In veste di amicus curiae , l’Avvocatura generale ha proposto alla CGUE di annullare integralmente la direttiva UE 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 ottobre 2022, relativa ai salari minimi adeguati dell’Unione Europea, in quanto incompatibile con l’articolo 153, paragrafo 5, TFUE e con il principio di attribuzione sancito dall’articolo 5, paragrafo 2, TUE.
Il caso Il presente parere ha tratto origine dal ricorso ex articolo 263 TFUE presentato dal Regno di Danimarca avverso la direttiva 2022/2041, avente a oggetto la regolamentazione dei salari minimi all’interno dell’Unione Europea Direttiva AMW . Con il sostegno del Regno di Svezia, lo stato ricorrente ha argomentato la richiesta demolitoria facendo leva sul principio di attribuzione , consacrato dall’articolo 5 par. 2 TUE da una lettura del combinato disposto dei paragrafi 1 lettera b , 2 lettera b e 5 dell’articolo 153 TFUE, infatti, sarebbe possibile evincere il potere del legislatore europeo di intervenire nel settore delle “ condizioni di lavoro”, ma non in quello della “retribuzione” e del “diritto di associazione ” . È bene rilevare, su un piano più squisitamente politico, che Danimarca e Svezia hanno in altre occasioni avversato gli interventi normativi in campo laburistico, in ragione di una consolidata autonomia del sistema di relazioni industriali e del ruolo primario ricoperto dalla contrattazione collettiva nelle fonti del diritto del lavoro detto altrimenti, un intervento comunitario in quel settore viene recepito in senso peggiorativo per le elevate garanzie assicurate dall’ azione sindacale danese e svedese. Si deve sottolineare, però, che il caso risulta nevralgico per la tenuta del principio di legalità e dello stato di diritto in Europa, considerato che sarà compito della Corte di Giustizia stabilire se l’Unione abbia o meno esorbitato dai poteri a essa concessi dagli stati membri. Punctum pruriens della presente controversia, perciò, consiste nello stabilire se la direttiva, in violazione dei trattati e del principio di attribuzione che fissa il riparto di prerogative tra Unione e stati membri, abbia disciplinato una materia estranea alle competenze dell’UE. Excursus storico e politico sulla ratio di una disciplina europea All’indomani della crisi del Covid-19, è stata la stessa Commissione europea, in sede di proposta di direttiva, a segnalare che «molti lavoratori non fossero attualmente tutelati da salari minimi adeguati nell’Unione europea» e che «un intervento incisivo sulle condizioni lavorative apparisse “essenziale per sostenere una ripresa economica sostenibile e esclusiva». La delicatezza del caso è facilmente intuibile laddove si consideri lo sforzo comunitario di emanciparsi da una funzione sovranazionale meramente economica e doganale per estendere, nell’ottica di una maggiore salvaguardia dei diritti fondamentali, la tutela europea anche al campo dei diritti sociali. Bene rilevare, a tal proposito, che solo con il trattato di Amsterdam il c.d. “ Capitolo sociale ” , contenente l’affermazione dei diritti sociali europei, entra a far parte stabilmente del sistema dei trattati. Inevitabile, d’altro canto, che simili approcci normativi possano suscitare le ostilità e le avversioni dell’autonomismo delle sovranità nazionali. L’adozione della direttiva, pertanto, mirava a fungere da compromesso tra l’esigenza di promuovere la contrattazione collettiva sui salari negli stati membri e le specifiche istanze di autonomia dei legislatori nazionali e delle parti sociali . D’altronde, sarebbe sufficiente constatare la timidezza e la prudenza con cui il legislatore europeo è intervenuto in subiecta materia per riconoscere la consapevolezza del rischio di violazione dei trattati e il tentativo di tener fede al principio di attribuzione e alle competenze nazionali. Già durante l’ iter di approvazione della direttiva, tuttavia, il governo e il parlamento danesi avevano manifestato il loro dissenso, facendo obiezioni sulla legittimità dell’atto a causa della lesione del principio di attribuzione. Secondo la prospettiva dell’Avvocatura generale, tre sono i principali obiettivi perseguiti dalla direttiva in esame, cui corrispondono altrettante disposizioni di particolare interesse per risolvere la quaestio di legittimità promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari , cui mira l’articolo 4 della direttiva avente a oggetto l’obbligo per gli stati di proteggere le parti sociali nella fase delle trattative adeguatezza dei salari minimi , quale proposito dell’articolo 5 che fissa criteri vincolanti per la fissazione di salari minimi adeguati rafforzamento dell’accesso dei lavoratori ai diritti alla tutela del salario minimo , specificato dall’articolo 12 che garantisce strumenti efficaci di risoluzione delle controversie in caso di lesione di diritti retributivi riconosciuti dalla legislazione nazionale o dalla contrattazione. Il parere favorevole al ricorrente dell’Avvocatura generale il principio di attribuzione leso in materia di retribuzione… Tanto premesso in ordine alle peculiarità politico-sociali e disciplinari della direttiva, l’Avvocatura si è concentrata nella disamina dei motivi di ricorso del Regno di Danimarca, interrogandosi circa l’intervenuta violazione del principio di attribuzione a opera degli articoli summenzionati che, in spregio dell’articolo 153 par. 5 TFUE, avrebbero dettato disposizioni in materia di retribuzione e diritto di associazione sindacale. Particolarmente rilevante, peraltro, è la subordinata al primo motivo, secondo cui, anche a voler ammettere la validità della direttiva, è da escludere che la base giuridica dell’articolo 153 par. 1 lettera b consenta di ovviare, come sarebbe accaduto, all’unanimità in seno al Consiglio per disciplinare la materia sindacale ex par. 1 lettera f . In prima battuta e in riferimento alla censura più rilevante concernente il principio di attribuzione, il parere ha segnalato l’esistenza di una consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia ex plurimis, sentenza del 13 settembre 2007 C‑307/05, EU C 2007 509 Sentenza del 10 giugno 2010 C‑395/08 e C‑396/08, EU C 2010 329 sentenza del 19 giugno 2014 da C‑501/12 a C‑506/12, C‑540/12 e C‑541/12, EU C 2014 2005 secondo cui l’esclusione di cui all’articolo 153 par. 5 TFUE debba essere intesa in senso stringente, in modo da ricomprendere le misure di livellamento delle voci retributive o introduzione di salari minimi , con palese ingerenza del diritto UE nelle politiche sociali degli stati membri trattasi del c.d. “ test di inferenza diretta ”, che interpreta in senso restrittivo le disposizioni limitative delle competenze comunitarie e esclude che un mero e occasionale collegamento con la materia non attribuita dia necessariamente luogo a ipotesi di incompetenza. Nonostante un’ermeneutica così rigida, i governi danese e svedese hanno ritenuto che la direttiva , benché non imponesse salari minimi o livelli retributivi generalmente validi, statuendo in materia di adeguatezza dei minimi esistenti e prescrivendo misure a carico degli stati che predispongono tale tutela nei loro ordinamenti, pregiudicasse la sostanza del dettame di cui all’articolo 153 par. 5 TFUE . Le disposizioni censurate, infatti, conseguirebbero l’effetto di armonizzare indirettamente i livelli retributivi a carico degli stati membri con salari minimi legali . Di diverso avviso il Consiglio e alcuni governi europei che, a sostegno della legittimità della direttiva, hanno ribadito il carattere meramente procedurale e l’effetto migliorativo solamente indiretto dell’intervento della direttiva sulla materia delle retribuzioni. A ben vedere, peraltro, i criteri di adeguatezza criticati dei ricorrenti fungerebbero da semplici parametri qualitativi, da tenere in considerazione nella determinazione, affidata ai legislatori nazionali, dei minimi salariali i margini di manovra degli stati resterebbero, perciò, inalterati. Si può desumere dal conflitto delle due tesi che il fulcro ruoti attorno al significato e alla portata applicativa del concetto di “ retribuzione ” si deve stabilire, in altri termini, se l’esclusione riguardi i soli livelli retributivi o a anche le procedure di fissazione dei minimi . Sconfessando la tesi avallata dai resistenti, l’Avvocatura generale ha ritenuto che non possa essere sostenuta una limitazione contra litteram del dettame dell’articolo 153, paragrafo 5 si dovrebbe, invece, riconoscere che l’esclusione è atta a ricomprendere tutti i sistemi di determinazione delle retribuzioni e non solo il loro livello quantitativo . Una interpretazione restrittiva di una norma di esclusione, infatti, non può valere a privarla di ogni utile efficacia in concreto. Diversamente opinando, si assisterebbe all’armonizzazione tra gli stati membri di qualsiasi aspetto non riguardi strictu sensu l’importo della retribuzione. Se la finalità consiste nella protezione dell’autonomia degli stati e delle parti sociali, potrebbe rilevarsi irragionevole e contraddittorio far salva la libera contrattazione sul salario minimo, ma stabilire le modalità con cui essa debba essere condotta . Adottando la tecnica del distinguishing , inoltre, il parere ha rilevato le profonde differenze tematiche tra il caso di specie e la pregressa giurisprudenza sull’interpretazione restrittiva dell’articolo 153, par. 5., dato che quei precedenti non riguardavano specificamente l’oggetto disciplinare della retribuzione, ma il progressivo superamento delle discriminazioni nel mondo del lavoro. In gioco era, pertanto, la possibilità di incidere indirettamente sul trattamento retributivo mediante disposizioni aventi oggetto e ratio del tutto differenti prevedibile che l’esclusione venisse interpretata diversamente, non bastando un collegamento di qualsivoglia natura per invocare l’applicazione della norma. A giustificare un’interpretazione restrittiva, quindi, è stata un’ incidenza indiretta sulla retribuzione non sorretta da precipuo scopo in tal senso il c.d. test di interferenza diretta, elaborato dalla giurisprudenza invocata, non ha rilievo poiché pensato per disposizioni avente ratio avulsa dall’oggetto su cui incidevano. È parso doveroso, perciò, escludere i requisiti minimi in materia di retribuzione dalle competenze dell’Unione europea atteso che quel test è stato predisposto per interventi su condizioni di lavoro in generale e non può interessare la materia retributiva, deve concludersi che il principio di attribuzione preclude qualsiasi forma di armonizzazione nel settore. Si può evincere che, secondo il parere, il solo legiferare in materia di retribuzione sia lesivo dell’articolo 153, par. 5, TFUE. Varrebbe, d’altra parte, a pregiudicare il principio di legalità e di attribuzione sostituire, come suggerito dal governo tedesco, il test di ingerenza diretta con una valutazione di effettivo pregiudizio all’autonomia delle parti sociali quand’anche un intervento europeo in materia di retribuzione preservi le prerogative sindacali, resta la possibilità che esso comprometta l’esclusione in esame e, perciò, il riparto di competenze tra stati e Ue. Per l’Avvocatura generale, dunque, non si deve ragionare in termini di intensità e misura dell’ingerenza, ma di mera esistenza di un’ingerenza mirata nella materia . Alla luce delle considerazioni svolte, è indubbio che nella prospettiva dell’ amicus curiae le disposizioni summenzionate della direttiva impugnata, attinenti all’adeguatezza dei minimi, entrino in collisione con l’articolo 153, par. 5, TFUE. Oggetto e ratio esplicite dell’atto normative riguardano, infatti, un settore in cui l’Ue non ha poteri pur non imponendo un salario minimo, nell’esigere il rispetto di determinati criteri per la determinazione degli eventuali minimi legali, la direttiva si ingerirebbe in settori riservati a ordinamenti e contrattazioni nazionali. L’invasività degli obblighi, peraltro, esclude che i parametri di adeguatezza abbiano una rilevanza meramente procedurale, come sostenuto dai resistenti e dai governi intervenuti in loro favore basti considerare, a tal proposito, il divieto della direttiva di affidarsi a meccanismi di indicizzazione che abbiano per effetto di ridurre i salari minimi stabiliti . … ma non di “diritto di associazione” A detta dei ricorrenti, le disposizioni della direttiva avrebbero anche invaso il settore del diritto di associazione, riservato ex articolo 153, par. 5, TFUE alla competenza statale. Com’è noto, tale diritto, protetto anche a livello costituzionale dagli articoli 18 e 39, si traduce nella libertà di aderire a organizzazioni sindacali e di partecipare, in autonomia, alla contrattazione collettiva nello svolgimento delle relazioni industriali . La direttiva, nella parte in cui all’articolo 4 impone agli stati di adottare misure protettive in favore della contrattazione collettiva e dei sindacati, si porrebbe in un irriducibile contrasto con il principio di attribuzione. I resistenti, d’altro canto, hanno sostenuto che dal diritto di associazione si dovesse scindere il diritto alla contrattazione collettiva e all’autonomia contrattuale delle parti sociali . Le disposizioni della direttiva, inoltre, non interverrebbero sul diritto di associazione, ma si limiterebbero a facilitare il diritto alla contrattazione collettiva, lasciando libere l’adesione e il recesso dalle associazioni sindacali. Anche in tal caso, l’Avvocatura generale ha evidenziato le questioni centrali della censura l’esatta interpretazione del diritto di associazione e l’applicabilità del test di ingerenza diretta, in assenza di giurisprudenza pregressa sul punto, non solo alla retribuzione, ma anche a quest’ulteriore materia. Circa la prima questione, richiamando non solo gli articoli 12 e 28 della Carta di Nizza, ma anche l’articolo 156 TFUE, il parere ha invero riconosciuto che i due diritti sono sempre considerati in modo scisso e distinto dal diritto comunitario il diritto di costituire o aderire a organizzazioni sindacali non assorbe in sé il diritto di negoziare e concludere accordi collettivi. L’interpretazione restrittiva del paragrafo 5 dell’articolo 153 TFUE auspicata dalla Corte di giustizia, funzionale a salvaguardare gli obiettivi di politica sociale di cui all’articolo 151 TFUE e l’effettività delle disposizioni contenute nei paragrafi 1-4 dell’articolo 153 TFUE, hanno indotto l’Avvocatura generale a escludere che la direttiva abbia introdotto una disciplina in materia di diritto di associazione, in violazione del principio di attribuzione. Diversamente, la competenza comunitaria in materia di rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori ex articolo 153 par. lettera f sarebbe priva di sostanza e ratio giustificatrice. La misure volte a promuovere la contrattazione collettiva di cui all’articolo 4 della direttiva, pertanto, non invadono il settore del diritto di associazione riservato, per espressa previsione dei trattati, agli stati membri. In merito alla seconda questione, l’Avvocatura generale non ha rinvenuto ragioni per non estendere anche al diritto di associazione il test di ingerenza diretta elaborato per la retribuzione trattandosi di una norma di esclusione, da intendersi restrittivamente, è bene ribadire che non qualsiasi tipo di collegamento, ma solo la disciplina avente per oggetto e scopo il diritto di associazione può pregiudicare il principio di attribuzione. Resta fermo che, data la distinzione tra il diritto summenzionato e il diritto alla contrattazione collettiva, non sussistano margini per ritenere che vi sia stata un’ingerenza diretta in subiecta materia. La censura subordinata in materia di corretta adozione della base giuridica Rispetto alla seconda censura, secondo la quale, invadendo la competenza di cui all’articolo 153, par. 1 lettera f , TFUE in materia di difesa collettiva di lavoratori, l’atto avrebbe dovuto poggiarsi su tale base giuridica, con conseguente necessità di una pronuncia unanime del Consiglio, l’Avvocatura generale ha optato per una differente ricostruzione . In presenza di un atto volto a perseguire più finalità, infatti, è necessario che l’interprete verifichi l’obiettivo principale avuto di mira dal legislatore europeo, in modo da selezionare la base giuridica corretta , ovvero le giuste regole formali e procedurali per l’adozione dell’atto stesso in tal caso vi sarebbero poche perplessità in merito alla netta prevalenza, tra gli obiettivi della direttiva, della materia retributiva e, dunque, delle condizioni di lavoro ex articolo 153, par. 1 lettera b rispetto alla difesa collettiva dei lavoratori. La stessa promozione della contrattazione collettiva di cui all’articolo 4, d’altronde, è apparsa funzionale a assicurare la realizzazione dello scopo principale, ovvero l’adeguatezza dei minimi salariali. L’invalidità della direttiva, pertanto, non potrebbe poggiare sull’assunto per cui essa sarebbe stata adottata con un’erronea base giuridica. È stata premura dell’Avvocatura generale precisare, infine, che neppure differenti basi giuridiche eventualmente ipotizzabili, come l’articolo 175 TFUE in materia di fondi per la coesione sociale, avrebbero mai potuto ovviare all’espressa esclusione della “ retribuzione ” dalle materie attribuite all’UE ex articolo 153 TFUE par. 5. La soluzione Alla luce delle considerazioni svolte, precisando che la domanda subordinata relativa alla base giuridica non meritasse di essere accolta e che non vi fosse stata alcuna ingerenza nel settore del “ diritto di associazione”, l’Avvocatura generale ha proposto alla Corte di Giustizia dell’UE di « annullare integralmente la direttiva UE 2022/2041 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 ottobre 2022, relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea , in quanto incompatibile con l’articolo 153, paragrafo 5, TFUE e, quindi, con il principio di attribuzione sancito dall’articolo 5, paragrafo 2, TUE». Conclusioni Il parere dell’Avvocatura generale, nelle vesti di amicus curiae in una controversia instaurata con ricorso in annullamento ex articolo 263 TFUE avverso la direttiva UE 2022/2041, offre l’opportunità di ribadire il carattere fondamentale del principio di attribuzione nella gerarchia delle fonti del diritto UE e il ruolo decisivo della base giuridica in riferimento alla legittimità di un atto dell’Unione Europea. Non solo l’analisi approfondita pone anche in luce le evidenti contraddizioni e mancanze del sistema dei trattati nel sostenere un’incisiva e moderna politica sociale europea.