Il trattenimento sulla “Diciotti” non è un atto politico e lede la libertà dei migranti

Va escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini.

Non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l'incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS Place of safety e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l'ordinamento costituzionale e sovranazionale. I fatti di causa K.M.G., unitamente ad altri connazionali eritrei, si rivolse al Tribunale di Roma chiedendo la condanna del Governo italiano al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti in occasione dell'illegittima restrizione della libertà personale avvenuta, a bordo della nave della Guardia Costiera italiana “U. Diciotti”, dal 16/08/2018 al 25/08/2018 nei primi quattro giorni a causa del mancato consenso all'attracco della nave nei porti italiani nei successivi sei giorni, una volta permesso l'attracco della nave nel porto di Catania, a causa del mancato consenso allo sbarco sulla terra ferma in subordine, limitatamente a quest'ultimo periodo, per il forzato ed arbitrario trattenimento sulla nave “U. Diciotti” nel porto di Catania senza che fosse loro consentito lo sbarco sulla terra ferma. Costituendosi in giudizio il Ministero dell'Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri eccepirono in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione trattandosi di c.d. “ atto politico ” ad essa sottratto contestarono nel merito la fondatezza della domanda, rilevando che la nota vicenda della nave “Ugo Diciotti” si inseriva in un contesto internazionale di forte tensione tra l'Italia e Malta ed aveva, altresì, coinvolto le autorità comunitarie nel tentativo dell'Italia di fermare gli sbarchi sulle proprie coste o quantomeno di ottenere una redistribuzione in sede europea dei migranti salvati dalle autorità italiane in acque internazionali e fatti sbarcare sulle coste italiane. Il Tribunale dichiarò l'assoluta carenza di giurisdizione ritenendo che i comportamenti censurati avessero la natura di atti politici. La Corte d'appello di Roma, pur ritenendo sussistere la giurisdizione ordinaria, per essersi trattato non di un atto politico, ma di un atto amministrativo, pienamente sindacabile, ha tuttavia respinto nel merito la domanda degli appellanti in difetto della colpa della pubblica amministrazione non allegata dai ricorrenti e comunque da escludere «alla luce delle concrete modalità con cui si è realizzato il fatto, nonché della complessità e della non univocità della normativa di riferimento» e, comunque, in mancanza di allegazione e prova del danno conseguenza. Avverso tale sentenza, K.M.G. ha proposto ricorso per cassazione. Il ricorso è stato trasmesso alle Sezioni Unite in relazione alla censura proposta in punto di giurisdizione con il primo motivo di ricorso incidentale «eventualmente condizionato». Il trattenimento dei migranti a bordo della nave “U. Diciotti” non fu un atto politico Le S.U. escludono che, nel caso di specie, si sia trattato di un atto politico , come tale sottratto al sindacato giurisdizionale. Secondo la giurisprudenza di legittimità, l' articolo 7, comma 1, ultimo periodo, cod. proc. amm. ─ riprendendo una previsione già contenuta nell'articolo 31 del Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato approvato con il regio decreto numero 1054 del 1924 , e, prima ancora, nell'articolo 3, comma 2, della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato legge numero 5992 del 1889 ─ esclude dall'ambito della giurisdizione del giudice amministrativo gli atti ed i provvedimenti emanati dal Governo nell'esercizio del potere politico. Per qualificare un atto come politico, la giurisprudenza richiede due requisiti sotto il profilo soggettivo , l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello sotto il profilo oggettivo , l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.   È ritenuto tale non l'atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l'atto che sia esercizio di un potere politico . La nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale , perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità. Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana. L'impugnabilità dell'atto è la regola una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l'azione della pubblica amministrazione. L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi. Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell'ambito di altri poteri. Ai fini della giustiziabilità dell'atto, accanto ai caratteri del provvedimento, occorre guardare alla dimensione sostanziale della legalità , la quale richiede che l'atto di esercizio del potere sia suscettibile di essere confrontato con le norme che lo disciplinano. Va inoltre valutata la presenza di interessi giuridicamente rilevanti se mancano situazioni qualificate differenziate o si è in presenza di interessi di mero fatto, allora è possibile parlare di atto non sindacabile proprio perché non tocca direttamente situazioni giuridiche. La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione. Viene in rilievo, infatti, l' articolo 101, secondo comma, Cost. , il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice. Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La zona franca è il riflesso della presenza di una politicità dell'atto che non si presta ad una rilettura giuridica. L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità , e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l'esercizio dell'azione di governo. La giustiziabilità dell'atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere L'azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini o stranieri , costituzionalmente tutelati. Questa prospettiva metodologica informa gli svolgimenti della giurisprudenza. Alla luce di queste premesse va certamente escluso che il rifiuto dell'autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale. Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere , sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo. Non vi è, dunque, difetto assoluto di giurisdizione, e nemmeno relativo, in favore, cioè, del giudice amministrativo il che per vero non è nemmeno eccepito dalle amministrazioni ricorrenti , non vertendosi in materia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il quadro normativo di riferimento l'obbligo di soccorso in mare e le fonti internazionali L'obbligo del soccorso in mare corrisponde ad una antica regola di carattere consuetudinario, rappresenta il fondamento delle principali convenzioni internazionali , oltre che del diritto marittimo italiano e costituisce un preciso dovere tutti i soggetti, pubblici o privati, che abbiano notizia di una nave o persona in pericolo esistente in qualsiasi zona di mare in cui si verifichi tale necessità come tale esso deve considerarsi prevalente su tutte le norme e gli accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell'immigrazione irregolare, Le Convenzioni internazionali in materia, cui l'Italia ha aderito, costituiscono, dunque, un limite alla potestà legislativa dello Stato e, in base agli articolo 10, 11 e 117 della Costituzione , non possono costituire oggetto di deroga sulla base di scelte e valutazioni discrezionali dell'autorità politica, poiché assumono, in base al principio pacta sunt servanda , un rango gerarchico superiore rispetto alla disciplina interna. Tale obbligo trova una più dettagliata enunciazione, con specifico riguardo alla specifica attività di soccorso in mare, nella Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea , del 1974, ratificata dall'Italia con legge 23 maggio 1980, numero 313 , nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare c.d. Convenzione SAR, acronimo per Search And Rescue , anche nota come Convenzione di Amburgo ratificata dall'Italia con legge 3 aprile 1989, numero 147 , ha trovato concreta attuazione con il d.P.R. numero 662 del 1994, che ha attribuito il servizio di ricerca e soccorso alla competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che, all'uopo, si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera , nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo per United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall'Italia con legge 2 dicembre 1994, numero 689 . La violazione della libertà personale Rilievo particolare assume al riguardo l'articolo 5 par. 1 lett. f CEDU , il quale ammette, eccezionalmente, la privazione della libertà personale nella peculiare ipotesi in cui si tratti dell' arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare illegalmente nel territorio , oppure di una persona contro la quale è in corso un procedimento di espulsione o di estradizione. In tale prospettiva, però, escluso che il trattenimento a bordo della nave costiera di migranti non ancora compiutamente identificati e potenzialmente titolari del diritto di asilo ex articolo 10, terzo comma, Cost. possa essere inquadrato nell'ambito di procedimenti di espulsione o di estradizione , non può nemmeno ipotizzarsi che detto trattenimento possa trovare copertura sovranazionale quale misura assimilabile all'arresto o alla detenzione regolare finalizzata a impedire l'ingresso illegale nel territorio. Una tale interpretazione della norma convenzionale è stata chiaramente respinta dalla Corte EDU nella sentenza Khlaifia and Others v. Italy, relativa ad un caso — per alcuni aspetti analogo a quello in esame — di trattenimento di migranti tunisini a bordo di navi, ormeggiate nel porto di Palermo, per effetto di un atto dell'Esecutivo. In tale occasione la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 5 della CEDU , escludendo la sussistenza dell'eccezione di cui al par. 1 lett. f dell'articolo 5 evidenziando che tale norma, nell'esigere che ogni privazione della libertà sia effettuata nei modi previsti dalla legge, impone che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno e, in via prioritaria, nella Costituzione , essendo necessario, in ossequio al principio di certezza del diritto, che le condizioni limitative della libertà personale siano chiaramente intellegibili e che la legge risulti precisa e prevedibile nella sua applicazione nei confronti dei consociati. La Corte ha quindi, in quel caso, riscontrato l'arbitrarietà delle misure restrittive per violazione della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione, prescritte ex articolo 13 Cost Analogamente nel caso in esame, l'insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l' arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell'articolo 5 CEDU , atteso che l'articolo 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale. La colpa della P.A. È noto che, perché un evento dannoso sia imputabile a responsabilità della P.A., tale imputazione non potrà avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità del provvedimento amministrativo, richiedendo, invece, una più penetrante indagine in ordine alla valutazione della colpa , che, unitamente al dolo, costituisce requisito essenziale della responsabilità aquiliana. La sussistenza di tale elemento sarà riferita non al funzionario agente, ma alla P.A. come apparato , e sarà configurabile qualora l'atto amministrativo sia stato adottato ed eseguito in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione alle quali deve ispirarsi l'esercizio della funzione amministrativa, e che il giudice ordinario ha il potere di valutare, in quanto limiti esterni alla discrezionalità amministrativa. Sia pure con riferimento non al singolo funzionario, ma alla p.a. come apparato, e quindi come unità quanto meno nei singoli settori , va valutata la colpa, nei termini sopradetti. L'errore scusabile Non si può, dunque, in linea di principio, escludere la rilevanza dell'errore scusabile commesso dalla P.A. L'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi della norma violata Cass. numero 5361 del 1984 o altrimenti inevitabile a stregua delle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale sent. numero 364 del 1988 e altre , operando, in ogni altro caso, la regola della inescusabilità dell'error iuris Cass. numero 12839 del 1992 numero 2762 del 1978 . Elemento essenziale per la sussistenza dell'errore scusabile è, quindi, l' inevitabilità dello stesso , determinata da cause oggettive, estranee all'agente, che finisce per escludere la colpevolezza, intesa quale forma di qualificazione dell'azione soggettiva nelle fattispecie responsabilità. Tale valutazione tanto più deve essere rigorosa ove si tratti come nella specie di condotte lesive di diritti inviolabili della persona, presidiate da norme di rango superprimario e di diritto internazionale. Su tale piano la valutazione della Corte di merito si appalesa del tutto inadeguata e contraddittoria, tanto da potersi dire meramente apparente. Il riferimento alla « complessità e non univocità della normativa di riferimento » e alla «indeterminatezza normativa, oltre che fattuale, in ordine al riparto delle competenze nell'ambito della generale attività SAR nel Mediterraneo» si appalesa giustificazione, da un lato, intrinsecamente debole, dal momento che il quadro delle norme convenzionali di riferimento, come sopra riassunto, appare al contrario sufficientemente chiaro, in particolare nell'evidenziare le responsabilità dello «Stato di primo contatto» anche in caso di rifiuto dello Stato competente secondo la zona SAR, come peraltro contraddittoriamente rimarcato anche nella sentenza impugnata. In ogni caso, esso si rivela non esaustivo in relazione alla diversa prospettiva di riferimento, rappresentata alle norme, costituzionali e sovranazionali, a tutela del fondamentale diritto della libertà personale. In altra parte della motivazione pag. 7 , sebbene ad altri fini discorsivi sindacabilità della condotta in quanto atto amministrativo, non politico , la Corte capitolina osserva – correttamente - che «la condotta del Ministero dell'Interno, nella persona del ministro p.t, ha inciso direttamente e immediatamente sulla sfera giuridica dei ricorrenti comportando la lesione di diritti fondamentali, costituzionalmente tutelati » e che «il potere in concreto esercitato, ancorché ampiamente discrezionale, è sottoposto a vincoli normativi anche sotto il profilo procedimentale a fronte dei quali vengono in rilievo situazioni giuridiche individuali in astratto meritevoli di tutela giurisdizionale». Afferma inoltre che «la procedura per la designazione del POS - di competenza del Dipartimento delle Libertà Civili e per l'Immigrazione, che costituisce articolazione del Ministero dell'Interno - è un atto amministrativo endoprocedimentale vincolato nell' an e discrezionale nel quomodo , inerente all'individuazione del punto di sbarco più opportuno sul territorio nazionale. In tale scelta intervengono valutazioni tecniche in ordine al luogo in ragione al numero di migranti da assistere, al sesso, alle condizioni psicofisiche, alla necessità di garantire una struttura di accoglienza e alle cure mediche appropriate dopo lo sbarco. Le valutazioni politiche connesse al controllo dei flussi migratori – che, nel caso di specie, si sono sostanziate nel differimento dello sbarco al fine di attendere la definizione in sede europea sul “caso Diciotti” - sono da ritenersi estranee alla menzionata procedura amministrativa ». Ebbene, tali corrette considerazioni risultano contraddittoriamente neglette al momento di passare al vaglio dei presupposti della dedotta responsabilità da illecito aquiliano. In questa diversa prospettiva appare evidente che non può risultare sufficiente ragione di scriminazione della condotta, sotto il profilo della colpa, l'incertezza normativa in ordine alla individuazione dello Stato competente, né la pure consentita flessibilità sulle determinazioni da adottare al momento di individuare il POS e autorizzare allo sbarco, non potendo tale flessibilità comunque risultare esente da ragionevoli limiti temporali senza altrimenti tradursi di fatto in una misura restrittiva della libertà personale, intollerabile per l'ordinamento costituzionale e sovranazionale. È la stessa Corte di merito a evidenziare che se da un lato le linee guida IMO International Maritime Organization del 2004 che regolano la questione dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo , al par. 2.6 «attribuiscono al Governo responsabile la flessibilità necessaria per affrontare ogni situazione caso per caso», dall'altro, al par. 2.5, stabiliscono che «in every case a place of safety is provided within a reasonable time», facendo espresso riferimento al fatto che la procedura deve necessariamente essere conclusa entro un termine ragionevole . È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca, non avendo la Corte territoriale in alcun modo valutato se, al netto della discrezionalità attribuita alla P.A. e della flessibilità delle procedure di sbarco, potesse considerarsi comunque ragionevole il forzato trattenimento a bordo della nave dapprima per effetto del mancato consenso all'attracco in un porto italiano e quindi per il mancato consenso allo sbarco, una volta attraccata la nave al porto di Catania protratto per dieci giorni, anche in considerazione delle condizioni logistiche legate alle caratteristiche della nave stessa, al numero degli occupanti, alle condizioni di salute degli stessi, alle fasi pregresse della loro drammatica esperienza, alle condizioni climatiche. L'irrilevanza del diniego di autorizzazione a procedere Non può condurre a diversa conclusione il fatto che, nel caso della nave Diciotti, con un voto del 20 marzo 1989, il Senato della Repubblica abbia negato l'autorizzazione a procedere nei confronti del Ministro dell'Interno richiesta dal Tribunale dei Ministri di Catania per il reato di sequestro di persona pluriaggravato articolo 605, commi primo, secondo, numero 2, e terzo, c.p. , segnatamente «per avere, nella sua qualità di Ministro dell'Interno, abusando dei suoi poteri, privato della libertà personale 177 migranti di varie nazionalità giunti al porto di Catania a bordo dell'unità navale di soccorso U. Diciotti della Guardia Costiera Italiana alle 23 49 del 20 agosto 2018 […]. Fatto aggravato dall'essere stato commesso da un pubblico ufficiale e con abusato dei poteri inerenti alle funzioni esercitate, nonché per essere stato commesso anche in danno di soggetti minori di età». La corretta impostazione della questione esige invero che ci si interroghi sulla natura giuridica del diniego di autorizzazione a procedere e in particolare se la insindacabilità della condotta che esso determina sul piano penale si riverberi anche sulla configurabilità dell'illecito civile, nel senso di escluderla. In tale secondo caso, infatti, non residuerebbe spazio per separare la responsabilità civile del Ministro da quella dell'amministrazione come apparato, posto che è dalla decisione del primo di negare il POS e l'autorizzazione allo sbarco che è derivato il trattenimento a bordo della nave costiera indicato come lesivo della libertà personale. Ebbene, l'indagine al riguardo deve muovere dalla considerazione che la legge cost. numero 1 del 1989 è evidentemente diretta a garantire la funzione governativa attribuendo al Parlamento il potere di sottrarre alla giurisdizione penale ordinaria determinate condotte nei casi previsti dall'articolo 9, comma 3 «interesse dello Stato costituzionalmente rilevante» o «perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo» . L'autorizzazione della camera di appartenenza, secondo le norme stabilite con legge costituzionale, è prevista dall' articolo 96 Cost. , come modificato dall'articolo 1 l. cost. cit., solo per i «reati» commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell'esercizio delle loro funzioni, anche se cessati dalla carica. Le norme di dettaglio regolano la procedura in una prospettiva esclusivamente penalistica. È vero che, come è stato obiettato in dottrina, una interpretazione della norma costituzionale che riconosca all'«insindacabile» voto parlamentare ricognitivo di un «interesse costituzionalmente rilevante» o del «preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di governo» rilevanza impeditiva rispetto alla sola giurisdizione penale escludendo invece ogni rilievo sul piano civilistico potrebbe apparire non conforme a razionalità del sistema . Nondimeno, il rilievo riflesso che il diniego dell'autorizzazione può spiegare sul piano civilistico non può che declinarsi sul piano della valutazione della ingiustizia del danno fondamento della responsabilità aquiliana ex articolo 2043 c.c. secondo un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi quello dell'interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso ed è dunque comunque destinata ad annullarsi ove la lesione attinga, come nella specie, diritti della persona inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso. Se principio cardine di uno Stato costituzionale di diritto è la giustiziabilità di ogni atto lesivo dei diritti fondamentali della persona , ancorché posto in essere dal Governo e motivato da ragioni politiche, la sottrazione dell'agire politico a tale sindacato ─ pur prevista, in presenza di determinati presupposti, da norma costituzionale ─ non può che costituirne l'eccezione, come tale soggetta a interpretazione tassativa e riferibile, dunque, solo alla responsabilità penale. La prova del danno-conseguenza È certamente vero che, secondo pluridecennale ed ormai pacifica acquisizione v. Cass. Sez. U. 11/01/2008, nnumero 576 , 582 , 581 , 582 , 584 Id. 11/11/2008, nnumero 26972 - 26975 ma v. già Cass. 15/10/1999, numero 11629 e, in seguito, Cass. 21/07/2011, numero 15991 v. anche Corte cost. 27 ottobre 1994, numero 372 , ad essere risarcibile non è la lesione dell'interesse giuridicamente protetto danno-evento o evento di danno ma il danno-conseguenza , vale a dire i pregiudizi derivanti secondo nesso di causalità giuridica articolo 1223 e 2056 cod. civ. dalla lesione stessa, da allegare e provare da parte del danneggiato. Nel caso del danno non patrimoniale da lesione dei diritti inviolabili della persona quel che rileva ai fini risarcitori non è la lesione in sé del diritto ma le conseguenze pregiudizievoli che ne derivano , nella «doppia dimensione del danno relazionale/proiezione esterna dell'essere, e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza» Cass. 17/01/2018, numero 901 . È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti . In particolare, in ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta. Ciò tanto più ove si consideri la dimensione eminentemente soggettiva e interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire danno morale , all'esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata e, quindi, di conoscenza ad opera delle parti contrapposte al danneggiato. In tali casi ad un puntuale onere di allegazione - la cui latitudine riflette la complessità e multiformità delle concrete alterazioni in cui può esteriorizzarsi il danno non patrimoniale che, a sua volta, deriva dall'ampiezza contenutistica dei diritti della persona investiti dalla lesione ingiusta - non corrisponde , pertanto, un onere probatorio parimenti ampio . Come è stato condivisibilmente rimarcato v. in motivazione Cass. 10/11/2020, numero 25164 , «esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo , in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione - sovente ricorrendosi, a tal fine, alla categoria del fatto notorio per indicare il presupposto di tale ragionamento inferenziale, mentre il riferimento più corretto ha riferimento alle massime di esperienza i fatti notori essendo circostanze storiche concrete ed inoppugnabili, non soggette a prova e pertanto sottratte all'onere di allegazione […]. La massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell'accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti , è regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di scienza o di esperienza, comunemente accettate in un determinato contesto storico-ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, illogicità della motivazione, volta che la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell'organo giudicante. Tanto premesso, non solo non si ravvisano ostacoli sistematici al ricorso al ragionamento probatorio fondato sulla massima di esperienza specie nella materia del danno non patrimoniale, e segnatamente in tema di danno morale, ma tale strumento di giudizio consente di evitare che la parte si veda costretta, nell'impossibilità di provare il pregiudizio dell'essere, ovvero della condizione di afflizione fisica e psicologica in cui si è venuta a trovare in seguito alla lesione subita, ad articolare estenuanti capitoli di prova relativi al significativo mutamento di stati d'animo interiori da cui possa inferirsi la dimostrazione del pregiudizio patito». L'affermazione della Corte circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio .

Presidente Cirillo – Relatore Iannello Il testo integrale della pronuncia sarà disponibile a breve.