Nessuna deroga al divieto di licenziamento della lavoratrice incinta per cessazione dell’attività aziendale

A nulla rileva che la società datrice di lavoro sia ancora iscritta o meno al registro delle imprese. Ciò che conta è la «reale ed effettiva cessazione dell’attività».

La vicenda in esame può essere così sintetizzata la Corte d'appello di Genova rigettava il gravame proposto dalla ricorrente avverso la sentenza del Tribunale che aveva respinto la sua domanda di impugnativa del licenziamento intimatole per cessazione dell’attività aziendale, nonostante si trovasse in condizione di gravidanza. Di qui, il ricorso in Cassazione della donna, secondo la quale la deroga al divieto di licenziamento costituita dalla cessazione dell'attività dell'azienda in cui la lavoratrice madre è addetta nel periodo di interdizione «opera solo ed esclusivamente in caso di totale cessazione dell'intera attività aziendale, per la cui integrazione era necessaria la cancellazione dal registro delle imprese». Il ricorso, tuttavia, è infondato. I Giudici, infatti, ricordano che la legge prescrive soltanto che esista la cessazione dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta e «detto requisito va riferito alla conclusione concreta dell’attività operativa aziendale, non già all’estinzione dell’impresa o della società, che si consegue in effetti solo con la successiva cancellazione dal registro delle imprese». Pertanto, «a nulla può rilevare ai fini in oggetto che la società datrice di lavoro sia ancora iscritta o meno al registro delle imprese» ciò che conta, invece, è l’aspetto sostanziale della reale ed effettiva cessazione dell’attività, tanto che, se la cessazione non sia stata effettiva o venga ripresa dopo poco tempo dal licenziamento, questo comporterà la «carenza della ragione addotta e la nullità del licenziamento per violazione del divieto legale». Nel caso di specie è risultato provato il contrario, ossia il venir meno di qualsiasi attività di impresa prima del licenziamento della ricorrente.   Il ricorso, pertanto, viene rigettato.

Presidente Doronzo – Relatore Riverso Fatti di causa 1.- La Corte d'appello di Genova, con la sentenza in atti, ha rigettato il gravame proposto da T.Y. avverso la sentenza del tribunale che aveva respinto la sua domanda di impugnativa del licenziamento intimatole il OMISSIS per cessazione dell'attività aziendale, nonostante ella si trovasse in condizione di gravidanza. 2.- A fondamento della sentenza la Corte d'appello sosteneva che ai sensi dell'articolo 54, co. 3 lett. b decreto legislativo numero 151 del 2001 il licenziamento della lavoratrice madre è possibile solo laddove l'attività d'impresa cessi in toto, essendo necessaria la cessazione dell'intera attività aziendale non essendo sufficiente che cessi il reparto o l'unità produttiva cui la lavoratrice è addetta. Inoltre per cessazione dell'attività doveva essere intesa la fine dell'attività d'impresa, sicchè il licenziamento motivato dalla cessazione dell'attività aziendale poteva ritenersi legittimo anche se collocato nella fase antecedente alla liquidazione della società ed alla sua stessa estinzione come si ricavava anche dalla fattispecie del licenziamento collettivo per cessazione di attività ex l.223/91, che presupponeva la permanenza in vita della società rispetto alla quale la cessazione dell'attività si poneva come fenomeno logicamente distinto. 3.- Nel caso di specie era pacifico che l'unità locale di OMISSIS , dove lavorava la ricorrente, era inattiva già in epoca anteriore al licenziamento intimato il OMISSIS , mentre l'unità locale di Livorno, costituito dall'ufficio del OMISSIS , era già chiuso prima del licenziamento a causa delle gravi condizioni di salute del socio accomandatario, da sempre unico addetto all'unità locale. Il licenziamento doveva pertanto ritenersi legittimo risultando provata l'integrale cessazione dell'attività aziendale. 4. Contro la sentenza ha proposto il ricorso per cassazione T.Y. con un motivo al quale ha resistito OMISSIS S.a.S. con controricorso illustrato da memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell'articolo 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c. Ragioni della decisione 1.- Con l'unico motivo di ricorso si deduce, ex articolo 360 numero 3 c.p.c., violazione o falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro con riferimento all'articolo 54 commi 1 e 3 lett. b d.lgs. 151/2001, considerato che secondo la giurisprudenza consolidata di legittimità la deroga al divieto di licenziamento costituita dalla cessazione dell'attività dell'azienda in cui la lavoratrice madre è addetta nel periodo di interdizione, opera solo ed esclusivamente in caso di totale cessazione dell'intera attività aziendale, per la cui integrazione era necessaria la cancellazione dal registro delle imprese almeno quando, come nel caso di specie, non ci si trovava di fronte ad un imprenditore individuale bensì ad una vera e propria società sul punto l'orientamento giurisprudenziale Sez. unumero 4060, 4061 e 4062 del 22/02/2010 ed anche della Corte costituzionale Corte Cost. numero 319/2000 era chiaro ed indiscutibile, avendo affermato che la cessione dell'impresa societaria coincide sic et simpliciter con la cancellazione della società dal registro delle imprese, senza possibilità di prova contraria. La stessa esigenza di tutela della maternità imponeva quindi lo stesso rigore interpretativo ispirato dalla necessità di garantire certezza giuridica e nel caso di specie la massima tutela della maternità ovvero la stessa tutela riconosciuta ai creditori della società insolvente ed anzi persino molto di più rispetto a questi la quale poteva realizzarsi solo attraverso la cancellazione della società dal registro delle imprese. Anche qualora abbia cessato la propria operatività un'impresa che non risulti cancellata dal registro dell'imprese non poteva quindi dirsi effettivamente cessata. 2.- Inoltre la questione era stata di recente affrontata dalla Corte di cassazione con l'ordinanza numero 35527 del 19/12/2023 relativamente al caso in cui una società fallita aveva comunque cessato la propria operatività e non era stato autorizzato l'esercizio provvisorio con tale ordinanza la Corte aveva riconosciuto la tutela della lavoratrice madre e dichiarato illegittimo il suo attraverso una lettura rigorosa del concetto di cessazione dell'attività disciplinato dall'articolo 54 “nel senso che deve essere esclusa, dal suo perimetro operativo, ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell'impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga, avvalorando, quindi, un profilo sostanziale e non formale del fenomeno “cessazione”. 3.- Il motivo di ricorso è infondato. Secondo la tesi sostenuta dalla ricorrente per poter procedere al licenziamento della lavoratrice madre, in base all'ipotesi eccettuativa consentita dall'articolo 54, co. 3 lett. b decreto legislativo numero 151 del 2001, occorrerebbe la certezza che la società datrice di lavoro sia stata cancellata dal registro delle imprese. 4.- Tale tesi non può essere accolta atteso che la legge prescrive invece soltanto che esista la cessazione dell'attività dell'azienda cui la lavoratrice è addetta e detto requisito - benchè sia da intendere nel senso che occorra la cessazione dell'intera attività aziendale Cass. numero 22720 del 28/09/2017 - va riferito alla conclusione concreta dell'attività operativa aziendale, non già all'estinzione dell'impresa o della società che si consegue in effetti solo con la successiva cancellazione dal registro delle imprese. 5.- Pertanto a nulla può rilevare ai fini in oggetto che la società datrice di lavoro controricorrente sia ancora iscritta o meno al registro dell'imprese. Ciò che interessa invece è, come si è detto, l'aspetto sostanziale della reale ed effettiva cessazione dell'attività tanto che se la cessazione non sia stata effettiva o venga ripresa dopo poco tempo dal licenziamento, questo comporterà la carenza della ragione addotta e la nullità del licenziamento per violazione del divieto legale. 6.- Alla stregua di tali premesse in diritto, occorre rilevare che nel caso di specie è risultato provato il contrario, ossia il venir meno di qualsiasi attività di impresa riferita alle due unità locali ed in entrambi i casi prima del licenziamento della ricorrente. La sentenza gravata ha invero accertato la cessazione dell'unità relativa all'attività del bar a OMISSIS prima del licenziamento “era inattiva già in epoca anteriore al licenziamento” , nonché la cessazione dell'attività dell'ufficio a OMISSIS “era già chiuso prima del licenziamento a causa delle condizioni di salute del socio accomandatario da sempre unico addetto all'unità locale” . 7.- Sul punto l'accertamento operato dai giudici di merito non è suscettibile di alcuna revisione in questa sede di legittimità, peraltro nemmeno ritualmente dedotta nell'unico motivo di ricorso. 8.- E' inoltre inammissibile, oltre che priva di effettiva rilevanza, la censura relativa alla motivazione del licenziamento per chiusura del solo bar piuttosto che dell'attività aziendale sia per difetto di specificità, posto che non è testualmente riprodotto nemmeno il tenore del licenziamento sia perché, come già detto, è pure diversa la motivazione della sentenza, non puntualmente censurata in ricorso, la quale fa riferimento alla nozione legale di cessazione dell'attività aziendale riferita ad entrambe le unità locali. 9.- Infine, non rileva la recente ordinanza di questa Corte numero 35527 del 19/12/2023, pure richiamata in ricorso, nella quale si è statuito che “In caso di fallimento, la prosecuzione di attività conservative dell'azienda in funzione del trasferimento a terzi - pur in assenza di un provvedimento di autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa del fallito ex articolo 104 l. fall. - esclude la legittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice madre, in quanto la cessazione dell'attività, presupposto che legittima il licenziamento ai sensi dell'articolo 54, comma 3, lett. b , del d.lgs. numero 151 del 2001, va apprezzata sul piano naturalistico-sostanziale e non su quello giuridico-formale”. 10.- Tale pronuncia si riferiva però ad un “contesto in cui dopo il fallimento era cessata l'attività operativa in mancanza di esercizio provvisorio, era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano nemmeno iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio ”. 11.- Si trattava cioè di una fattispecie nella quale, benchè non fosse stato disposto l'esercizio provvisorio, non era cessata del tutto l'attività d'impresa e risultavano ancora pendenti rapporti di lavoro di taluni dipendenti da selezionare ai fini di una cessione d'azienda. Sicchè, anche in quel caso, si è dato rilievo al dato meramente fattuale della prosecuzione dell'attività, sia pure nella prospettiva di una cessione di azienda, e non piuttosto al dato meramente formale del fallimento senza esercizio provvisorio. 12.- Il ricorso deve essere quindi rigettato. Le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall'articolo 91 c.p.c. Sussistono le condizioni di cui all'articolo 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 3.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. numero 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell'articolo 13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.