Intervento chirurgico: la “complicanza” salva medico e struttura

La “complicanza”, quale evento accidentale o anomalo di un intervento chirurgico, integra gli estremi della causa non imputabile, laddove il sanitario dimostri di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis .

È quanto emerge dalla sentenza con cui il Tribunale di Catania ha deciso un caso di responsabilità medica cogliendo l'occasione per fare il punto sullo stato dell'arte della giurisprudenza in materia. I fatti Una donna conveniva in tribunale la struttura sanitaria e i medici esponendo di essere stata sottoposta a due interventi chirurgici all'addome non eseguiti secondo le regole della scienza medica con permanere di disturbi funzionali e danno estetico. La ricorrente sosteneva, pertanto, la sussistenza della responsabilità della struttura convenuta e dei sanitari intervenuti in relazione alla condotta descritta, con richiesta di condanna al risarcimento di tutti i danni subiti. La responsabilità contrattuale della struttura sanitaria Ai fini della decisione, il Tribunale di Catania ripercorre innanzitutto i consolidati principi giurisprudenziali, di legittimità e di merito, in materia di responsabilità della struttura sanitaria per i danni provocati al paziente dal medico ivi operante (cfr. ex multis , Cass. n. 571/2005 ; Trib. Milano 23 maggio 2003). In sostanza secondo l'orientamento maggioritario, osserva il giudice etneo, la responsabilità ascrivibile in capo alla struttura sanitaria è di tipo contrattuale , fondata sul cd. “ contratto di spedalità ”, ossia il contratto in forza del quale la struttura si obbliga a fornire al paziente una complessa prestazione di assistenza sanitaria (fornendo spazi, personale e attrezzature adeguate). Essa risponde ex articolo 1218 e ss. c.c. : per fatto proprio, «derivante dal rapporto che si instaura in maniera diretta con il paziente, nel caso in cui il danno al paziente sia derivato da disfunzioni e carenze strutturali o organizzative inerenti alla struttura stessa »; per fatto proprio del personale sanitario, «dipendente o meno, laddove nella relativa condotta sia ravvisabile quanto meno il profilo della colpa». Un tipo di obbligazione che si configura, spiega ancora il tribunale, «come obbligazione di mezzi , anziché come obbligazione di risultato» e che richiede una diligenza professionale, valutata ai sensi dell' articolo 1176 e dell'articolo 2236 c.c. , ma non l'effettivo raggiungimento di un determinato risultato, nella specie la guarigione. Tali principi sono stati sostanzialmente recepiti dalla legge (n. 24/2017 ), che è intervenuta in tale contesto, chiarendo, in maniera espressa (in particolare all'articolo 7), quanto già sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, qualificando la responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale ex articolo 1218 c.c. e ss. (laddove, la medesima legge, qualifica quella dell'esercente la professione sanitaria come extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. e ss.). In questo quadro, spetta al paziente provare il nesso causale tra inadempimento contrattuale e danno subito , in base al principio del più probabile che non , secondo cui è sufficiente una prova che renda il nesso probabile, senza necessità di certezza assoluta, come invece richiesto nel processo penale (cfr. Cass. n. 21939/2019 ). Complicanza dell'intervento chirurgico Fatte queste premesse, nel caso di specie, l'espletata CTU collegiale ha accertato la corretta indicazione terapeutica ed esecuzione di entrambi gli interventi chirurgici in questione, nonché il rispetto delle linee guida del settore, per cui, afferma il tribunale, è evidente che nella vicenda, ci si trova di fronte ad una complicanza dell'intervento chirurgico . Con tale termine, spiega il Tribunale, «la medicina legale designa un evento dannoso, accidentale o anomalo, che insorge nel corso di un intervento chirurgico o di un iter terapeutico, aggravando la situazione del paziente e peggiorando le sue possibilità di recupero con l'insorgenza di uno stato morboso ulteriore, ancorché in qualche modo collegato o favorito dalla condizione di partenza e dalle cure praticate». Si tratta dunque di «evoluzioni indesiderate del quadro clinico di un paziente» che possono dipendere dalla patologia di base (complicanze spontanee) ovvero dal trattamento sanitario che viene praticato (complicanze iatrogene) ed essere distinte «in base alla gravità (complicanze maggiori o minori); alla ricorrenza statistica (frequenti o rare); alla tempistica con cui si presentano (precoci o tardive); e in base a tanti altri criteri, come la modalità attraverso la quale si realizzano, la natura delle conseguenze che ne derivano, oppure in relazione al distretto anatomico interessato (complicanze meccaniche, ischemiche, infettive, respiratorie, articolari, emorragiche, ecc.)». Non tutte le complicanze costituiscono – però – fonte di responsabilità medica avverte il tribunale, giacché vanno verificati due presupposti : «la prevedibilità , che è la capacità di riconoscere un pericolo di danno; e l' evitabilità , che è la possibilità di neutralizzare questo danno». In sostanza, «se la complicanza era prevedibile ed evitabile in concreto, allora esiste verosimilmente un fatto illecito che è fonte di responsabilità sanitaria . Se la complicanza non era prevedibile o non era evitabile, allora non è imputabile, in quanto dipende da quella alea terapeutica sempre imponderabile, che si annida in tutte le vicende cliniche». La giurisprudenza, precisa il Tribunale, ha stabilito che «nel giudizio di responsabilità del medico nei confronti del paziente, è necessario che il sanitario, affinché vada esente da colpa, dimostri di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis , a nulla rilevando che il danno patito dal paziente sia dipeso da una complicanza. Quindi, affinché vi sia l'esonero della responsabilità del sanitario, occorre che il danno sia stato imprevedibile o quantomeno inevitabile ». In un giudizio di malpractice medica, tuttavia, al medico non basta, «per superare la presunzione posta a suo carico dall' articolo 1218 cc ., dimostrare che l'evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate complicanze, rilevate dalla statistica sanitaria, in quanto tale concetto è inutile nel campo giuridico». Ciò che rileva, in concreto «è appurare se quell'evento integri gli estremi della causa non imputabile». Le ricadute di questo principio sull'onere probatorio sono di assoluto rilievo in quanto: «o il medico riesce a dimostrare di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis , ed allora egli va esente da responsabilità, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle complicanze, oppure all'opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla: ed allora non gli gioverà la circostanza che l'evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto » (cfr. Cass. n. 24074/2017 ). Al paziente danneggiato, invece, spetta l'onere di « dimostrare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale (la riconducibilità dell'evento lesivo alla condotta del sanitario) sia sotto il profilo della causalità giuridica (individuazione inequivocabile delle conseguenze pregiudizievoli)». Ciò posto, osserva quindi il giudice, nella specie, alla luce delle risultanze della CTU, l'intervento praticato era indicato per le condizioni dell'attrice ed è stato correttamente eseguito e le complicazioni scaturite dal primo intervento rientrano tra le or ora descritte « complicanze prevedibili ma inevitabili ». Per cui, secondo il tribunale, è evidente che «non vi è prova alcuna della responsabilità della struttura sanitaria in questione e dei sanitari che ebbero in cura l'attrice». Nessuna violazione del consenso informato Nulla di fatto, neppure in ordine alla dedotta violazione del consenso informato in relazione al primo intervento. In merito, rammenta il giudicante, «l'inadempimento dell'obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori , anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi» (cfr., ex plurimis , Cass. n. 2847/2010 ; n. 5631/2023). Ancora più di recente, la Cassazione (n. 16633/2023 ) ha chiarito che se «ricorre il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso)» e «non vi è alcun danno derivante dall'intervento», non è dovuto alcun risarcimento; se, invece, «ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell'esecuzione della prestazione sanitaria» (cioè, l'intervento è stato correttamente eseguito), «il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all'autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose , di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente». Nella specie, l'attrice non ha mai sostenuto che l'intervento de quo sia stato eseguito in modo scorretto né ha prospettato che in presenza di un'adeguata informazione, ella avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi. Pertanto, il consenso della paziente «è da ritenere presunto , anche perché non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuta intraprendere di fronte alla non rispondenza alla terapia medica (non chirurgica)» e la mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario « non ha leso , in sé, il diritto della paziente all'autodeterminazione e, dunque il diritto a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alle possibili complicanze dell'intervento, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative». La decisione Rigettata, in definitiva anche quest'ultima doglianza, la quinta sezione civile del tribunale di Catania respinge in toto il ricorso dell'attrice e la condanna al pagamento delle spese di giudizio in favore delle parti convenute.

Giudice Marino Svolgimento del processo Con citazione notificata in data 26.7.2018 (omissis) conveniva innanzi questo Tribunale (omissis), (omissis) e (omissis) (queste ultime quali eredi di (omissis)) esponendo di essere stata sottoposta a due interventi chirurgici presso la struttura convenuta: il primo, del 30.11.01, eseguito dal dott. (omissis) per “Fundoplicatio sec. + Colecistectomia”; il secondo intervento eseguito dal prof. (omissis) il quale -su diagnosi di ingresso di “Laparocele + Addome pendulo”- ha eseguito in data 29.11.02 una “Ernioplastica protesica per laparocele mediano + addominoplastica”. Deduceva che entrambi gli interventi non erano stati eseguiti secondo le regole della scienza medica, con permanere di disturbi funzionali e danno estetico. Esponeva quindi come fosse sussistente la responsabilità della struttura convenuta e dei sanitari intervenuti in relazione alla condotta descritta, con richiesta di condanna al risarcimento di tutti i danni subiti. (omissis) resistente si costituiva in giudizio opponendosi. Si costituiva (omissis) eccependo la prescrizione della pretesa azionata e contestando la sussistenza di alcuna sua responsabilità. Nessuno si costituiva per gli eredi di (omissis). Disposta ed espletata ctu medico legale, le parti venivano invitate a precisare le conclusioni all'udienza del 4.12.2023. Trascorsi i termini ex articolo 281 quinquies c.p.c. (cbn. dsp. articolo 190 c.p.c. ) questo giudice istruttore, in funzione di giudice unico, pronuncia la presente per i seguenti Motivi della decisione E' principio pacifico in giurisprudenza quello per il quale la struttura sanitaria è solidalmente responsabile, sia in via contrattuale ( ex articolo 1218 e 1228 c.c. ) che extracontrattuale ( ex articolo 2049 c.c. ), per i danni provocati al paziente dal medico ivi operante, poichè l'attività che un libero professionista svolge presso una casa di cura privata, quanto meno in virtù di un non occasionale rapporto di esecuzione d'opera, comporta un vincolo di dipendenza, sorveglianza e vigilanza tra la casa di cura committente e il medico preposto (cfr. Cass. civ., sez. III, 13/01/2005, n.571 ; Cass. Civ. sez. III 11 marzo 1998, in Ragiusan 1998, 183; Trib. Milano, 23/05/2003; Trib. Milano 20 settembre 1999, in Giur. Milanese 2000, 114; Trib. Napoli, 13 febbraio 1997, in Nuova Giur. Civ., 1997, I, 984; Trib. Roma 28 giugno 1982, in Temi Rom. 1982, 601). La responsabilità della casa di cura o dell'ente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell' articolo 1218 c.c. all'inadempimento delle obbligazioni a suo carico nonché, ai sensi dell' articolo 1228 c.c. , all'inadempimento dell'obbligazione medico professionale svolta dal sanitario; nei confronti del paziente, la struttura sanitaria e l'esercente la professione sanitaria sono coobbligati solidali, per cui la scelta del legittimato passivo contro cui agire spetta al danneggiato. Come chiarito dalla Suprema Corte non è necessario che il medico sia dipendente della casa di cura, sia cioè a questa legato da un rapporto di lavoro subordinato: a norma dell' articolo 1228 c.c. , il debitore che nell'adempimento dell'obbligazione si vale dell'opera di terzi, risponde dei fatti dolosi e colposi di costoro. Ausiliari, dunque sono tutti coloro dei quali il debitore si avvale nell'esecuzione della prestazione, indipendentemente dalla natura del rapporto che ad esso li leghi ( Cass. 20 aprile 1989, n. 1855 ). In secondo luogo, in applicazione dell' articolo 1228 c.c. , non rileva che il sanitario il quale esegue l'intervento possa essere anche sanitario di fiducia del paziente, ove la scelta, come nel caso di specie, cada su soggetto comunque collegato all'organizzazione aziendale della casa di cura. La prestazione dell'ausiliario, cioè del medico, è necessaria per l'esecuzione della prestazione della casa di cura, che si obbliga alla messa a disposizione del personale medico, paramedico e dell'attrezzature necessarie per l'intervento e, dunque, si avvale del medico, sia pure di fiducia anche del paziente (cfr. Cass. civ., sez. III, 14/07/2004, n.13066 ). In sostanza secondo l'orientamento maggioritario, la responsabilità ascrivibile in capo alla struttura sanitaria è di tipo contrattuale, risultando essa fondata sul cd. contratto di spedalità, ossia il contratto in forza del quale la struttura sanitaria si obbliga a fornire al paziente una complessa prestazione di assistenza sanitaria (consistente nella predisposizione degli spazi necessari, di personale sanitario sufficiente ed efficiente e di attrezzature e macchinari adeguati). Ricondotta così l'obbligazione della struttura sanitaria al contratto di spedalità, la giurisprudenza configura la relativa responsabilità civile come contrattuale ex articolo 1218 c.c. e ss. In particolare, la struttura può essere chiamata a rispondere, come già detto: (i) per fatto proprio, derivante dal rapporto che si instaura in maniera diretta con il paziente, nel caso in cui il danno al paziente sia derivato da disfunzioni e carenze strutturali o organizzative inerenti alla struttura stessa (dal punto di vista degli spazi, o del personale o delle attrezzature); (ii) per fatto proprio del personale sanitario: in questa sede, l'ente risponde direttamente della negligenza ed imperizia del personale dipendente nell'ambito dell'esecuzione della prestazione. Dunque la struttura sanitaria risponde dell'attività sanitaria posta in essere dall'operatore sanitario dipendente o meno, laddove nella relativa condotta sia ravvisabile quanto meno il profilo della colpa. Da quest'ultimo punto di vista, il tipo di obbligazione assunta la struttura sanitaria, coincidendo con quella dell'esercente la professione sanitaria (dal momento che l'ente ospedaliero si impegna, tramite gli operatori sanitari alle proprie dipendenze, a fornire una prestazione sanitaria), si configura come obbligazione di mezzi, anziché come obbligazione di risultato. Ne consegue che la struttura o il professionista sanitario sono tenuti a svolgere la propria attività utilizzando i mezzi scientifici più idonei a raggiungere il risultato favorevole al paziente-creditore, mentre non è richiesto l'effettivo raggiungimento di un determinato risultato, nella specie la guarigione. L'inadempimento all'obbligazione, pertanto, deve essere desunto non già semplicemente dal mancato raggiungimento del risultato, bensì dalla diligenza richiesta ai fini dell'esecuzione della prestazione professionale. La diligenza deve essere valutata con riguardo alla natura dell'attività esercitata (ai sensi dell' articolo 1176 c.c. ) e, ai sensi dell' articolo 2236 c.c. , qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave (norma che lascia intendere che l'operatore sanitario, in caso di causazione di un danno al paziente, sia tenuto al relativo risarcimento anche in caso di mera colpa lieve). Tali principi sono stati sostanzialmente recepiti dalla legge (omissis) (n. 24/2017 ), che è intervenuta in tale contesto, chiarendo in maniera espressa quanto già sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, qualificando la responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale ex articolo 1218 c.c. e ss. (laddove, la medesima legge, qualifica quella dell'esercente la professione sanitaria come extracontrattuale ex articolo 2043 c.c. e ss.). In particolare, l'articolo 7 della legge (omissis) chiarisce che: (i) la struttura sanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 c.c. , delle loro condotte dolose o colpose; (ii) l'esercente la professione sanitaria risponde del proprio operato ai sensi dell' articolo 2043 c.c. , salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. E' noto – però - che le norme sostanziali della legge (omissis) non sono applicabili retroattivamente (con l'eccezione delle disposizioni relative alla liquidazione del danno sulla base delle tabelle di cui agli articolo 138,139 del codice delle assicurazioni private), dunque non possono applicarsi a fatti avvenuti in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge, per i quali continuerà a farsi riferimento alla legge vigente all'epoca dei fatti (cfr. Cass. civ. Sez. III, 11/11/2019, n.28990 ; Cass. civ. Sez. III, 11/11/2019, n.28994 ). Come detto quindi la disciplina della responsabilità contrattuale implica che il paziente, in quanto creditore, debba provare il cd. nesso di causalità giuridica, ossia la relazione tra l'inadempimento contrattuale ed il danno patrimoniale e/o non patrimoniale subito dal paziente. Nell'accertamento della sussistenza della causalità giuridica la norma civilistica di riferimento è rappresentata dall' articolo 1223 c.c. , il quale prevede il risarcimento dei soli danni che costituiscano conseguenza immediata e diretta dell'illecito, ossia gli effetti normali e ordinari dell'illecito. Quanto alla regola su cui si fonda il procedimento di ricostruzione di tale nesso causale, si ricorre al principio del “più probabile che non”, o regola della “preponderanza dell'evidenza”, in base al quale il giudice civile potrà affermare l'esistenza del nesso causale anche soltanto sulla base di una prova che lo renda probabile, a nulla rilevando che tale prova non sia idonea a garantire la certezza al di là di ogni ragionevole dubbio, come necessario in sede di accertamento della responsabilità penale (tale distinzione tra le regole di adottate nel settore civile e penale risponde alle diverse finalità ed esigenze che li connotano, legate ai rispettivi diversi interessi in gioco) [ Cassazione civile sez. VI, 02/09/2019, n.21939 ; Cassazione civile sez. III, 23/10/2018, n.26700 ]. Ciò posto l'espletata ctu collegiale ha accertato la corretta indicazione terapeutica ed esecuzione di entrambi gli interventi chirurgici in questione, nonché la corretta variazione del primo intervento da intervento per via la paroscopica ad intervento per via chirurgia trazionale. Ha altresì accertato il rispetto delle linee guida del settore e che le complicanze derivate costituivano eventi previsti ma non prevedibili. E' quindi evidente che nel caso di specie ci si trova di fronte ad una cd. complicanza dell'intervento chirurgico. Con tale termine la medicina legale designa un evento dannoso, accidentale o anomalo, che insorge nel corso di un intervento chirurgico o di un iter terapeutico, aggravando la situazione del paziente e peggiorando le sue possibilità di recupero con l'insorgenza di uno stato morboso ulteriore, ancorché in qualche modo collegato o favorito dalla condizione di partenza e dalle cure praticate. Le complicanze, dunque, sono evoluzioni indesiderate del quadro clinico di un paziente. Possono essere determinate dalla sua condizione o dall'intervento medico oppure da entrambi congiuntamente. Le complicanze possono dipendere dalla patologia di base del paziente, rappresentandone una naturale progressione (in questo caso parliamo di complicanze spontanee), oppure possono essere determinate dal trattamento sanitario che gli viene praticato (e allora parliamo di complicanze iatrogene). Esistono diversi tipi di complicanze: possiamo distinguerle, ad esempio, in base alla gravità (complicanze maggiori o minori); alla ricorrenza statistica (frequenti o rare); alla tempistica con cui si presentano (precoci o tardive); e in base a tanti altri criteri, come la modalità attraverso la quale si realizzano, la natura delle conseguenze che ne derivano, oppure in relazione al distretto anatomico interessato (complicanze meccaniche, ischemiche, infettive, respiratorie, articolari, emorragiche, ecc.). Non tutte le complicanze costituiscono – però – fonte di responsabilità medica. Vanno – infatti – verificati due presupposti: la prevedibilità, che è la capacità di riconoscere un pericolo di danno; e l'evitabilità, che è la possibilità di neutralizzare questo danno. Se la complicanza era prevedibile ed evitabile in concreto, allora esiste verosimilmente un fatto illecito che è fonte di responsabilità sanitaria. Se la complicanza non era prevedibile o non era evitabile, allora non è imputabile, in quanto dipende da quella alea terapeutica sempre imponderabile, che si annida in tutte le vicende cliniche. La giurisprudenza (Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 28985 del 11.11.2019) ha precisato che la complicanza non si riferisce al momento del danno conseguenza, ma al momento dell'evento lesivo, atteso che si tratta di una lesione del diritto alla salute, che si colloca in una fase cronologicamente e logicamente antecedente lo sviluppo della fattispecie illecita dannosa: 1) inadempimento della obbligazione/errore nella esecuzione della prestazione professionale; 2) determinazione o aggravamento dello stato patologico del paziente/evento lesivo della salute; 3) invalidità temporanea o permanente che ne è derivata/danno conseguenza (non patrimoniale). E' noto che, in capo all'esercente la professione sanitaria, accanto al dovere della diligenza professionale, grava quello della generale prudenza, la quale impone al professionista la somministrazione di un trattamento terapeutico proporzionato al risultato da perseguire con specifico riguardo alle condizioni concrete del paziente. Atteso che una complicanza in medicina è un rischio possibile, seppure non probabile, l'inosservanza delle regole generali di prudenza e diligenza possono esporre il sanitario a responsabilità professionale. In particolare, in caso di peggioramento del paziente correlato ad un intervento sanitario, occorre analizzare se quel peggioramento era in concreto evitabile o meno in base alle conoscenze tecnico scientifiche del momento ed in presenza di un evento evitabile, la condotta è imputabile al sanitario. Di converso, la presenza di un evento inevitabile integra gli estremi della causa non imputabile di cui all' articolo 1218 cc . Tuttavia, sebbene un evento dal punto di vista clinico sia riconducibile ad una complicanza, non è sufficiente ad integrare il principio della causa non imputabile (Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 13328 del 30.06.2015). Così la citata giurisprudenza ha stabilito che nel giudizio di responsabilità del medico nei confronti del paziente, è necessario che il sanitario, affinché vada esente da colpa, dimostri di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente sia dipeso da una complicanza. Quindi, affinchè vi sia l'esonero della responsabilità del sanitario, occorre che il danno sia stato imprevedibile o quantomeno inevitabile. Quindi al medico convenuto in un giudizio di malpractice medica non è sufficiente, per superare la presunzione posta a suo carico dall' articolo 1218 cc ., dimostrare che l'evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate complicanze, rilevate dalla statistica sanitaria, in quanto tale concetto è inutile nel campo giuridico. Infatti, quando si verifica durante l'intervento o successivamente alla sua conclusione, un peggioramento delle condizioni cliniche del paziente, o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le complicanze, oppure tale peggioramento non era prevedibile o non evitabile. In concreto non riveste pertanto alcun valore sostenere che l'evento dannoso non sia stato voluto dal medico, perché rientrante nella classificazione clinica delle complicanze: ciò che rileva è soltanto appurare in concreto se quell'evento integri gli estremi della causa non imputabile. Le ricadute di questo principio sull'onere probatorio sono di assoluto rilievo in quanto: o il medico riesce a dimostrare di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis, ed allora egli va esente da responsabilità, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri o meno nella categoria delle complicanze, oppure all'opposto, il medico quella prova non riesce a fornirla: ed allora non gli gioverà la circostanza che l'evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacché quel che rileva è se era prevedibile ed evitabile nel caso concreto Corte di Cass. III sez. civ. sent. n. 24074 del 13.10.2017). Spetta invece al paziente danneggiato dimostrare il nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale (la riconducibilità dell'evento lesivo alla condotta del sanitario) sia sotto il profilo della causalità giuridica (individuazione inequivocabile delle conseguenze pregiudizievoli). Ciò posto nella specie, alla luce delle risultanze della espletata ctu, è emerso che a) l'intervento praticato era indicato per le condizioni della attrice; b) l'intervento è stato eseguito correttamente; c) il laparocele derivato al primo intervento è una delle complicanze prevedibili ma inevitabili dell'intervento. Evidente quindi che nella specie, alla luce delle chiare conclusioni della relazione di ctu, non vi è prova alcuna della responsabilità della struttura sanitaria in questione e dei sanitari che ebbero in cura l'attrice. In ordine alla dedotta violazione del consenso informato in relazione al primo intervento (tramutato da intervento in laparoscopia a intervento per via chirurgica tradizionale). Il collegio medico ha ravvisato un non adeguato consenso, ovvero la documentazione in atti non sarebbe tale da dimostrare che la paziente fosse stata resa pienamente edotta della possibilità di mutare il tipo di intervento a fronte di necessità operatorie. Ebbene – a parte la circostanza – che all'epoca dei fatti (2001) la disciplina positiva del consenso informato non esisteva ancora (essendo stata introdotta nel 2017), si osserva che a l'inadempimento dell'obbligo di informazione sussistente nei confronti del paziente può assumere rilievo a fini risarcitori, anche in assenza di un danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla lesione del diritto all'informazione, tutte le volte in cui siano configurabili, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di carattere non patrimoniale di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale all'autodeterminazione in se stesso considerato, sempre che tale danno superi la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e che non sia futile, ossia consistente in meri disagi o fastidi (cfr. Cass., 9 febbraio 2010, n. 2847 ; più di recente ordinanza 22 agosto 2018, n. 20885). Come chiarito da Cass. n. 5631 del 23 febbraio 2023 , le conseguenze dannose derivanti da un atto terapeutico eseguito senza un consenso legittimamente prestato devono essere debitamente allegate dal paziente sul quale grava l'onere di provare il fatto positivo del rifiuto che egli avrebbe opposto al medico, tenuto conto che il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla sua scelta soggettiva e non essendo configurabile un danno risarcibile in re ipsa derivante esclusivamente dall'omessa informazione. Si osserva quindi che “La violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all'intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; nonché un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, rinvenibile quando, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”. La Cassazione ancora di recente (ordinanza 12 giugno 2023, n. 16633) ha chiarito che: se “ricorre il consenso presunto (ossia può presumersi che, se correttamente informato, il paziente avrebbe comunque prestato il suo consenso)” e “non vi è alcun danno derivante dall'intervento”, non è dovuto alcun risarcimento; se, invece, “ricorrono il consenso presunto e il danno iatrogeno, ma non la condotta inadempiente o colposa del medico nell'esecuzione della prestazione sanitaria” (cioè, l'intervento è stato correttamente eseguito), “il danno da lesione del diritto, costituzionalmente tutelato, all'autodeterminazione è risarcibile qualora il paziente alleghi e provi che dalla omessa, inadeguata o insufficiente informazione gli siano comunque derivate conseguenze dannose, di natura non patrimoniale, diverse dal danno da lesione del diritto alla salute, in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente”. Ebbene nella specie parte attrice ha mai sostenuto che l'intervento fosse stato eseguito in maniera scorretta, né ha mai stato prospettato che in presenza di un'adeguata informazione, ella avrebbe rifiutato di sottoporsi ai due interventi. E quindi il consenso della paziente all'intervento è da ritenere presunto, anche perché non è dato sapere quale altra strada si sarebbe potuta intraprendere di fronte alla non rispondenza alla terapia medica (non chirurgica). La mancata acquisizione del consenso informato al trattamento sanitario non ha leso, in sé, il diritto della paziente all'autodeterminazione e, dunque il diritto a ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui veniva sottoposta, con particolare riguardo alle possibili complicanze dell'intervento, così da consentirle di valutare più approfondite diagnostiche o eventuali terapie alternative. In conclusione, dunque, la violazione del consenso informato, pur in assenza di un errore medico, è risarcibile solo se vi sia stata una lesione del diritto del paziente all'autodeterminazione e se da ciò sia derivato un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, diverso dalla lesione del diritto alla salute, di apprezzabile gravità. Nella specie ciò non sussiste. Le spese del giudizio vanno poste a carico della parte attrice. P.Q.M. Il Tribunale di Catania – sezione quinta civile, in persona del sottoscritto giudice istruttore in funzione di giudice unico, uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta, da (omissis) contro (omissis), (omissis), (omissis), e (omissis), disattesa ogni ulteriore istanza, così provvede: 1) rigetta la domanda; 2) condanna l'attrice al pagamento delle spese del giudizio in favore delle parti convenute, liquidate – per ciascuna parte - in complessivi € 5500.00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa come per legge.