Condannata per appropriazione indebita l’ex moglie che trattiene e prova a vendere pezzi pregiati di arredamento

Inequivocabile la condotta tenuta dalla donna finita sotto processo a seguito della querela sporta dall’ex marito a inchiodarla è la tempistica, ossia il fatto di avere agito due anni dopo la pronuncia di divorzio.

Ricostruita la vicenda, nata a margine di un procedimento di separazione, i giudici di merito hanno riconosciuto, sia in primo che in secondo grado, la colpevolezza della donna, condannata per «appropriazione indebita di oggetti di pregio appartenenti all’ex coniuge e dei quali aveva il possesso in quanto costituenti parte dell’arredamento di quella che era stata la loro casa coniugale». Inoltre, tenuta anche a un adeguato risarcimento in favore dell’uomo, costituitosi parte civile. Secondo la difesa però, non possono essere ignorate alcune risultanze processuali da cui emerge «la circostanza che il giudizio civile per la separazione personale tra i coniugi aveva avuto inizio nel 2012, sicché l’appropriazione indebita si è verificata in epoca in cui ancora vigeva il matrimonio» tra le parti, con conseguente applicazione della causa di non punibilità prevista dal codice penale in caso di fatto commesso in danno del coniuge non legalmente separato. Per i giudici di Cassazione le obiezioni difensive sono fragilissime. Innanzitutto «non è contestata dalla donna la proprietà, in capo all’ex marito, dei beni che formano oggetto del reato». Per quanto concerne la chiusura ufficiale del matrimonio, «il provvedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio attesta che i due coniugi divorziarono nel 2015» e, peraltro, «da quel provvedimento risulta che neanche nel giudizio civile si era mai fatta questione in ordine alla proprietà dei beni mobili, pacificamente riconducibili alla persona offesa, ma il cui possesso, all’esito del giudizio civile, era stato attribuito alla donna in quanto si trattava di oggetti facenti parte della casa coniugale a lei in un primo momento assegnata». E sempre da quel provvedimento emerge che «la persona offesa non aveva mai rivolto all’ex moglie una espressa e specifica diffida alla restituzione dei beni in discorso», tanto che «il Tribunale civile aveva rigettato la domanda restitutoria, tenuto conto della sua genericità e del fatto che i beni erano a corredo della casa coniugale». In sostanza, «la donna non aveva avuto lo scopo di appropriarsi di cose di proprietà altrui, bensì di mantenerne il possesso, in attesa dell’esito del giudizio civile, comportamento fino a quel momento penalmente irrilevante che, in quanto tale, non poteva generare alcuna velleità di punizione in capo alla parte civile da veicolare attraverso una querela». Ma, annotano i giudici di Cassazione, «al contrario, dopo due anni dal divorzio, nell’estate del 2017 – in significativa concomitanza con un provvedimento del Tribunale civile, che, modificando le precedenti statuizioni, aveva assegnato la casa coniugale alla parte civile –, la donna aveva compiuto il primo e decisivo atto di appropriazione indebita dei beni mobili di proprietà dell’ex marito, asportandoli dalla casa coniugale ed affidandoli per la vendita ad un antiquario». E «di tale circostanza, la persona offesa aveva avuto contezza solo nel mese di agosto del 2017» quando, difatti, «aveva sporto tempestivamente querela» ad hoc. All'esito di tale disamina, i giudici ritengono che la condotta della donna integri il reato a lei contestato. Non è infatti possibile, chiosano i giudici, riconoscerle la causa di non punibilità, in quanto «la condotta illecita è stata da lei posta in essere dopo il divorzio dal marito».

Presidente Pellegrino - Relatore Sgadari Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale di Ragusa, emessa il 6 luglio 2020, che aveva condannato la ricorrente alla pena di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile in relazione al reato di appropriazione indebita di oggetti di pregio appartenenti al suo ex coniuge e dei quali aveva il possesso in quanto costituenti parte dell'arredamento di quella che era stata la loro casa coniugale. 2. Ricorre per cassazione A.S., deducendo, con unico ed articolato motivo, violazione di legge e vizio della motivazione per non avere la Corte rilevato la tardività della querela. La sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente valutato le risultanze processuali, dimostrative del fatto che, fin dal 2009, l'imputata e la persona offesa C.C., avevano instaurato un giudizio per la separazione personale, all'interno del quale la parte civile, una volta abbandonata la casa coniugale senza mai più riprendere la convivenza con la moglie, aveva rivendicato la proprietà dei beni mobili della cui indebita appropriazione si discute, chiedendoli in restituzione alla ricorrente senza successo, circostanza dimostrata dagli atti del giudizio civile indicati in ricorso sentenza del Tribunale di Ragusa numero 243/2015 . Ne conseguirebbe che la persona offesa sarebbe stata perfettamente consapevole, fin dal 2009, dell'intenzione della moglie di non restituirle i beni, espressamente manifestata con il suo comportamento, tanto da avere intrapreso una causa civile anche a questo scopo, con conseguente tardività della querela sporta nel 2017, dopo il rigetto della domanda civile. Nel 2017, sarebbe stato posto in essere solo un ulteriore comportamento di dominio sui beni, successivo alla consumazione del reato contestato fg. 4 del ricorso , che ha natura istantanea. Sotto altro profilo, la ricorrente sostiene che le risultanze processuali documenterebbero la circostanza che il giudizio civile per la separazione personale tra i coniugi, aveva avuto inizio nel 2012, sicché l'appropriazione indebita si sarebbe verificata in epoca in cui ancora vigeva il matrimonio, con conseguente applicazione della causa di non punibilità di cui all'articolo 649 cod.penumero . Considerato in diritto Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi manifestamente infondati. 1. Non è contestata dalla ricorrente la proprietà, in capo alla parte civile C.C., dei beni che formano oggetto del reato. La sentenza alla quale si fa riferimento nel ricorso e che è ad esso allegata, è di cessazione degli effetti civili del matrimonio ed attesta che l'imputata ed il C.C. divorziarono nel 2015. 2. Da quel provvedimento risulta che neanche nel giudizio civile si era mai fatta questione in ordine alla proprietà dei beni mobili, pacificamente riconducibili alla persona offesa ma il cui possesso, all'esito del giudizio civile, era stato attribuito alla ricorrente in quanto si trattava di oggetti facenti parte della casa coniugale a lei in un primo momento assegnata. Emerge, altresì, dalla lettura di quella stessa sentenza, sollecitata dal ricorso, che la persona offesa non aveva mai rivolto alla ricorrente una espressa e specifica diffida alla restituzione dei beni in discorso, venendo rigettata dal Tribunale civile di Ragusa la domanda restitutoria, tenuto conto della sua genericità e del fatto che i beni erano a corredo della casa coniugale. Ne consegue che, come ha correttamente evidenziato la sentenza impugnata, la linea difensiva adottata dalla ricorrente durante il corso del giudizio civile ed al suo interno, non aveva avuto lo scopo di appropriarsi di cose di proprietà altrui, bensì di mantenerne il possesso in attesa dell'esito del giudizio, comportamento fino a quel momento penalmente irrilevante che, in quanto tale, non poteva generare alcuna velleità di punizione in capo alla parte civile da veicolare attraverso una querela. Al contrario, dopo due anni dal divorzio, nell'estate del 2017 - in significativa concomitanza con un provvedimento del Tribunale civile, emesso il 6 luglio 2017, che, modificando le precedenti statuizioni, aveva assegnato la casa coniugale alla parte civile, come risulta a fg. 4 della sentenza di primo grado - la ricorrente aveva compiuto il primo e decisivo atto di appropriazione indebita dei beni mobili di proprietà dell'ex marito, asportandoli dalla casa coniugale ed affidandoli per la vendita ad un antiquario. Di tale circostanza, la persona offesa aveva avuto contezza solo nel mese di agosto del 2017 come ha precisato la Corte di appello , sicché la querela, sporta il 16 agosto 2017, era tempestiva. 3. Le considerazioni che precedono assorbono le restanti questioni, anche con riferimento alla invocata applicazione dell'articolo 649 cod.penumero , deduzione manifestamente infondata in quanto la condotta illecita era stata posta in essere dall'imputata dopo il divorzio dal marito. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila alla Cassa delle Ammende, commisurata all'effettivo grado di colpa della stessa ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.