spazio di 13 mq. occupato dalla tenda; osservavano che la struttura serviva a garantire la fruibilità, sotto il profilo della privacy, di una piccola porzione dell'area cortiliva, destinata alle necessità della figlia minore dei resistenti che la utilizzava per la ginnastica posturale, stante il proprio stato di salute. I resistenti precisavano, poi, di avere rimosso, per mero spirito conciliativo, la bandinella contestata dalla ricorrente, che non aveva alcuna utilità accessoria rispetto alla pergotenda, se non quella di impedire la percolazione dell'acqua lungo la parete del fabbricato. Per quanto esposto, Controparte_1 e Controparte_2 chiedevano il rigetto delle domande avversarie, pur dichiarandosi disponibili a ricercare una soluzione condivisa alla problematica lamentata; in denegata ipotesi di condanna alla rimozione della pergola, domandavano la condanna della ricorrente al rimborso degli oneri sopportati per il montaggio della stessa e a provvedere allo smontaggio a propria cura e spese, avendo a suo tempo prestato il proprio consenso all'installazione; in via ulteriormente gradata, chiedevano di determinare in misura equa la penale dovuta ex articolo 614 bis c.p.c. 3. A seguito dell'udienza di prima comparizione del 18.06.2024, venivano concessi due differimenti al 09.07.2024 e al 19.09.2024, per il tentativo esperito dalle parti di addivenire ad una soluzione conciliativa della vertenza, che tuttavia non dava esito positivo. All'udienza del 19.9.2024 i Procuratori delle parti si riportavano alle rispettive istanze e deduzioni. Quindi, su richiesta delle parti, venivano concessi i termini per il deposito di note difensive, cui seguiva la discussione finale. 4. La domanda proposta dalla ricorrente deve essere respinta, non sussistendo i presupposti dell'invocata tutela possessoria. Dalla documentazione prodotta da parte resistente, risulta che l'installazione della struttura in questione era stata preceduta da comunicazione dell'11.01.2023, tramite wapp inviato sulla chat condominiale, con cui il CP_1 segnalava la volontà di installare il manufatto nella propria area cortiliva, fornendone una descrizione analitica, seguita da rilievi fotografici che ne evidenziavano caratteristiche e posizionamento; tale informativa era accompagnata dalla domanda se i condomini fossero d'accordo con la soluzione prospettata, seguita da manifestazioni di assenso, comprendenti la dichiarazione favorevole della stessa Parte_1 “Mi sembra una ottima idea”), seguita dal simbolo del pollice sollevato (doc. 2). Soltanto successivamente all'approvazione da parte dei condomini, i resistenti effettuarono l'ordine della tenda e provvidero al pagamento del prezzo convenuto, come si desume dalle date delle fatture emesse dal venditore, in acconto e a saldo (doc. 3). Non rilevano, poi, le considerazioni svolte dalla ricorrente della memoria difensiva di replica. Non era necessario, al fine di conseguire l'assenso della ricorrente, discutere della questione in sede di assemblea condominiale, per la necessità di valutare la compatibilità dell'opera con la tutela del decoro dell'edificio, considerando che la presente controversia attiene al diverso tema concernente l'esercizio di fatto del diritto di veduta in appiombo vantato dalla ricorrente; non rileva neppure la mancata stipulazione di un contratto in forma scritta ad substantiam, contenente la rinuncia da parte della Parte_1 al proprio diritto di veduta in appiombo sull'area cortiliva di proprietà dei resistenti, avendo la ricorrente attivato la tutela possessoria, non già quella petitoria a vantaggio di un preteso diritto di servitù. Tantomeno assumono rilievo le comunicazioni contenenti le doglianze della ricorrente, indirizzate all'amministratore solo a maggio e settembre 2023, successivamente all'installazione della tenda. Infine, non appare ragionevole ritenere che la Parte_1 con la risposta dell'11.01.2023 alla richiesta di approvazione dell'opera proposta dal CP_1 , avesse inteso semplicemente esprimere un commento astratto sull'estetica del manufatto. La richiesta del resistente era molto specifica e riguardava sia le caratteristiche estetiche, tecniche e strutturali della tenda (“struttura autoportante … in modo da non fare alcun foro nel cappotto. Colore antracite come i divisori del giardino, colore tenda beige come da regolamento”), sia il posizionamento della stessa (“la metterò davanti solo ad una delle 3 porte finestre che ho nel cortile, quindi starà in fondo dove il cortile è più largo”). Veniva dunque puntualmente indicato il luogo esatto di installazione della struttura, davanti ad una porta finestra dell'immobile, sottostante a quella omologa del piano superiore. Alla luce di tali precisazioni, la Parte_1 non avrebbe neppure potuto ragionevolmente ritenere che la tenda venisse invece collocata a ridosso della recinzione esterna dell'area cortiliva, solo per il fatto che le era stata sottoposta la fotografia di un gazebo rappresentato in mezzo ad un giardino, come la stessa ha dichiarato in sede di verbale d'udienza del 18 giugno 2024. Invero, come si desume dalla documentazione fotografica (in particolare, docc. 11, 12), le dimensioni ristrette dell'area cortiliva di proprietà dei resistenti, pressoché interamente occupata nella sua larghezza dalla tenda in questione (nella limitata area adiacente ad una delle portefinestre), portano ad escludere che fosse possibile installare la struttura in prossimità del confine esterno dell'area medesima, osservando nel contempo il limite di tre metri di distanza dall'edificio, prescritto dall'articolo 907 c.c. 5. Per quanto esposto, si ritiene che l'assenso espresso dalla ricorrente alla installazione dell'opera valga ad escludere la sussistenza dei presupposti dell'invocata tutela possessoria. Non può, infatti, ravvisarsi alcuno spoglio violento o clandestino nell'azione autorizzata da chi abbia la materiale disponibilità della cosa. In particolare, “il requisito della clandestinità dello spoglio sussiste ogni qual volta lo spossessamento avviene mediante atti che non possano venire a conoscenza di colui che è stato privato del possesso o della detenzione, sicché ciò che rileva è che il possessore, usando l'ordinaria diligenza ed avuto riguardo alle concrete circostanze in cui lo spossessamento si è verificato, si sia trovato nell'impossibilità di averne conoscenza, secondo un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito che, ove sorretto da motivazione congrua ed esente da vizi logici o errori di diritto, si sottrae al sindacato di legittimità” (Cass. civ. numero 8911 del 06.04.2017). Tale situazione non si è verificata nel caso di specie, in cui la Parte_1 era stata puntualmente edotta dell'intervento da realizzare e aveva manifestato la propria approvazione. Inoltre, il consenso (espresso o tacito) del possessore è considerato causa di esclusione dell'animus spoliandi, quale elemento soggettivo dell'illecito (Cass. civ. numero 14797 del 14.06.2017; Cass. Sez. unumero, numero 9871 del 22.11.1994). Pertanto, la domanda proposta da parte ricorrente deve essere respinta. Restano assorbite le ulteriori deduzioni ed eccezioni svolte da parte resistente. 6. Le spese di lite seguono la soccombenza ex articolo 91 c.p.c. e vengono liquidate in base ai valori medi relativi ai parametri di cui al D.M. numero 55/2014, modificato dal D.M. numero 147/2022, avuto riguardo allo scaglione relativo alle cause di valore indeterminabile basso (da € 26.001 a € 52.000), con la riduzione del 50 % per la fase di trattazione, tenuto conto dell'attività processuale effettivamente svolta. P.Q.M. Visti gli articolo 1168 c.c. e 703 c.p.c., respinge le domande proposte da parte ricorrente; condanna Parte_1 alla rifusione, in favore di Controparte_1 e Controparte_2 , delle spese di lite, che si liquidano in complessivi € 4.237,00 per compensi, oltre ad IVA, CPA e 15 % per spese generali.