Per i giudici, non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l’omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva.
Dura appena centottanta giorni il sogno d'amore tra i due coniugi. A sei mesi dalle nozze, difatti, lei chiede e ottiene in un Tribunale ecclesiastico la nullità del vincolo matrimoniale. A tale scopo sono decisive le parole della donna, la quale riconosce di «avere escluso il bene della indissolubilità del matrimonio e di essersi sposata con l'intenzione di rimanere tale per lo stretto tempo necessario a fare una prova, onde verificare se l'unione potesse reggere», e spiega che «tale intendimento» è stato da lei «totalmente sottaciuto al marito, che ne è venuto a conoscenza soltanto in occasione della causa canonica per la nullità del matrimonio religioso». A fronte di tale quadro, il marito reagisce citando in giudizio la moglie al fine di ottenere un adeguato risarcimento, addebitandole la colpa di «avergli celato la determinazione di sposarsi per prova». Per i giudici di merito però, la pretesa avanzata dall'uomo è priva di fondamento. Così, sia in primo che in secondo grado, si vede respinta la richiesta risarcitoria avanzata. In Tribunale e in Appello infatti, i giudici sottolineano «l'irrilevanza per l'ordinamento italiano dell'esistenza di una causa di invalidità del matrimonio religioso». Ciò rende inammissibile la deduzione fatta dall'attore in merito all'intenzione – volutamente occultata – della convenuta di «sposarsi con il dichiarato intento di violare gli obblighi derivanti dal matrimonio». Inutile, secondo i giudici, il riferimento al proposito di disattendere l'indissolubilità del vincolo matrimoniale, «è una deduzione generica, non essendo stato chiarito quale ulteriore specifico obbligo matrimoniale la donna avesse l'intimo proposito di disattendere ed avesse poi effettivamente disatteso». Peraltro, l'uomo «era al corrente dei dubbi della moglie, avendone questa parlato con lui e a vendo da lui ricevuto assicurazioni» e, «comunque, non può ragionevolmente ritenersi sussistente un dovere giuridico di buonafede esteso sino al punto da imporre di condividere gli stati prettamente soggettivi, i dubbi, in altri termini la serietà dell'impegno matrimoniale. Errato è l'assunto relativo all'esistenza di un obbligo giuridico di comunicazione all'altro coniuge delle intenzioni matrimoniali, obbligo sanzionato», secondo l'uomo, «con una responsabilità risarcitoria». Su questo fronte i giudici fanno chiarezza, precisando che «nel matrimonio, a differenza del contratto, vengono in rilievo diritti della personalità, incoercibili, da cui la libertà della scelta matrimoniale, pur se non adeguatamente soppesata e pur in mancanza di una compiuta condivisione con il futuro coniuge dei motivi intimi di tale scelta, senza le compromissioni derivanti da una qualche responsabilità risarcitoria». Tornando alla vicenda poi, «è presuntivamente dimostrato, alla luce delle rassicurazioni fatte dall'uomo circa le criticità del futuro matrimonio, che egli ove informato, si sarebbe ugualmente sposato». In conclusione, i giudici sottolineano che «la breve durata del matrimonio di per sé non consente di ritenere provato che il fallimento del matrimonio sia dipeso dal comportamento reticente della donna». Sulla stessa linea dei giudici di merito si attestano anche i magistrati di Cassazione, i quali respingono definitivamente la richiesta di risarcimento ed emanano il seguente principio di diritto «non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l'omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva». Respinta la tesi proposta dall'uomo e mirata a presentare come illecito civile «il comportamento omissivo prenuziale di natura dolosa» della donna e «l'ingannevole reticenza della donna su circostanze rilevanti e significative per il matrimonio come lo sposarsi solo per prova, in violazione dei doveri di correttezza e buonafede», con conseguenti «danni, patrimoniali e non patrimoniali per lui». Secondo il ricorrente però, «non è determinante la circostanza che la donna gli abbia manifestato criticità circa il futuro matrimonio», poiché «è stata violata la sua libertà di autodeterminazione quale ignaro promesso sposo di buona fede» e «illecito civile è la condotta dello sposarsi per prova, integrante un inganno nei confronti dell'altro coniuge, condotta da assimilare al contegno della simulazione». Anche perché, sostiene, «deve presumersi che il promesso sposo, ove al corrente della reale volontà della futura sposa, non si sarebbe sposato, sicché il comportamento della donna ha ingenerato un vizio determinante nella formazione del consenso al matrimonio dell'ignaro coniuge di buonafede, ed in particolare un errore sulla persona dell'altro coniuge». Inoltre, «la libertà di contrarre matrimonio deve essere tutelata, ma non a discapito della medesima libertà dell'altro coniuge di buona fede, e il fatto che la rottura immotivata della promessa di legge comporti un risarcimento dimostra la rilevanza delle circostanze della fase prenegoziale del matrimonio». Anche tenendo presente che «il matrimonio è assoggettato per analogia ai principi ed alle regole contrattuali, ed in particolare ai principi di buonafede e correttezza e tali doveri sono stati violati dalla dolosa reticenza prenuziale di Francesca». Tirando le somme, «tale contegno di inganno» della donna «comporta», secondo l'uomo, «l'applicazione dei principi in materia di responsabilità contrattuale, ed in particolare un vizio incompleto della volontà consistente in un'anomalia che, pur non integrando una causa di invalidità, è fonte di responsabilità per l'affidamento incolpevole ingenerato nell'altro coniuge e per la lesione della libertà di autodeterminazione dell'altro coniuge». Alle obiezioni sollevate, i magistrati di Cassazione replicano ponendo in evidenza, come fatto anche dai giudici d'Appello, «l'assenza di un comportamento che possa essere configurato quale produttivo di un danno ingiusto, o altrimenti pregiudizievole sulla base di una sorta di responsabilità prenegoziale». L'assunto di fondo dell'uomo è «la denuncia della portata dannosa della mancata comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione delle nozze, della riserva mentale di contrarre il matrimonio per prova, ossia quale esperimento derivante dalla condizione di incertezza della futura sposa circa la possibilità dell'insorgenza di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza». Per quanto concerne la responsabilità risarcitoria per la mancata comunicazione, da parte della donna, della riserva mentale sulla possibile dissolubilità del matrimonio a causa del ravvisato concreto rischio di emersione di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, rischio che la futura sposa si era rappresentata al punto di contrarre il matrimonio per prova, i magistrati osservano che «la libertà matrimoniale è un diritto della personalità, sancito anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo» e «benché il matrimonio sia un atto di autonomia privata, non può esservi attribuito l'effetto impegnativo del vincolo» previsto in materia di efficacia dei contratti, anche perché non si può ignorare l'esistente «diritto di chiedere la separazione giudiziale al cospetto di un fatto tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza». Non a caso, in materia di famiglia è previsto «il diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell'altro coniuge, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile alla Costituzione». Per fare chiarezza poi, sottolineano che «l'atto di impegno matrimoniale è rimesso alla libera e responsabile scelta del soggetto, quale espressione della piena libertà di autodeterminarsi al fine della celebrazione del matrimonio. Tale libertà non può essere limitata da un obbligo giuridico di comunicare al proprio coniuge uno stato soggettivo quale l'incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale, avvertendo il soggetto il rischio concreto della sua dissoluzione ed effettuando la scelta matrimoniale nella consapevolezza di tale rischio, ciò che in altri termini comporta un tentativo o prova di convivenza matrimoniale. Affinché tale libertà non sia compromessa dall'incombenza di una conseguenza quale la responsabilità risarcitoria derivante dall'inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale». Perciò, «alla luce della libertà della scelta matrimoniale, non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d'animo di incertezza in questione, un interesse dell'altro coniuge meritevole di tutela da parte dell'ordinamento con il riconoscimento del rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto». Di conseguenza, «la riserva mentale circa la concreta possibilità della dissoluzione del matrimonio è così improduttiva di effetti per l'ordinamento italiano, sia dal lato del coniuge portatore della riserva, che non può avvantaggiarsene fino a conseguire la nullità del matrimonio – in conformità, del resto, alla generale irrilevanza della riserva mentale in materiale negoziale –, sia dal lato dell'altro coniuge, che non è titolare di un interesse meritevole di tutela risarcitoria per l'ordinamento, per avere fatto affidamento sulla mancanza di quella riserva».
Presidente Travaglino - Relatore Scoditti Rilevato che R.S. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Torino L.R.F. chiedendo il risarcimento del danno per avere la convenuta, ex moglie dell'attore, celato a quest'ultimo la determinazione di sposarsi per prova e per il deliberato accanimento, soprattutto processuale, dalla L.R.F. realizzato in diversi ambiti giudiziari. Espose, in particolare, quanto segue. Dopo circa sei mesi dalla celebrazione delle nozze avvenuta in data 13 aprile 2010, la convenuta aveva instaurato avanti al Tribunale ecclesiastico piemontese un giudizio volto a far dichiarare la nullità del vincolo matrimoniale, asserendo di avere escluso il bene della indissolubilità e di essersi sposata con l'intenzione di rimanervi sposata per lo stretto tempo necessario a fare una “prova” onde verificare se l'unione potesse reggere, intendimento totalmente sottaciuto al R.S., che ne era venuto a conoscenza soltanto in occasione della citata causa canonica, conclusasi con sentenza del 28 novembre 2011 di nullità del matrimonio religioso. Era stata successivamente rigettata dalla competente Corte d'Appello l'istanza di delibazione della decisione ecclesiastica proposta dalla convenuta per contrarietà all'ordine pubblico della caducazione del vincolo matrimoniale per effetto della riserva unilaterale di una parte e ciò a tutela dell'affidamento dell'altro coniuge. La convenuta aveva dato corso a svariati altri procedimenti ai danni del marito connessi e conseguenti al loro matrimonio e, segnatamente, alla causa giudiziale di separazione dei coniugi, a un procedimento penale, ad un procedimento disciplinare in relazione alla qualità di avvocato dell'attore ed aveva altresì contrastato, senza validi motivi, le richieste del marito di divisione dei beni in comunione dei coniugi e di divorzio. Il Tribunale adito rigettò la domanda, con condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata. Avverso detta sentenza propose appello il R.S Con sentenza di data 7 aprile 2022 la Corte d'appello di Torino rigettò l'appello, con condanna al risarcimento del danno per responsabilità aggravata. Premise la corte territoriale che l'appellante in sede di gravame aveva formulato conclusioni istruttorie chiedendo che venisse ammessa la prova dedotta nel primo grado di giudizio, facendo rinvio ai capitoli di prova orale dedotti nella seconda memoria ex articolo 183 c.p.c., non espressamente tuttavia ricapitolati in appello, per cui l'istanza, per come formulata, non poteva essere esaminata nel merito alla luce di Cass. numero 5812 del 2016 «in osservanza del principio di specificità dei motivi di appello, anche la riproposizione delle istanze istruttorie, non accolte dal giudice di primo grado, deve essere specifica, sicché è inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado» e che comunque le istanze istruttorie erano irrilevanti alla luce della successiva motivazione. Osservò quindi quanto segue, per quanto qui rileva. La sentenza di primo grado non era stata impugnata nella parte in cui il Tribunale aveva affermato l'irrilevanza per l'ordinamento dell'esistenza di una causa di invalidità del matrimonio religioso, sicché, alla luce di tale giudicato, la deduzione secondo la quale L.R.F. si fosse sposata con il dichiarato intento di violare gli obblighi derivanti dal matrimonio era inammissibile ove con la stessa si avesse voluto fare riferimento al proposito di disattendere l'indissolubilità del vincolo matrimoniale e comunque si trattava di deduzione generica non essendo stato chiarito quale ulteriore specifico obbligo matrimoniale la parte avesse l'intimo proposito di disattendere ed avesse poi effettivamente disatteso. Peraltro, l'appellante era al corrente dei dubbi della L.R.F., avendone questa parlato con il primo e da questi ricevuto assicurazioni, e comunque non poteva ragionevolmente ritenersi sussistente un dovere giuridico di buona fede esteso sino al punto da imporre di condividere gli stati prettamente soggettivi, i dubbi, in altri termini la serietà dell'impegno matrimoniale. Errato era l'assunto di fondo dell'intero gravame, ovverosia l'esistenza di un obbligo giuridico di comunicazione all'altro coniuge delle “intenzioni” matrimoniali, obbligo sanzionato con la responsabilità risarcitoria secondo l'appellante, posto che nel matrimonio, a differenza del contratto, venivano in rilievo diritti della personalità, incoercibili, da cui la libertà della “scelta matrimoniale”, pur se non adeguatamente soppesata e pur in mancanza di una compiuta condivisione con il futuro coniuge dei motivi intimi di tale scelta, senza le compromissioni derivanti da una qualche responsabilità risarcitoria diverse erano la responsabilità anche risarcitoria di cui all'articolo 129 bis c.c., la pronuncia di addebito nella separazione personale e l'eventuale condanna risarcitoria conseguente alla violazione di obblighi matrimoniali, relative a fatti storici e non ad intenzioni . Era, inoltre, presuntivamente dimostrato, alla luce delle rassicurazioni fatte dal R.S. circa le criticità del futuro matrimonio, che questi, ove informato, si sarebbe ugualmente sposato né un ostacolo in tale direzione poteva essere la fede cattolica del R.S., non costituendo la detta fede un impedimento all'iniziativa di far cessare gli effetti civili del matrimonio . Infine, la breve durata del matrimonio di per sé non consentiva di ritenere provato che il fallimento del matrimonio era dipeso dal comportamento reticente dell'appellata. Aggiunse la corte territoriale che corretta era la valutazione del Tribunale di temerarietà della lite, quanto meno con riferimento alla colpa grave ed in particolare l'avere posto a fondamento della domanda una questione - reticenza sulla riserva mentale concernente all'indissolubilità del matrimonio - irrilevante nell'ordinamento giuridico italiano i fatti che avevano dato luogo ai dubbi sulla scelta matrimoniale erano stati pacificamente discussi tra le parti prima del matrimonio era temeraria la pretesa di ritenere dimostrata la calunnia e la diffamazione per il solo fatto che fosse stata richiesta l'archiviazione per insostenibilità dell'accusa in giudizio, a fronte di fatti in parte pacifici, in parte dimostrati e controvertibili solo in considerazione della litigiosità delle parti . Aggiunse inoltre che non vi era vizio di ultrapetizione, avendo la convenuta chiesto la condanna ai sensi dell'articolo 96, terzo comma, c.p.c., e non potendo la generica pronuncia ai sensi dell'articolo 96 essere intesa come richiesta in base al primo comma, anziché il terzo comma peraltro l'applicazione del terzo comma era resa palese dalle seguenti circostanze non erano state richiamate specifiche allegazioni attoree circa il danno in ipotesi causato dall'azione temeraria il Tribunale si era pronunciato in accoglimento della domanda di Fabiola L.R.F. non erano stati richiamati specifici criteri di liquidazione equitativa diversi da quelli desumibili dalle Tabelle di Milano, dettanti per l'appunto criteri orientativi per la liquidazione ai sensi dell'articolo 96 terzo comma e che per la motivazione si era attinto alle Tabelle del Tribunale di Milano. Osservò, infine, che anche in riferimento al giudizio di appello ricorrevano i presupposti della responsabilità aggravata ai sensi del terzo comma dell'articolo 96, ed in particolare l'appello era consistito, secondo la corte territoriale «in buona parte nella generica in quanto tale inammissibile negazione della correttezza della decisione del primo giudice non accompagnata dalla formulazione di censure afferenti al percorso motivazionale illustrato dal Tribunale nella negazione che in primo grado sia stata posta a fondamento della domanda risarcitoria anche la mancata comunicazione da parte di L.R.F. della riserva mentale dell'esclusione dell'indissolubilità del matrimonio nell'aver posto a fondamento della domanda la mera mancata comunicazione da parte del futuro coniuge delle intenzioni, dei propositi e delle volizioni interne in maniera dissociata dai fatti materiali che le avevano determinate». Ha proposto ricorso per cassazione R.S. sulla base di sei motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E' stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell'articolo 380 bis.1 cod. proc. civ E' stata presentata memoria. Considerato che con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2721 e 2722 cod. civ., 112, 183, 184, 187 e 244 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost., ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3 e numero 4, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello, come affermato da Cass. numero 33103 del 2021, può ammettere le prove richieste qualora, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o della connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga la volontà inequivoca della parte di insistere sulla richiesta attraverso l'esame degli scritti difensivi. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2697 e 2729 cod. civ., 115 cod. proc. civ., 24 e 111 Cost., ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3 e numero 4, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che sono presenti tutti gli elementi dell'illecito civile di cui all'articolo 2043 c.c., desumibili in via presuntiva, avuto riguardo al comportamento omissivo prenuziale di natura dolosa ed all'ingannevole reticenza della donna su circostanze rilevanti e significative per il matrimonio come lo sposarsi solo per prova, in violazione dei doveri di correttezza e buona fede, nonché all'accanimento, anche processuale, della donna nei confronti del marito, tali da integrare sia il requisito soggettivo che il nesso di causalità con i danni, patrimoniali e non patrimoniali, denunciati con l'originaria domanda. Aggiunge che alle medesime conclusioni dovrebbe giungersi nel caso di responsabilità ai sensi dell'articolo 1218 c.c Osserva ancora che l'intimata non solo non ha assolto il proprio onere probatorio, ma ha sollevato altresì generiche e tardive contestazioni, limitate peraltro ai documenti, e che, sul piano probatorio, non è determinante la circostanza che l'intimata abbia manifestato al ricorrente criticità circa il futuro matrimonio. Aggiunge inoltre che la sentenza di primo grado è stata impugnata nella sua totalità, senza che possa essere ravvisato un giudicato interno. Osserva ancora che un fatto, e non una mera intenzione, è pure la dolosa reticenza e che non è vero che è rimasto indimostrato che il marito, ove informato, non si sarebbe sposato, come pure censurabile è l'affermazione, contenuta nella sentenza, della irrilevanza della fede cattolica del ricorrente. Osserva inoltre che costituiscono voci di danno sia le spese sopportate in vista della celebrazione del matrimonio, che le spese legali cui il ricorrente si è dovuto sottoporre. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 2043,2059,1175,1337,143 e 160 cod. civ., 2, 29, 31 e 111 Cost., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3, numero 4 e numero 5, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che giammai l'attore ha inteso applicare all'istituto matrimoniale i principi della materia contrattuale, ma ha fatto solo riferimento all'applicazione analogica dei principi in materia di buona fede e correttezza, dovendo anche in materia matrimoniale essere salvaguardata la massima libertà circa la scelta di sposarsi o meno. Aggiunge che ad essere violata è stata la libertà di autodeterminazione dell'ignaro promesso sposo di buona fede e che illecito civile è la condotta dello sposarsi per prova, integrante un inganno nei confronti della controparte, da assimilare al contegno della simulazione. Aggiunge che deve presumersi che il promesso sposo, ove al corrente della reale volontà della futura sposa, non si sarebbe sposato, sicché il comportamento della donna aveva ingenerato un vizio determinante nella formazione del consenso al matrimonio dell'ignaro coniuge di buona fede, ed in particolare un errore sulla persona dell'altro coniuge. Osserva ancora che la libertà di contrarre matrimonio deve essere tutelata, ma non a discapito della medesima libertà dell'altro coniuge di buona fede, e che il fatto che la rottura immotivata della promessa di legge stabilisce un risarcimento nei limiti di cui all'articolo 81 c.c. dimostra la rilevanza delle circostanze della fase prenegoziale del matrimonio. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 1218,1175,1337,1338,1440,143 e 160 cod. civ., 116 c.p.c., 2, 29, 31 e 111 Cost., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3, numero 4 e numero 5, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente che il matrimonio è assoggettato per analogia ai principi ed alle regole contrattuali, ed in particolare i principi di buona fede e correttezza e che nella specie tali doveri siano stati violati dalla dolosa reticenza prenuziale. Aggiunge che tale contegno di inganno comporta l'applicazione dei principi in materia di responsabilità contrattuale, ed in particolare un vizio incompleto della volontà consistente in un'anomalia che, pur non integrando una causa di invalidità, è fonte di responsabilità, alla stessa stregua del dolo incidente di cui all'articolo 1440 c.c., per l'affidamento incolpevole ingenerato nella controparte e per la lesione della libertà di autodeterminazione dell'altra parte. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo sono infondati. Assorbente, negli stessi termini che sono stati rilevati dalla Corte territoriale quale assunto di fondo dell'intera impugnazione, è l'assenza di un comportamento che possa essere configurato quale produttivo di un danno ingiusto, o altrimenti pregiudizievole sulla base di una sorta di responsabilità pre-negoziale. L'assunto di fondo dell'odierna impugnazione è la denuncia della portata dannosa della mancata comunicazione da parte di uno dei coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, della riserva mentale di contrarre quest'ultimo per prova, ossia quale esperimento derivante dalla condizione di incertezza della nubenda circa la possibilità dell'insorgenza di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza cfr. articolo 151 c.c. . Come è pacifico, ed accertato nei vari gradi di merito, è stata dichiarata la nullità del matrimonio dal Tribunale ecclesiastico, essendo la riserva mentale in ordine alla dissolubilità del matrimonio causa di nullità del medesimo secondo il diritto canonico. Non è stata accolta la domanda di riconoscimento della sentenza ecclesiastica, stante la contrarietà all'ordine pubblico derivante dalla necessità di protezione dell'affidamento incolpevole del coniuge ignaro della riserva mentale, la quale è estranea al regime della nullità del matrimonio previsto dall'ordinamento civile. L'assenza di una nullità rilevante per l'ordinamento civile sgombra subito il campo dalla responsabilità del coniuge in mala fede ai sensi dell'articolo 129 bis c.c. come anche alla tipologia dell'errore di cui all'articolo 122 c.c. della denunciata lesione dell'affidamento . Residua la questione della responsabilità risarcitoria per la mancata comunicazione della riserva mentale sulla possibile dissolubilità del matrimonio a causa del ravvisato concreto rischio di emersione di fatti che avrebbero potuto rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, rischio che la nubenda si era rappresentata al punto di contrarre il matrimonio “per prova”. In entrambi i gradi di merito tale responsabilità risarcitoria è stata esclusa sulla base di una motivazione, in particolare da parte della corte territoriale, per quanto concerne il sindacato di legittimità, che il Collegio non può che condividere. Al riguardo, deve rammentarsi quanto affermato, in generale, dalla fondamentale pronuncia numero 500 del 1999 delle Sezioni Unite di questa Corte «ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori caratteristica del fatto illecito delineato dall'articolo 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex articolo 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un danno ingiusto , ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza. Comparazione e valutazione che, è bene precisarlo, non sono rimesse alla discrezionalità del giudice, ma che vanno condotte alla stregua del diritto positivo, al fine di accertare se, e con quale consistenza ed intensità, l'ordinamento assicura tutela all' interesse del danneggiato». La necessità della comparazione, che l'ordinamento giuridico stabilisce, deriva dalla circostanza che nella nozione di ingiustizia di cui all'articolo 2043, la quale indubitabilmente qualifica il danno contra ius , deve tuttavia essere altresì considerato il comportamento del danneggiante, il quale deve essere non iure privo di giustificazione per il diritto ai fini dell'integrazione della fattispecie di responsabilità. La comparazione si risolve nella prevalenza dell'interesse della vittima, reputato rilevante dall'ordinamento giuridico, che è la sfera dove si colloca il danno, laddove tuttavia manchi un interesse normativamente protetto in capo al soggetto che, chi promuove l'azione di responsabilità, identifica come danneggiante. La responsabilità risarcitoria discende dall'ingiustizia del danno, non dalla antigiuridicità della condotta, alla luce dell'atipicità dell'illecito aquiliano quale protezione della situazione soggettiva rilevante per l'ordinamento giuridico, ma l'interesse non riceve la protezione derivante dalla clausola generale del danno ingiusto se ciò che per l'ordinamento deve essere tutelato, in base alla sua valutazione di prevalenza, è l'interesse dell'autore della condotta asseritamente pregiudizievole, in realtà non produttiva di un danno ingiusto, proprio per la prevalenza dell'interesse di chi agisce. Ciò premesso, deve considerarsi che la libertà matrimoniale è un diritto della personalità, sancito anche dall'articolo 12 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Benché il matrimonio sia un atto di autonomia privata, non può esservi attribuito l'effetto impegnativo del vincolo di cui all'articolo 1372 c.c. alla luce del diritto di chiedere la separazione giudiziale al cospetto di un fatto tale da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. Come affermato da Cass. numero 18853 del 2011 «nel vigente diritto di famiglia, contrassegnato dal diritto di ciascun coniuge, a prescindere dalla volontà o da colpe dell'altro, di separarsi e divorziare, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all'articolo 2 Cost., ciascun coniuge può legittimamente far cessare il proprio obbligo di fedeltà proponendo domanda di separazione ovvero, ove ne sussistano i presupposti, direttamente di divorzio. Con il matrimonio, infatti, secondo la concezione normativamente sancita del legislatore, i coniugi non si concedono un irrevocabile, reciproco ed esclusivo ius in corpus - da intendersi come comprensivo della correlativa sfera affettiva - valevole per tutta la vita, al quale possa corrispondere un diritto inviolabile di ognuno nei confronti dell'altro, potendo far cessare ciascuno i doveri relativi in ogni momento con un atto unilaterale di volontà espresso nelle forme di legge”». Si tratta del diritto strettamente personale ed irrinunciabile, riconosciuto ai coniugi dall'ordinamento italiano, di far cessare gli stessi effetti civili, in attuazione di un diritto individuale di libertà riconducibile all'articolo 2 Cost. Con riferimento ad altro profilo, ha affermato Cass. numero 6598 del 2019 che «l'ordinamento non tutela il bene del mantenimento della integrità della vita familiare fino a prevedere che la sua violazione di per sé possa essere fonte di una responsabilità risarcitoria per dolo o colpa in capo a chi con la sua volontà contraria o comunque con il suo comportamento ponga fine o dia causa alla fine di tale legame. L'ammissione di una tale affermazione incondizionata di responsabilità potrebbe andare a confliggere con altri diritti costituzionalmente protetti, quali la libertà di autodeterminarsi ed anche la stessa libertà di porre fine al legame familiare, riconosciuta nel nostro ordinamento fin dal 1970». L'atto di impegno matrimoniale è rimesso alla libera e responsabile scelta del soggetto, quale espressione della piena libertà di autodeterminarsi al fine della celebrazione del matrimonio. Tale libertà non può essere limitata da un obbligo giuridico di comunicare alla propria controparte uno stato soggettivo quale l'incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale, avvertendo il soggetto il rischio concreto della sua dissoluzione ed effettuando la scelta matrimoniale nella consapevolezza di tale rischio, ciò che in altri termini comporta un tentativo o prova di convivenza matrimoniale. Affinché tale libertà non sia compromessa dall'incombenza di una conseguenza quale la responsabilità risarcitoria derivante dall'inottemperanza ad un dovere giuridico, la comunicazione in discorso, in quanto relativa alla sfera personale affettiva, può comportare esclusivamente un dovere morale o sociale. Alla luce della libertà della scelta matrimoniale non emergono, dalla mancata comunicazione dello stato d'animo di incertezza in questione, un interesse della controparte meritevole di tutela da parte dell'ordinamento con il riconoscimento del rimedio risarcitorio e, dunque, un danno ingiusto. La riserva mentale circa la concreta possibilità della dissoluzione del matrimonio è così improduttiva di effetti per l'ordinamento italiano, sia dal lato del coniuge portatore della riserva, che non può avvantaggiarsene fino a conseguire la nullità del matrimonio in conformità del resto alla generale irrilevanza della riserva mentale in materiale negoziale , sia dal lato dell'altro coniuge, che non è titolare di un interesse meritevole di tutela risarcitoria per l'ordinamento, per avere fatto affidamento sulla mancanza di quella riserva. Va in conclusione enunciato il seguente principio di diritto “non rappresenta fatto costitutivo di responsabilità risarcitoria l'omessa comunicazione da parte di uno dei due coniugi, prima della celebrazione del matrimonio, dello stato psichico di concreta incertezza circa la permanenza del vincolo matrimoniale e della scelta di contrarre matrimonio con la riserva mentale di sperimentare la possibilità che il detto vincolo non si dissolva”. L'infondatezza dei motivi scrutinati determina l'assorbimento del primo motivo. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 116,88 e 92 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3, numero 4 e numero 5, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente, a proposito della condanna alle spese del giudizio di appello, che il rigetto della domanda risarcitoria proposta dalla controparte ai sensi dell'articolo 89 c.p.c., collegata a quella di cancellazione delle espressioni offensiva ma distinta rispetto a quest'ultima, avrebbe giustificato, per la reciproca soccombenza, la compensazione delle spese processuali, anche avuto riguardo alla obbiettiva difficoltà, incertezza e novità della controversia, ed alla buona fede dell'attore. Il motivo è inammissibile. La facoltà di disporre la compensazione delle spese processuali tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l'eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione Cass. numero 11329 del 2019 . Con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 112,116 e 96 c.p.c., nonché omesso esame del fatto decisivo e controverso, ai sensi dell'articolo 360, comma 1, numero 3, numero 4 e numero 5, cod. proc. civ Osserva la parte ricorrente, a proposito della condanna per lite temeraria, che non ricorre il presupposto della colpa grave, alla luce dei puntuali motivi di impugnazione della decisione di primo grado, aventi complessivamente alla base la mancata comunicazione di una circostanza grave da parte della donna, come quella di sposarsi per fare una prova, quale deliberato ed ingannevole comportamento peraltro ai fini del valore della causa, la controversia è stata reputata di particolare importanza, al fine di collocarla nello scaglione del valore indeterminabile . Aggiunge che la condanna per responsabilità aggravata, prevista dalla pronuncia di primo grado, è stata erroneamente disposta in base al primo comma dell'articolo 96 c.p.c., in mancanza della specifica istanza della controparte, e che il Tribunale, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, non ha assolto l'onere motivazionale, non essendo sufficiente il mero richiamo alle tabelle del Tribunale di Milano, per cui non si comprende quale sia il parametro adottato ai fini della liquidazione equitativa. Il motivo è inammissibile. Con riferimento alla condanna per responsabilità aggravata disposta in appello va rammentato che l'accertamento dell'esistenza in fatto dei presupposti di cui al terzo comma dell'articolo 96 c.p.c. è riservato al giudice del merito e non è sindacabile, in quanto tale, in sede di legittimità da ultimo Cass. numero 7222 del 2022 . La censura di carenza motivazionale, a fronte di una ratio decidendi pienamente percepibile, è in realtà una confutazione del giudizio di fatto in ordine alla sussistenza dei presupposti della responsabilità aggravata. Quanto alla statuizione in appello sul motivo di gravame avente ad oggetto la responsabilità aggravata riconosciuta dal Tribunale, la censura non è scrutinabile perché il motivo, omettendo di osservare l'onere processuale previsto dall'articolo 366, comma 1, numero 6 c.p.c., non fornisce alcuna indicazione in ordine allo specifico contenuto della sentenza di primo grado, anche trascrivendone i passaggi significativi ai fini della censura proposta. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Ricorre il presupposto della responsabilità aggravata ai sensi dell'articolo 96, comma 3, c.p.c., la cui applicazione è stata invocata dalla controricorrente. Ai fini della condanna ex articolo 96, comma 3, c.p.c., costituisce abuso del diritto all'impugnazione, integrante colpa grave , la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente infondati, giacché ripetitivi di quanto già confutato dal giudice d'appello, ovvero perché assolutamente irrilevanti o generici, o, comunque, non rapportati all'effettivo contenuto della sentenza impugnata in tali casi il ricorso per cassazione integra un ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale, risultando piegato a fini dilatori e destinato, così, ad aumentare il volume del contenzioso e, conseguentemente, ad ostacolare la ragionevole durata dei processi pendenti, donde la necessità di sanzionare tale contegno ai sensi della norma suddetta Cass. numero 19285 del 2016 . Nel caso di specie vengono riproposte tesi giuridiche che già a partire dalla pronuncia di primo grado si erano rivelate come manifestamente infondate, per cui con l'odierno ricorso si è ulteriormente concretizzata la fattispecie di abuso del processo. Va pertanto disposta la condanna al pagamento dell'importo indicato in dispositivo ed equitativamente determinato nei termini della metà del compenso spettante al difensore. Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell'articolo 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, numero 228, che ha aggiunto il comma 1 - quater all'articolo 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, numero 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso, con l'assorbimento del primo motivo. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge, nonché al pagamento della somma di Euro 3.500,00, ai sensi dell'articolo 96, comma 3, c.p.c