La nullità del licenziamento discriminatorio discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno nonché di diritto europeo sicché, diversamente dall’ipotesi di licenziamento ritorsivo, non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex articolo 1345 c.c. né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico.
Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con l'ordinanza in esame. Il caso La Corte di Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accertava la violazione da parte di una nota società di comunicazione dell'obbligo di protezione ex articolo 2087 c.c. nei confronti di una propria dirigente, destinataria di numerose e-mail dal «contenuto lesivo o quantomeno stressante» nel periodo in cui quest'ultima era assente per malattia a causa di una grave patologia, condannando pertanto il primo al risarcimento del relativo danno non patrimoniale. I medesimi giudici di merito confermavano invece la giustificatezza del licenziamento irrogato alla lavoratrice, poiché l'istruttoria aveva confermato la riorganizzazione con la quale erano state ripartite tra risorse già presenti in azienda le mansioni da lei sin lì svolte, risultando all'uopo irrilevanti le nuove assunzioni effettuate dalla società attesa in sintesi l'inapplicabilità ai dirigenti dell'onere di repéchage. Erano, inoltre, infondate, ad avviso dei giudici di merito, le censure formulate dall'appellante circa la discriminatorietà del recesso - nella sua ricostruzione riconducibile alla grave patologia che l'aveva colpita ed alla conseguente prolungata assenza per malattia – atteso che «esaminando le ragioni della discriminazione addotta dalla lavoratrice, non risultano allegate circostanze idonee a connotare di discriminatorietà l'intimato licenziamento». Circostanza questa che, unitamente alla provata effettività della riorganizzazione, escludeva la configurabilità di un licenziamento discriminatorio. Contro tale pronuncia la dirigente proponeva ricorso alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. La ragione discriminatoria non deve essere esclusiva né determinante Tra il resto e per quanto qui interessa, la ricorrente si doleva innanzitutto della violazione degli articolo 2 e 3 del d.lgs. numero 216/2003 per avere la Corte di merito erroneamente ritenuto che l'esistenza di una riorganizzazione escludesse la discriminatorietà del recesso nonché, sotto altro profilo, per avere la medesima Corte escluso che l'atto discriminatorio non possa essere il licenziamento in sé indipendentemente quindi da altre condotte ad esso precedenti . Motivi che vengono condivisi dalla Cassazione la quale, ribadendo il principio esposto in massima, accoglie il ricorso. Era infatti pacifico che «la ricorrente abbia subito nel corso del rapporto di lavoro una grave ed invalidante malattia […] in seguito al quale le era stato riconosciuto l'handicap grave» ai sensi della legge numero 104/1992, con conseguente sussistenza della nozione eurounitaria di disabilità. Su tale presupposto e proprio in ragione del principio esposto in massima, era quindi errata la valutazione operata dai giudici di merito che aveva «in sostanza affermato che il licenziamento non potesse essere discriminatorio in ragione dell'esistenza dell'elemento forte del motivo riorganizzativo accertato nel giudizio» poiché «in contrasto con la normativa […] e con la giurisprudenza consolidata dalla quale risulta invece che il licenziamento possa essere, direttamente o indirettamente, discriminatorio anche quando concorra una ragione legittima». Anche il licenziamento, in sé e per sé considerato, è indizio di discriminazione Parimenti fondata, nell'avviso della Cassazione, è la seconda doglianza della ricorrente poiché, nella specie, per negare la discriminazione i giudici di merito aveva considerato solo le condizioni di lavoro della ricorrente in chiave comparatistica con altre lavoratrici, «mentre avrebbero dovuto prendere in considerazione l'atto espulsivo in sé e per sé ed operare la dovuta comparazione con il trattamento riservato ad altri colleghi, ndr riguardo al licenziamento», tanto più alla luce del fatto che «la lavoratrice aveva pure dedotto in proposito che il licenziamento adottato nei suoi confronti fosse di per sé un atto discriminatorio, sia perché adottato in ragione della sua disabilità sia perché la sua sopravvenuta disabilità aveva fatto cadere la scelta del manager da licenziare proprio su di lei tra le diverse posizioni di lavoro interscambiabili la ricorrente era l'unica disabile tra i manager aziendali ed è stata l'unica licenziata tra questi». L'onere probatorio del lavoratore che lamenti una discriminazione è alleggerito Sotto un ulteriore profilo, la Corte rileva come nemmeno sia corretto il passaggio in cui la sentenza impugnata affermava l'inidoneità delle allegazioni della lavoratrice a connotare di discriminatorietà il licenziamento, poiché in realtà ella aveva dedotto e provato «a l'esistenza comprovata del fattore di rischio costituito [ ] b l'atto in sé pregiudizievole costituito dal licenziamento c la mancanza di qualsiasi elemento giustificativo in ordine alla scelta di comminare il licenziamento proprio alla ricorrente d la comprovata esistenza di concomitanti atti indesiderati commessi per disabilità […] e l'esistenza di significativi argomenti a carattere statistico avendo la lavoratrice allegato di essere l'unica dirigente disabile e di essere stata l'unica licenziata […]», elementi questi idonei a spostare sul datore di lavoro l'onere di provare circostanze inequivoche idonee ad escludere la natura discriminatoria del recesso, in applicazione del «criterio di alleggerimento» dell'onere probatorio a carico del lavoratore previsto dalla legge. Ai fini della discriminazione può rilevare, anche per i dirigenti, la comparazione con altri lavoratori Sotto un ultimo profilo, la Cassazione ritiene sussistente un ulteriore errore nella sentenza impugnata, relativo «alla mancata valutazione della tesi formulata dalla ricorrente in termini di interscambiabilità con altri senior manager sia quadri sia dirigenti ». Allegazione che, sebbene formulata ai fini dell'accertamento di una disparità di trattamento, i giudici di merito hanno ritenuto «una rivendicazione dell'insussistente diritto del dirigente […] al repéchage arrivando a sostenere “l'irrilevanza della fungibilità della posizione della lavoratrice con quella dei colleghi di pari carica o della eventuale riallocazione di un altro settore”, mentre la ricorrente lamentava non la mera illegittimità del licenziamento per la mancata prova della impossibilità di una sua differente ricollocazione lavorativa, bensì la disparità di trattamento e la discriminatorietà originaria dell'atto di licenziamento». Per tutte queste ragioni, la Corte cassa la sentenza impugnata rinviando alla Corte d'Appello di Roma affinché proceda ad un nuovo esame «facendo applicazione di quanto in motivazione specificato con riferimento al licenziamento discriminatorio ed alla sua nullità in base alla normativa di legge».
Presidente Patti - Relatore Riverso Il testo integrale della pronuncia sarà disponibile a breve.