In un caso di esercizio abusivo della professione di avvocato, è stato ribadito che atti svolti senza titolo, se condotti in modo continuativo e organizzato, potrebbero far presumere l'esistenza di un'attività professionale regolare. In determinate circostanze, anche un unico atto «tipico» potrebbe configurare tale reato, indipendentemente dall'espletamento dell'attività in forma continuativa.
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in commento, ha dichiarato inammissibile il ricorso di un uomo condannato per esercizio abusivo della professione di avvocato, ribadendo le caratteristiche del reato punito ex articolo 348 c.p. In particolare, nel caso in esame, i giudici di secondo grado avevano confermato la condanna del Tribunale, ritenendo che l'imputato, radiato dall'Ordine, avesse svolto attività legale in modo continuativo e organizzato, inclusi incontri e consulenze con la persona offesa, senza avere il titolo necessario per farlo. L'imputato adiva, quindi, la Suprema Corte contestando l'affermazione di responsabilità, la prescrizione del reato e l'applicazione della recidiva. I Giudici hanno evidenziato che costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui «integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all'articolo 348 cod. penumero il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.» Cass. numero 11545/2011 Risponde del delitto in questione – ha, poi continuato la Cassazione - colui che ponga in essere anche un solo atto «tipico», cioè indipendentemente dall'espletamento di una attività in forma continuativa, stante la sua idoneità ad incidere sulla progressione del procedimento penale, in rappresentanza dell'interessato. La Corte d'Appello aveva, dunque, correttamente applicato tali principi all'imputato che aveva evidentemente svolto attività di consulenza legale in modo continuativo, nonostante non avesse firmato gli atti. Quanto alla prescrizione, la Suprema Corte ha confermato che, nel caso di esercizio abusivo della professione, la reiterazione degli atti costituisce un unico reato, consumatosi con la cessazione della condotta ne consegue che, laddove vengano posti in essere più atti, come nell'ipotesi in disamina, si risponde comunque di un unico reato e non di una pluralità di reati, legati dal vincolo della continuazione. Infine, anche il terzo motivo, con cui era stata censurata l'applicazione della recidiva, è stato dichiarato manifestamente infondato la Corte d'Appello aveva correttamente indicato che il certificato penale dell'accusato presentasse diverse condanne per reati simili a quello in questione, evidenziando un'approfondita inclinazione verso comportamenti illeciti e confermando che l'attuale infrazione rifletteva un'intenzione deliberata di agire al di fuori delle regole. La decisione impugnata è stata, dunque, considerata adeguata dalla Cassazione, poiché ha riconosciuto i requisiti necessari richiesti relativamente alla condotta riprovevole e alla pericolosità dell'imputato.
Presidente Aprile - Relatrice Pacilli Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 13 febbraio 2024 la Corte di appello di Milano ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Como il 9 gennaio 2023, con cui P.A. è stato condannato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di cui all'articolo 348 cod. penumero , perché, non avendone titolo, essendo stato radiato dall'albo degli avvocati, aveva esercitato la professione di avvocato con riguardo alla persona offesa A.M 2. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputato, che ha dedotto i motivi di seguito indicati. 2.1. Vizi della motivazione, per essere l'affermazione della responsabilità del ricorrente stata basata su elementi probatori insussistenti e, in qualche caso, travisati. In particolare, per quanto attiene alle ricevute di riscossione degli importi, tutte in fotocopia, la Corte di appello non avrebbe dato conto della versione fornita dall'imputato, il quale aveva dichiarato di aver firmato solo l'originale delle dichiarazioni olografe e di non aver mai avuto in visione la dichiarazione dattiloscritta prodotta dalla difesa, che, essendo una mera fotocopia, poteva essere una sovrapposizione di più documenti inseriti su un unico foglio. Inoltre, non sarebbe stata considerata l'attestazione della Commissione Provinciale di Como oggi Corte di giustizia tributaria di primo grado , dalla quale risulterebbe, sulla base della consultazione del sistema informatico di registrazione degli affari, «che non sono presenti ricorsi presentati da A.M. con difensore P.A.». Peraltro, non sarebbe stata valutata adeguatamente l'attendibilità della persona offesa e sarebbe stato trascurato che gli Avvocati P.E. e M.M. avevano dichiarato in dibattimento di avere essi presentato il ricorso nell'interesse di A.M 2.2. Erronea applicazione della legge, per avere la Corte di appello ritenuto che l'imputato avesse reiterato la condotta fino al 2017, per il fatto di avere consigliato alla persona offesa di rivolgersi a un avvocato cassazionista per l'eventuale proposizione di un ricorso. Tuttavia, il semplice consigliare un legale non costituirebbe atto di esercizio della professione, ma, al più, attività stragiudiziale. La Corte territoriale avrebbe errato nel non ritenere estinto per prescrizione il reato, che sarebbe stato consumato nel 2023 e non - come invece ritenuto in sentenza - alla data della scoperta da parte della persona offesa che l'imputato non era un avvocato. 2.3. Errata applicazione della recidiva specifica e reiterata, per non avere la Corte territoriale considerato che l'ultimo reato, commesso dall'imputato, risalirebbe al 2006 e, perciò, a molti anni addietro e per non aver valutato la situazione di P.A. ma quella di un altro imputato, avendo fatto riferimento alla professione di farmacista e all'illecito commercio di medicinali. Considerato in diritto 1. Il ricorso è inammissibile. 2. Riguardo al primo motivo, con cui il ricorrente ha contestato l'affermazione della responsabilità per il reato di cui all'articolo 348 cod. penumero ascrittogli, va ricordato che la Corte di appello, confermando la decisione del Tribunale, ha ritenuto accertato — già solo sulla base delle attendibili dichiarazioni della persona offesa, confortate da quelle dell'amica che l'aveva accompagnata agli incontri con il ricorrente — che l'imputato aveva speso l'inesistente titolo professionale di avvocato con condotte tipiche dell'esercizio della professione legale, svolte in maniera organizzata e protratta per un considerevole arco temporale. Dalla sentenza di primo grado, richiamata e condivisa dalla sentenza impugnata, si trae che il ricorrente, che era stata radiato dall'ordine degli avvocati, aveva avuto circa venti incontri con la persona offesa, le aveva consigliato di proporre ricorso per risolvere un problema tributario, aveva predisposto due ricorsi, l'aveva accompagnata da un avvocato al fine di presentare un ricorso per cassazione. In tale situazione la Corte di appello ha correttamente ritenuto che l'imputato avesse posto in essere, in modo protratto nel tempo, reiterate condotte concretizzanti l'abusivo esercizio della professione legale. Va ricordato, infatti, che costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice il principio secondo il quale integra il reato di esercizio abusivo di una professione di cui all'articolo 348 cod. penumero il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva a una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali, per continuatività, onerosità e organizzazione, da creare, in assenza di chiare indicazioni diverse, le oggettive apparenze di un'attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato cfr. Sez. U, numero 11545 del 15/12/2011, dep. 2012, Cani, Rv. 251819 - 01 . Si è, altresì, puntualizzato che non commette il reato di abusivo esercizio della professione di avvocato il soggetto che si limiti all'occasionale compimento di una attività stragiudiziale, non potendo una prestazione isolata essere sintomatica di un'attività svolta in forma professionale, in modo continuativo, sistematico ed organizzato in questo senso Sez. 6, numero 32952 del 25/05/2017, Favata, Rv. 270853 - 01 Sez. 6, numero 17921 del 11/03/2003, Gava, Rv. 224959 - 01 . Risponde, invece, del delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato colui che, senza essere iscritto all'albo, ponga in essere anche un solo atto tipico - cioè indipendentemente dall'espletamento di una attività in forma continuativa - in quanto idoneo ad incidere sulla progressione del procedimento o del processo penale, in rappresentanza dell'interessato, a nulla rilevando che quell'atto possa essere redatto o compiuto personalmente da quest'ultimo in questo Sez. 6, numero 47675 del 30/10/2023, Cantatore, Rv. 285498 - 01 Sez. 6, numero 15423 del 15/03/2023, Addari, non mass. Sez. 2, numero 26113 del 7/05/2019, Conoscenti, Rv. 276657 - 01 Sez. 6, numero 11493 del 21/10/2013 - dep. 2014, Tosto, Rv. 259490 - 01 Sez. 6, numero 30068 del 2/07/2012, Pinori, Rv. 253272 - 01 Sez. 6, numero 42790 del 10/10/2007, Galeotti, Rv. 238088 - 01 . Di tali regulae iuris la Corte di appello di Milano ha fatto corretta applicazione, avendo rimarcato che l'imputato aveva svolto in modo continuativo attività di consulenza legale e predisposto anche ricorsi, a nulla rilevando che tali atti non fossero stati da lui firmati. La sentenza impugnata, dunque, è immune da vizi rilevabili in questa sede, mentre le deduzioni del ricorrente sono tese a sollecitare una rilettura delle prove acquisite nel giudizio di merito, in contrasto con il consolidato orientamento di legittimità secondo cui è preclusa alla Corte di cassazione la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una differente ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o, comunque, di attendibilità delle fonti di prova ex plurimis Sez. U, numero 47289 del 24/9/2003, Petrella, Rv. 226074 - 01 Sez. 3, numero 17395 del 24/01/2023, Chen, Rv. 284556 - 01 Sez. 4, numero 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702 - 01 Sez. 6, numero 47204 del 7/10/2015, Musso, Rv. 265482 - 01 . Va precisato - in risposta alla doglianza sul punto formulata nel ricorso - che con l'atto di appello non era stata chiesta la rinnovazione dibattimentale per l'acquisizione degli originali dei documenti, prodotti dalla difesa della persona offesa, e, ad ogni modo, le censure relative alle copie di tali documenti perdono rilievo ove si consideri che entrambe le sentenze di merito hanno posto a base dell'affermazione della responsabilità dell'imputato le dichiarazioni della persona offesa, ritenute credibili e anche confortate da riscontri. 3. Il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato. Il Collegio di appello ha fatto decorrere il termine di prescrizione del reato dalla scoperta da parte della persona offesa del fatto che l'imputato non era avvocato, ossia dalla data dell'ultimo incontro, avvenuto nel 2017, in cui egli e la persona offesa dovevano discutere della possibilità di coltivare la causa anche dinanzi alla Corte di cassazione. Siffatte argomentazioni sono immuni da vizi. Questa Corte, infatti, è ferma nel ritenere che nell'esercizio abusivo della professione - reato solo eventualmente abituale - la reiterazione degli atti tipici dà luogo ad un unico reato, il cui momento consumativo coincide con l'ultimo di essi, vale a dire con la cessazione della condotta tra le altre Sez. 6, numero 20099 del 19/04/2016, Bordi, Rv. 266746 - 01 . Ne discende che, laddove vengano posti in essere più atti, come nel caso in disamina, si risponde comunque di un unico reato e non di una pluralità di reati, avvinti dal vincolo della continuazione. 4. Anche il terzo motivo, con cui è stata censurata l'applicazione della recidiva, è manifestamente infondato. Al riguardo, infatti, la Corte di appello ha evidenziato che «il certificato penale dell'Imputato restituiva l'esistenza a suo carico di più condanne per reati esattamente sovrapponibili agli odierni», così che doveva affermarsi che egli aveva posto in essere «una condotta espressiva di un approfondimento nell'inclinazione a delinquere e che l'odierna violazione era il chiaro segnale di una deliberata azione attuata in spregio alle regole e di una caparbia aderenza a un fare illecito, assunto come stile di vita». In tal modo il Collegio territoriale si è conformato alla pacifica giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l'applicazione della recidiva richiede adeguata motivazione del giudice, che può anche essere adempiuta implicitamente, ove però si faccia riferimento alla riprovevole condotta e alla pericolosità del suo autore Sez. U, numero 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319 - 01 Sez. 6, numero 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130 - 01 . È stato anche precisato che l'anzidetta motivazione è indispensabile sia che si affermi sia che escluda la sussistenza della recidiva, potendo, comunque, tale obbligo essere adempiuto per mezzo di argomentazione succinta che dia conto del fatto che la condotta costituisce significativa prosecuzione di un processo delinquenziale già avviato Sez. 6, numero 56972 del 20/06/2018, Franco, Rv. 274782 - 01 . Nel caso di specie, pertanto, la motivazione della sentenza impugnata sfugge a ogni rilievo censorio, avendo dato atto della ricorrenza dei necessari requisiti della riprovevolezza della condotta e della pericolosità del suo autore. Va precisato che il riferimento alla professione di farmacista e all'illecito commercio di medicinale, effettuato nella sentenza impugnata nella parte relativa al diniego delle attenuanti generiche, costituisce un mero ed evidente lapsus, che non incide sulla tenuta argomentativa della pronuncia, incentrata sulla totale assenza di resipiscenza e di rivisitazione critica delle condotte da parte dell'Imputato, che — come si evince chiaramente dalla lettura dell'intera motivazione — sono state esaminate e valutate correttamente dal Giudice di appello quali esercizio abusivo della professione di avvocato. 5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende, secondo quanto previsto dall'articolo 616, comma 1, cod. proc. penumero P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.