Il post su Facebook contro l’ex datore di lavoro non giustifica il licenziamento

La Cassazione ha confermato la reintegrazione di un dipendente licenziato per un post su Facebook che riguardava l'ex datore di lavoro.

Il post, infatti, invitava a guardare una fiction sulla storia di una bambina che era morta dopo essere vissuta vicino allo stabilimento siderurgico in cui il padre lavorava. Per il datore di lavoro, l'invito a interessarsi di una storia, ispirata allo stabilimento di Taranto, si traduceva in «espressioni gravemente lesive dell'immagine e della reputazione aziendale, eccedenti il diritto di critica». Di diverso avviso la Cassazione, che ha confermato la decisione della Corte di merito il post del dipendente, infatti, non conteneva «nessun riferimento né diretto né indiretto […] al suo attuale datore di lavoro, che solo di recente ha rilevato lo stabilimento e nulla ha a che vedere con la vicenda rappresentata nella fiction in questione». Nello specifico, il Collegio ha stabilito che non vi era un comportamento disciplinare rilevante che potesse ledere la reputazione del nuovo datore di lavoro. Alla luce di tali considerazioni, i Giudici hanno concluso che «il fatto contestato è insussistente, perché nessun comportamento di rilievo disciplinare, idoneo a offendere il datore di lavoro o lederne la reputazione, è stato posto in essere».

Presidente Patti – Relatore Amendola Rilevato che 1. la Corte di Appello di Lecce – sez. dist. di Taranto, nell'ambito del procedimento ex lege numero 92 del 2012, con la sentenza impugnata, ha confermato la pronuncia di primo grado con cui era stato giudicato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dalla omissis s.p.a., già omissis s.p.a., a C.R. - con condanna della società alla reintegrazione e al pagamento dell'indennità risarcitoria prevista dal novellato articolo 18 St. lav. – per aver “condiviso” e “pubblicato” sulla Sua bacheca virtuale omissis espressioni gravemente lesive dell'immagine e della reputazione aziendale, eccedenti il diritto di critica 2. la Corte, in estrema sintesi, ha ritenuto, sulla base degli elementi di fatto acquisiti al giudizio, che il post contestato – contenente l'esortazione a visionare una fiction televisiva narrante la morte di una bambina causata da malattia indotta dalla vicinanza di uno stabilimento siderurgico – non contenesse “nessun riferimento né diretto né indiretto […] al suo attuale datore di lavoro, che solo di recente ha rilevato lo stabilimento e nulla ha a che vedere con la vicenda rappresentata nella fiction in questione” ne ha tratto la conclusione “secondo cui il fatto contestato è insussistente, perché nessun comportamento di rilievo disciplinare, idoneo ad offendere il datore di lavoro o lederne la reputazione, è stato posto in essere” 3. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la soccombente società con tre motivi, cui ha resistito l'intimato con controricorso all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni Considerato che 1. i motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati 1.1. il primo lamenta la motivazione solo apparente della sentenza impugnata, in violazione dei canoni dettati dall'articolo 132, comma 1 numero 4 c.p.c. e dall'articolo 118, comma 1 disp. att. c.p.c. si eccepisce che, a fronte di motivi di reclamo specifici, la sentenza d'appello si limiterebbe di fatto ad una riproposizione - mediante mere affermazioni di stile - di taluni degli assunti alla base della statuizione di prime cure, omettendo di esplicitare le ragioni alla base del disposto rigetto delle censure specificamente proposte 1.2. in via subordinata, col secondo mezzo si denuncia la “censurabilità della sentenza di secondo grado per motivazione contraria al cd. canone costituzionale di cui all'articolo 111, comma 6, Cost.”, ex articolo 360 numero 5 c.p.c. dopo aver sostenuto che nella specie non ricorrerebbe una ipotesi di cd. “doppia conforme”, ancora si sostiene che “la pronuncia è, […], palesemente viziata da motivazione apparente o, in ogni caso, obiettivamente incomprensibile” 1.3. il terzo motivo di ricorso denuncia, ai sensi del numero 3 dell'articolo 360 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli articolo 1175 e 1375 c.c., in riferimento agli articolo 2 e 21 Cost. ed in considerazione della portata dell'articolo 595 c.p., per avere la sentenza impugnata violato i “principi in materia di legittimo esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore” 2. premesso che l'accertamento in concreto della riferibilità o meno del contenuto del post contestato alla società datrice di lavoro del C.R. investe inevitabilmente una quaestio facti che può essere sindacata da questa Corte di legittimità nei ristretti limiti in cui può esserlo ogni accertamento di fatto, il ricorso non può trovare accoglimento resta, infatti, fermo il monito delle Sezioni unite civili che hanno più volte ribadito l'inammissibilità di censure che “sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, degradano in realtà verso l'inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l'azione”, così travalicando “dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all'articolo 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti” cfr. Cass. SS.UU. numero 34476 del 2019 conf. Cass. SS.UU. numero 33373 del 2019 Cass. SS.UU. numero 25950 del 2020 2.1. ciò posto, i primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in quanto, sebbene secondo una diversa prospettazione formale, nella sostanza deducono che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe affetta da vizi tanto gravi da determinarne la nullità le censure sono infondate come noto le Sezioni unite di questa Corte Cass. SS.UU. nnumero 8053 e 8054 del 2014 hanno sancito che l'anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, integra un error in procedendo che comporta la nullità della sentenza nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico , di motivazione apparente , di contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili , di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile si è ulteriormente precisato che di “motivazione apparente” o di “motivazione perplessa e incomprensibile” può parlarsi solo laddove essa non renda “percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consenta alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” Cass. SS.UU. numero 22232 del 2016 v. pure Cass. SS.UU. numero 16599 del 2016 il che non ricorre nella specie in quanto è certamente percepibile il percorso motivazionale seguito dalla Corte territoriale per ritenere, sulla base dell'interpretazione del contenuto del post in riferimento a tutte le circostanze del caso concreto, che lo stesso non si riferisse, né direttamente né indirettamente, all'attuale datrice di lavoro e non è sufficiente a determinare il vizio radicale della nullità della sentenza né una eventuale insufficienza della motivazione, né, tanto meno, la circostanza che la medesima non soddisfi le aspettative di chi è rimasto soccombente 2.2. il terzo motivo è inammissibile perché non si confronta con la ratio decidendi della sentenza impugnata che sta tutta nella circostanza che le frasi contenute nel post del lavoratore non erano rivolte alla società di cui era dipendente, per cui risultava superflua ogni indagine sul contenuto eccedente il diritto di critica delle medesime 3. conclusivamente, il ricorso deve essere respinto, con spese secondo soccombenza e liquidazione come da dispositivo, con attribuzione all'Avv. Mario Soggia che si è dichiarato antistatario ai sensi dell'articolo 13, comma 1-quater, del d.P.R. numero 115 del 2002, nel testo introdotto dall'articolo 1, comma 17, della legge numero 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13 cfr. Cass. SS.UU. numero 4315 del 2020 P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre esborsi pari ad euro 200,00, spese generali al 15% ed accessori secondo legge, da distrarsi. Ai sensi dell'articolo 13, co. 1 quater, d.P.R. numero 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.