Per i giudici, però, va comunque considerato risolto il rapporto di lavoro. Respinte le obiezioni sollevate dal dipendente e mirate ad ottenere la reintegra in azienda dovrà accontentarsi di un risarcimento di quasi 60mila euro.
A mettere nei guai il lavoratore, dipendente di una s.r.l. – con oltre 37milioni di euro di fatturato ed oltre cento dipendenti –, sono le frasi per nulla gentili rivolte ad un collega, per giunta alla presenza di un ulteriore lavoratore. Tra primo e secondo grado viene ricostruito facilmente l’episodio e vengono identificate le espressioni incriminate, ossia “finto tonto”, “incompetente” e “te non hai capito qual è il problema e non mi meraviglio”, espressioni ritenute sufficienti , secondo l’azienda, per mettere alla porta il lavoratore . Chiara la prospettiva adottata dalla società datrice di lavoro, che ha licenziato per giusta causa il lavoratore , a fronte, come detto, dell’addebito disciplinare relativo alle espressioni offensive da lui rivolte ad un collega. E quella prospettiva è condivisa dai giudici del Tribunale , i quali riconoscono l’ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo e, pertanto, condannano la società a pagare al lavoratore l’indennità sostitutiva del preavviso. Nettamente più favorevole al dipendente è il pronunciamento dei giudici d’appello, i quali ravvisano «la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto ai fatti accertati » e però dichiarano risolto il rapporto di lavoro – durato oltre venti anni – e condannano la società a pagare al lavoratore un’indennità risarcitoria quantificata in quasi 60mila euro. Precise le valutazioni compiute dai giudici di secondo grado. A loro parere, nello specifico, «accertato il fatto nella sua materialità, non può dirsi che si tratti di espressioni innocue , in quanto dimostrano una forma di comunicazione apertamente sprezzante ed ostile. Tuttavia, il gravame proposto dal lavoratore «è fondato con riguardo alla valutazione della gravità del fatto. Non può condividersi, quindi, il convincimento circa la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, atteso che il licenziamento è sempre l’ extrema ratio ». Inoltre, «sul piano della proporzione si è in presenza di un’ intemperanza verbale del lavoratore certamente grave , a prescindere dal fatto che il destinatario fosse oppure no un suo superiore gerarchico fatto non desumibile chiaramente dagli organigrammi prodotti dalle parti . Tuttavia, si è trattato di un singolo episodio , non è trasceso oltre l’offesa verbale, non ha provocato conseguenze rilevanti sull’andamento del lavoro, non ha arrecato danno all’azienda», annotano i giudici d’appello. Tirando le somme, per i giudici di secondo grado, «la condotta» tenuta dal lavoratore, valutata «in termini di arroganza dimostrata nei confronti di un collega e in presenza di altro dipendente», « avrebbe dovuto essere sanzionata con la sospensione », e quindi «il licenziamento è sanzione eccessiva, essendosi trattato di un momentaneo scatto di rabbia» del dipendente. Ecco spiegata, quindi, la tutela risarcitoria in favore del lavoratore. A portare la vicenda in Cassazione è il lavoratore, che ritiene inaccettabile il risarcimento e punta invece alla reintegra in azienda. In questa ottica, difatti, il legale che lo rappresenta sostiene sia palese l’incongruenza della decisione presa in appello, poiché si è riconosciuta la tutela indennitaria, e non il rientro del lavoratore in azienda, «pur avendo ravvisato l’insussistenza del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa» alla base del licenziamento. A tale obiezione i magistrati di Cassazione ribattono richiamando lo Statuto dei lavoratori, che, osservano, «prevede la tutela cosiddetta reale sia pure attenuata della reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili». In sostanza, «ai fini della tutela reintegratoria invocata dal lavoratore non basta che sia ritenuto insussistente il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa » alla base del licenziamento, «ma è necessario che, all’esito del giudizio di merito, si accerti che il fatto non sussista sul piano della sua storicità fatto materiale o della sua rilevanza disciplinare fatto giuridico , oppure che sia previsto come punibile con sanzione conservativa ». Ma «nessuna di queste fattispecie» è applicabile, secondo i giudici, alla vicenda in esame, né il lavoratore si premura di indicare «l’eventuale clausola del contratto collettivo o del codice disciplinare aziendale che preveda in ipotesi espressamente la condotta – in concreto a lui contestata sul piano disciplinare – come punibile con sanzione conservativa ». Invece, «soltanto sul piano dell’apprezzamento della proporzione sanzionatoria i giudici d’appello si sono spinti a ritenere che al massimo la condotta in concreto accertata sarebbe stata sanzionabile con una sospensione dal servizio e dalla retribuzione», chiosano i magistrati di Cassazione.
Presidente Esposito – Relatore Panariello Rilevato che 1.- A.F. era stato dipendente di OMISSIS srl da giugno 1999 fino al 26/05/2021, quando era stato licenziato per giusta causa sulla base dell'addebito disciplinare di aver rivolto a S.G., suo collega di lavoro, espressioni offensive quali “ OMISSIS ”, “ OMISSIS ”, “ OMISSIS ”, in presenza di un terzo dipendente. Adìva il Tribunale di Firenze per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento, il suo annullamento e la tutela di cui all' articolo 18, co. 4, L. numero 300/1970 , sia per insussistenza del fatto addebitato, sia per violazione procedurali dell' articolo 7 L. numero 300/1970 e, in subordine, per ottenere la tutela indennitaria di cui ai commi 5^ oppure 6^ dell'articolo 18 cit. 2.- Costituitosi il contraddittorio, escussi due testimoni, all'esito della fase sommaria, prevista dal rito introdotto dalla legge numero 92/2012 , il Tribunale riteneva sussistente un licenziamento per giustificato motivo soggettivo e pertanto limitava la condanna della società al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso. Poi con sentenza rigettava l'opposizione del lavoratore. 3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'Appello, in parziale accoglimento del gravame interposto da A.F., ravvisava la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto al fatto accertato e quindi dichiarava risolto il rapporto di lavoro alla data del 26/07/2021 e condannava la società a pagare ad A.F. l'indennità risarcitoria ex articolo 18, co. 5, L. numero 300/1970 , che liquidava nella somma di euro 59.960,88. Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava a accertato il fatto nella sua materialità, non può dirsi che si tratti di espressioni innocue, in quanto dimostra una forma di comunicazione apertamente sprezzante ed ostile b tuttavia il gravame è fondato con riguardo alla valutazione della gravità del fatto c non può condividersi il convincimento del Tribunale circa la sussistenza di un giustificato motivo soggettivo, atteso che il licenziamento è sempre l'extrema ratio d sul piano della proporzione si è in presenza di un'intemperanza verbale del lavoratore certamente grave, a prescindere dal fatto che il G. fosse oppure no un suo superiore gerarchico fatto non desumibile chiaramente dagli organigrammi prodotti dalle parti tuttavia si è trattato di un singolo episodio, non è trasceso oltre sull'andamento del lavoro, non ha arrecato danno all'azienda e sul piano del contratto collettivo, si è al di fuori delle previsioni di cui all'articolo 10, lett. A , che prevede il licenziamento con preavviso per insubordinazione, rissa, danneggiamento materiale di beni aziendali, svolgimento del lavoro per conto proprio, condanna per un reato infamante si è al di fuori anche delle previsioni di cui all'articolo 10, lett. B , che prevede il licenziamento per giusta causa già esclusa dal Tribunale, senza reclamo incidentale da parte della società f la condotta dell'A.F. in termini di arroganza dimostrata nei confronti di un collega, in presenza di altro dipendente, avrebbe dovuto essere sanzionata con la sospensione, laddove il licenziamento è sanzione eccessiva, essendosi trattato di un “momentaneo scatto di rabbia” g ne consegue la tutela risarcitoria di cui all' articolo 18, co. 5^, L. numero 300/1970 . 4.- Avverso tale sentenza A.F. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. 5.- OMISSIS srl ha resistito con controricorso. 6.- Il collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge. Considerato che 1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell' articolo 360, co. 1, numero 3 , c.p.c. il ricorrente lamenta “violazione/falsa applicazione” dell' articolo 18 L. numero 300/1970 per avere la Corte d'appello applicato la tutela di cui al comma 5^ piuttosto che quella di cui al comma 4^, pur avendo ravvisato l'insussistenza del giustificato motivo soggettivo e della giusta causa. Il motivo è infondato. L' articolo 18, co. 4^, L. numero 300/1970 prevede la tutela c.d. reale sia pure attenuata della reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice “accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili”. Quindi ai fini della tutela invocata dal ricorrente non basta che sia ritenuto insussistente il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa , ma è necessario che, all'esito del giudizio di merito, si accerti che il fatto non sussista sul piano della sua storicità fatto materiale o della sua rilevanza disciplinare fatto giuridico , oppure che sia previsto come punibile con sanzione conservativa. Nessuna di queste fattispecie ricorre nel caso in esame, né il ricorrente si perita di indicare l'eventuale clausola del contratto collettivo o del codice disciplinare aziendale che preveda in ipotesi espressamente la condotta – in concreto a lui contestata sul piano disciplinare – come punibile con sanzione conservativa. E' soltanto sul piano dell'apprezzamento della proporzione sanzionatoria che la Corte territoriale si è spinta a ritenere che al massimo la condotta in concreto accertata sarebbe stata sanzionabile con una sospensione dal servizio e dalla retribuzione. 2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell' articolo 360, co. 1, numero 5 , c.p.c. il ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. In particolare addebita alla Corte territoriale di aver omesso l'esame del settimo motivo di reclamo relativo alla violazione del diritto di difesa per errata contestazione degli addebiti, per essere stata richiamata nella lettera di licenziamento la violazione dell' articolo 2105 c.c. invece mai contestata. Il motivo – previa conversione in quello esatto di omessa pronunzia, quindi ai sensi dell' articolo 360, co. 1, numero 4 , c.p.c. , e di conseguente violazione dell' articolo 112 c.p.c. – è infondato. Infatti, nel caso in esame l'omessa pronunzia non sussiste, dal momento che, a pag. 6 della sentenza impugnata, i giudici del reclamo hanno affermato “All'esito del procedimento disciplinare, poi, non vi è stato alcun mutamento del fatto contestato. La lettera di licenziamento richiama in effetti l' articolo 2105 c.c. , che, avendo ad oggetto l'obbligo di fedeltà, nel caso in esame è fuori questione, sicché è evidente che si tratta di un errore materiale ciò che conta, comunque, è che l'addebito contestato non è mai cambiato ” 3.- Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge. Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'articolo 13, co. 1 quater, d.P.R. numero 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell'articolo 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.