Respinta la tesi difensiva, mirata a presentare la condotta della donna come giustificata dalla rivendicazione di un diritto. Accolta l’istanza della Procura, che ha censurato la posizione del Tribunale, ossia il riconoscimento della non punibilità della donna per una presunta tenuità dei fatti.
Condannabile per il reato di molestia la donna che tempesta di messaggi – scritti e vocali –l’ex compagno per ottenere il versamento del contributo per i figli. A finire nei guai è una donna, mostratasi assillante verso l’ex compagno. Quest’ultimo ha non solo raccontato la vicenda ma ha anche messo sul tavolo i messaggi – scritti e vocali – pervenuti sulla sua utenza telefonica e inviatigli dalla donna, da lui registrati e consegnati alla polizia giudiziaria in sede di denuncia. Per il giudice del Tribunale non vi sono dubbi la condotta tenuta dalla donna va catalogata come palese molestia ai danni dell’uomo. Inequivocabile il contenuto dei messaggi, motivati da ragioni ulteriori, oltre al mero mancato versamento del contributo paterno per i figli, e, soprattutto, aventi il connotato della petulanza. A sorpresa, però, il giudice del Tribunale opta per l’assoluzione della donna, ritenendo la accertata condotta da lei tenuta non grave, ma, allo stesso tempo, la condanna a versare un adeguato risarcimento in favore dell’uomo, costituitosi parte civile. A portare la vicenda in Cassazione sono la Procura e la donna, ovviamente con motivazioni opposte. Per quanto concerne la donna, ella sostiene che «l’unica ragione dell’invio dei messaggi era la richiesta di versamento della somma stabilita dal Tribunale civile per il mantenimento dei figli, richiesta resa impellente da uno stato di difficoltà economica, essendosi nel periodo del Covid», mentre «i toni dei messaggi sono dovuti», spiega la donna, «al contesto socio-culturale delle due parti» e ad una «reciprocità delle offese». In aggiunta, poi, la donna osserva che «l’invio di un messaggio non costituisce, in sé, una molestia, perché il destinatario può non aprirlo, ed è una scelta, quindi, leggerlo e rispondere». Per completare il quadro, infine, la donna afferma che l’ex compagno «ha presentato una denuncia strumentale, essendo egli stesso indagato per l’omessa corresponsione della somma stabilita per il mantenimento dei suoi figli minori». Per i magistrati di Cassazione, però, è fragilissima la tesi proposta dalla donna, tesi mirata a negare la sussistenza del requisito della petulanza o del biasimevole motivo, perché, a suo dire, «i messaggi non erano offensivi, ma solo diretti a sollecitare all’ex compagno l’adempimento di un dovere». Su questo fronte, difatti, il comportamento della donna è palesemente, secondo i giudici, «costituito da petulanza», mentre «il biasimevole motivo va individuato nelle frasi fatte pronunciare dal figlio minore». Per maggiore chiarezza, poi, i giudici aggiungono che «l’esercizio di un diritto non esclude la contravvenzione se esso avviene con modalità petulanti, cioè con atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell’altrui sfera di libertà, dal momento che l’elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l’eventuale convinzione del soggetto di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto». Impossibile, poi, secondo i giudici, escludere il reato solo perché, come sostenuto dalla donna, «le molestie erano portate mediante messaggi che il destinatario poteva scegliere di non visionare». Su questa tematica, difatti, innanzitutto bisogna tener presente che «il tentativo dell’uomo di impedire la prosecuzione delle molestie da parte della ex, tentativo compiuto bloccando l’utenza della donna, è stato da lei aggirato utilizzando il telefono cellulare in uso ad uno dei figli minori ed anche istigando il ragazzo a inviare egli stesso al padre messaggi vocali molesti e ingiuriosi». Ciò detto, va poi tenuto presente, aggiungono i giudici, che «la norma punisce le molestie compiute col mezzo del telefono, utilizzando tutte le funzioni di questo strumento». Difatti, «ai fini della configurabilità del reato di molestia, commesso attraverso il mezzo del telefono, ciò che rileva è il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere o prevenire l’azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l’utenza non gradita», e, perciò, «costituisce molestia anche l’invio di messaggi telematici, siano essi di testo SMS o messaggi Whatsapp». Confermato, infine, il risarcimento in favore dell’uomo, a fronte del danno morale da lui subito e «conseguente alla indebita invasione della propria sfera di libertà», invasione provata dalla descrizione della condotta molesta. Per quanto concerne la Procura, invece, il ricorso in Cassazione è mirato a contestare l’applicazione in Tribunale del proscioglimento per la particolare tenuità del fatto. Su questo fronte, dalla Procura osservano che «la norma esclude l’applicabilità dell’istituto nel caso di una condotta abituale, quale quella contestata alla donna, essendo la consumazione del reato proseguita a lungo e attraverso una pluralità di condotte moleste, qualificabili come un’unica condotta abituale». Questa visione è condivisa in pieno dai magistrati, i quali ribadiscono «la non applicabilità della non punibilità per particolare tenuità del fatto nel caso di sussistenza di un reato necessariamente abituale, o di un reato eventualmente abituale ma compiuto con condotte ripetute». Difatti, «la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione in relazione al reato di molestia, nel caso di reiterazione della condotta tipica». E nella vicenda oggetto del processo «la ricostruzione del fatto dimostra in modo palese che la condotta molesta della donna si è estrinsecata in una pluralità di messaggi, inviati separatamente e in tempi diversi, addirittura da un’altra persona – un figlio –, diversa da lei, e con un diverso telefono». Palese, quindi, «il requisito della abitualità del reato, ostativo all’applicazione dell’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto».
Presidente Casa – Relatore Masi Ritenuto in fatto 1. Con sentenza emessa in data 19 aprile 2024 il Tribunale di Locri ha assolto Po.Gi., ai sensi dell'articolo 131-bis cod. penumero , dal reato di cui all'articolo 660 cod. penumero commesso dal Omissis e con condotta perdurante, condannandola però al risarcimento del danno in favore della parte civile, liquidato in via equitativa. Il giudice ha ritenuto provata la sussistenza del reato dalle dichiarazioni della persona offesa, riscontrate dai messaggi scritti e vocali pervenuti sulla sua utenza telefonica e dalla stessa registrati e consegnati alla polizia giudiziaria in sede di denuncia, e dall'esame di tali messaggi, che ha ritenuto motivati da ragioni ulteriori, oltre al mancato versamento del contributo per i figli, e aventi il connotato della petulanza. 2. Avverso la sentenza hanno proposto appello il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri e Po.Gi., per mezzo del suo difensore avv. Giuseppe Oppedisano gli appelli sono stati qualificati come ricorsi per cassazione, stante l'inappellabilità stabilita dall'articolo 593, comma 3, cod. proc. penumero 2.1. Il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri deduce l'erronea applicazione del proscioglimento per la particolare tenuità del fatto, previsto dall'articolo 131-bis cod. penumero , in quanto la norma esclude l'applicabilità dell'istituto nel caso di una condotta abituale, quale quella contestata, essendo la consumazione del reato proseguita a lungo e attraverso una pluralità di condotte moleste, qualificabili come un'unica condotta abituale. 2.2. L'imputata, con un unico motivo, deduce la violazione di legge, per avere la sentenza omesso di valutare la reciprocità delle offese e la insussistenza del reato per mancanza degli elementi oggettivo e soggettivo. L'unica ragione dell'invio dei messaggi era la richiesta di versamento della somma stabilita dal Tribunale civile per il mantenimento dei figli, resa impellente dallo stato di difficoltà economica della ricorrente, essendosi nel periodo del Covid, mentre i toni offensivi degli stessi sono dovuti al contesto socio-culturale delle due parti. La documentazione esaminata non dà conto dell'atteggiamento offensivo della stessa persona offesa, perché non è integrale, mancando i messaggi scritti e vocali di quest'ultima, e non è stata acquisita ritualmente, mediante effettuazione di copia forense della chat. Inoltre l'invio di un messaggio non costituisce, in sé, una molestia, perché il destinatario può non aprirlo, ed era una scelta di quest'ultimo di leggerlo e di rispondere. In realtà il denunciante ha presentato una denuncia strumentale, essendo egli stesso indagato per l'omessa corresponsione della somma stabilita per il mantenimento dei suoi figli minori. Alcuni messaggi, inoltre, provengono dal figlio minore, e l'affermazione del Tribunale, che essi siano stati suggeriti dalla madre, non potendo per il loro contenuto provenire dal minore, è del tutto sfornita di prova. Infine il reato non può essere ritenuto continuato, non essendo contestato l'articolo 81, comma 2, cod. penumero , ed è errata la liquidazione di un risarcimento in favore della parte civile, peraltro non motivata, non essendo provato alcun danno. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha chiesto il rigetto del ricorso proposto dal pubblico ministero, avendo il giudice escluso l'abitualità della molestia, e la declaratoria di inammissibilità per il ricorso proposto dall'imputata, essendo richiesta una mera rivisitazione delle prove. Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto dall'imputata è infondato, e deve essere rigettato. 2. La ricorrente afferma l'insussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato, in primo luogo, negando la sussistenza del requisito della petulanza o del biasimevole motivo, perché i suoi messaggi non sarebbero offensivi, ma solo diretti a sollecitare al compagno l'adempimento di un suo dovere. Tale affermazione è infondata il giudice ha tenuto conto delle ragioni del comportamento della ricorrente, tanto da ritenerlo costituito da petulanza , e da individuare la sussistenza del biasimevole motivo solo nelle frasi fatte pronunciare dal figlio minore. La motivazione della sentenza impugnata è corretta, e conforme ai principi giurisprudenziali, secondo i quali l'esercizio di un diritto non esclude la contravvenzione se esso avviene con modalità petulanti Sez. F, numero 32321 del 26/07/2007, Rv. 236798 , cioè con atteggiamento di arrogante invadenza e di intromissione continua e inopportuna nell'altrui sfera di libertà, dal momento che l'elemento soggettivo del reato consiste nella coscienza e volontà della condotta, tenuta nella consapevolezza della sua idoneità a molestare o disturbare il soggetto passivo, senza che possa rilevare l'eventuale convinzione dell'agente di operare per un fine non biasimevole o addirittura per il ritenuto conseguimento, con modalità non legali, della soddisfazione di un proprio diritto Sez. 1, numero 50381 del 07/06/2018, Rv. 274537 . 2.1. La ricorrente sostiene, poi, l'insussistenza del reato stante la reciprocità delle offese. Questa parte del motivo di ricorso è ai limiti dell'inammissibilità, perché versata quasi interamente in fatto e priva della necessaria autosufficienza, in quanto fondata su alcune frasi attribuite alla persona offesa, non documentate e non allegate al ricorso nelle forme prescritte. La reciprocità delle molestie può escludere la sussistenza del reato di cui all'articolo 660 cod. penumero , eliminando il requisito della petulanza, ma a condizione che tra le condotte dell'imputato e della vittima vi sia stato un rapporto di immediatezza o, comunque, un nesso di interdipendenza Sez. 5, numero 11679 del 13/12/2022, dep. 2023, Rv. 284250 , nesso che nel presente caso non è stato neppure affermato dalla ricorrente, quanto alla frequenza e alla eventuale spontaneità delle offese da lei attribuite alla persona offesa. Non vi è, pertanto, alcuna prova in atti dell'asserita reciprocità delle molestie, circostanza che rende del tutto infondata questa parte dell'unico motivo di ricorso. 2.2. Anche l'affermazione della insussistenza del reato perché le molestie erano portate mediante messaggi, che il destinatario poteva scegliere di non visionare, è infondata. In primo luogo essa non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, dalla quale risulta che il tentativo della persona offesa di impedire la prosecuzione delle molestie da parte della ricorrente, compiuto bloccando la sua utenza, è stato da lei aggirato utilizzando il telefono cellulare in uso ad uno dei figli minori ed anche istigando quest'ultimo a inviare egli stesso al padre messaggi vocali molesti e ingiuriosi. In secondo luogo, non tiene conto del fatto che la norma punisce le molestie compiute col mezzo del telefono , utilizzando tutte le funzioni di questo strumento questa Corte ha stabilito, infatti, che Ai fini della configurabilità del reato di cui all'articolo 660 cod. penumero commesso attraverso il mezzo del telefono, ciò che rileva è il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario, e non la possibilità per quest'ultimo di interrompere o prevenire l'azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l'utenza non gradita ne consegue che costituisce molestia anche l'invio di messaggi telematici, siano essi di testo SMS o messaggi whatsapp Sez. 1, numero 37974 del 18/03/2021, Rv. 282045 . 2.3. Infine è infondata la censura in merito alla liquidazione del danno in favore della parte civile, in quanto il giudice ha liquidato il solo danno morale in via equitativa, conformandosi alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui In tema di risarcimento del danno, la liquidazione dei danni morali, attesa la loro natura, non può che avvenire in via equitativa, dovendosi ritenere assolto l'obbligo motivazionale mediante l'indicazione dei fatti materiali tenuti in considerazione e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente in base a quali calcoli è stato determinato l'ammontare del risarcimento Sez. 6, numero 48086 del 12/09/2018, Rv. 27422 . Nel presente caso il danno conseguente alla indebita invasione della propria sfera di libertà è notorio e insito nella struttura stessa del reato, per cui la sua sussistenza deve ritenersi sufficientemente provata dalla descrizione della condotta molesta. Deve altresì ricordarsi che In tema di liquidazione del danno non patrimoniale, la valutazione del giudice, affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi, è censurabile in sede di legittimità sotto il profilo del vizio della motivazione solo se essa difetti totalmente di giustificazione o si discosti macroscopicamente dai dati di comune esperienza o sia radicalmente contraddittoria Sez. 5, numero 7993 del 09/12/2020, dep., .2021, Rv. 280495 . La sentenza, attraverso la ricostruzione della condotta molesta e la valutazione della sua natura petulante, motiva sufficientemente la sussistenza di un danno non patrimoniale, e la modesta entità della somma liquidata in via equitativa rende non necessaria una sua specifica giustificazione. 2.4. Il ricorso proposto dalla imputata deve, pertanto, essere rigettato in ogni punto. Al rigetto consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. 3. Il ricorso presentato dal procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, invece, è fondato e deve essere accolto. Costituisce un principio consolidato di questa Corte la non applicabilità dell'istituto previsto dall'articolo 131-bis cod. penumero nel caso di sussistenza di un reato necessariamente abituale, o di un reato eventualmente abituale ma compiuto con condotte ripetute. Si è affermato, infatti, che La causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto non può trovare applicazione in relazione al reato di molestia ex articolo 660 cod. penumero nel caso di reiterazione della condotta tipica nella specie, pedinamento della persona offesa , senza necessità di esplicita motivazione sul punto Sez. 1, numero 1523 del 05/11/2018, dep. 2019, Rv. 274794, tra le molte . Nel presente caso la ricostruzione del fatto, come contenuta nella sentenza impugnata, dimostra in modo palese che la condotta molesta si è estrinsecata in una pluralità di messaggi, inviati separatamente e in tempi diversi, addirittura da un'altra persona, diversa dall'imputata, e con un diverso telefono. Sussiste, pertanto il requisito della abitualità del reato, ostativo all'applicazione dell'istituto, ai sensi dell'articolo 131-bis, quarto comma, cod. penumero 4. Sulla base delle considerazioni che precedono, stante l'accoglimento del solo ricorso proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Locri, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al punto della applicazione dell'istituto di cui all'articolo 131-bis cod. penumero , con rinvio al Tribunale di Locri, in diversa persona fisica, per un nuovo giudizio su tale punto, da svolgersi con piena libertà valutativa, ma nel rispetto dei principi sopra puntualizzati e tenendo conto della sopravvenuta definitività della decisione in merito alla sussistenza del reato e alla responsabilità dell'imputata per esso. P.Q.M. In accoglimento del ricorso del pubblico ministero, annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Locri, in diversa persona fisica. Rigetta il ricorso di Po.Gi., che condanna al pagamento delle spese processuali.