«Integra il reato di favoreggiamento della permanenza di stranieri irregolari nel territorio dello Stato, di cui all'articolo 12, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286, la condotta di chi precostituisca, dietro remunerazione, falsa documentazione relativa a fittizi rapporti di lavoro, successivamente registrati nell'apposito sistema informativo pubblico, al fine di consentire a cittadini extracomunitari, privi dei requisiti, di ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, anche in caso di ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in modo formalmente regolare ma finalizzato ad una permanenza illegale».
La I sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha accolto solo parzialmente il ricorso avverso la sentenza di appello con cui gli imputati erano stati condannati, in concorso tra loro, per i delitti di favoreggiamento della permanenza di stranieri irregolari nel territorio dello Stato, di cui all'articolo 12, comma 5, d.lgs. numero 286/1998, e di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, ex articolo 615-ter c.p. Nel caso di specie, i tre imputati sono stati ritenuti responsabili di aver favorito la permanenza sul territorio nazionale di undici soggetti stranieri, privi dei necessari requisiti, fornendo loro, dietro corrispettivo in danaro e quindi a fine di lucro, documentazione falsa per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, la cui pratica veniva dagli stessi curata presso un CAF di loro gestione. Tra i motivi di ricorso, le difese hanno lamentato il vizio di violazione di legge in relazione al delitto ex articolo 12, comma 5, d.lgs. numero 286/1998, con riferimento ad uno dei soggetti assistiti dagli imputati, osservando che questi aveva fatto ingresso nel territorio italiano con un visto turistico, con conseguente esclusione di qualsivoglia condizione di irregolarità. Secondo i ricorrenti, tale circostanza renderebbe regolare la condotta successivamente tenuta dagli stessi in quanto il delitto ex articolo 12, comma 5, cit. presupporrebbe la presenza irregolare dello straniero agevolato sul territorio nazionale. Viene infatti, evidenziato che gli imputati erano intervenuti in relazione al rinnovo di un titolo di soggiorno valido e ancora efficace, sebbene di prossima scadenza, con conseguente esclusione della sussistenza del delitto loro contestato. Sul punto tuttavia, la Corte ha ritenute infondate le doglianze dei ricorrenti, sottolineando che gli stessi avevano inoltrato telematicamente dati non veritieri per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per i propri clienti stranieri. Nello specifico, la predisposizione di documentazione per aprire in favore del proprio cliente una partita IVA, per un'attività tuttavia inesistente, non può che considerarsi una forma di agevolazione illecita non già dell'ingresso ma della permanenza illecita del soggetto in questione sul territorio dello Stato. Viene confermato dalla Corte l'orientamento di legittimità secondo cui il delitto ascritto agli imputati è configurabile anche quando lo straniero, come nel caso di specie, abbia fatto ingresso nel territorio dello Stato in modo formalmente regolare, ma risulti privo dei requisiti per permanervi legalmente. La Corte ha invece, accolto il ricorso del terzo ricorrente, in relazione al quale è stata ritenuta carente la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza del dolo si è infatti osservato che, a fronte di centinaia di pratiche regolari, fosse stata solo congetturale la motivazione in ordine alla consapevolezza, da parte del dipendente incaricato del solo inoltro telematico dei dati, della falsità della documentazione inoltrata per sole undici pratiche irregolari. Tra gli indici valorizzati dalla Corte di legittimità, oltre alla preponderanza delle pratiche regolari gestite dall'imputato, vi è altresì l'assenza di contatti diretti con gli stranieri interessati e la normalità del compenso percepito dal ricorrente per la propria prestazione lavorativa, affatto indicativo di una compartecipazione alle condotte criminose perpetrate dai coimputati.
Presidente Boni Relatore Curami Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano ha parzialmente riformato la condanna, emessa dal Tribunale di Milano in data 27 aprile 2021, nei confronti di D.M.I.A., D.A. e G.C., assolvendo gli imputati dal reato loro ascritto al capo A articolo 416 cod. penumero e rideterminando la pena irrogata per i capi B articolo 110,81 cod. penumero , 12, comma 5 d.lgs. 286 del 1998 e D articolo 110, 81,61 numero 2, 615 ter commi 1 e 3 cod. penumero , in quella di anni uno, mesi nove di reclusione ed € 5.000 di multa ciascuno. 1.1. All'esito del giudizio di secondo grado, gli imputati sono stati ritenuti responsabili, in sintesi, di avere, in concorso tra loro, ed al fine di trarne profitto dalla condizione di illegalità, favorito la permanenza illegale nel territorio dello Stato di più di cinque cittadini stranieri, formando la documentazione necessaria per l'ottenimento e/o il rinnovo dei permessi di soggiorno e curando le relative pratiche capo B , nonché per essersi introdotti abusivamente nel sistema informativo dell'Agenzia delle Entrate, eseguendo numerosi accessi o interrogazioni ai relativi archivi, utilizzando illecitamente le credenziali di G.C. in Cologno Monzese negli anni 2017 e 2018. In particolare, gli imputati, gestori di un piccolo CAF, allo scopo di consentire il rilascio o il rinnovo di permessi di soggiorno a più soggetti extracomunitari precisamente ad undici soggetti , tramite l'attività di assistenza rilasciata dal CAF, hanno fornito falsi indirizzi di residenza, hanno consentito l'apertura di partite IVA per attività inesistenti, hanno predisposto false dichiarazioni dei redditi. D.M.I.A. e D.A. avevano i contatti diretti con i clienti, mentre G.C., unico soggetto in possesso delle credenziali di accesso alle piattaforme dell'Agenzia delle Entrate e delle Camere di Commercio, si occupava delle comunicazioni ai pubblici uffici. 2. Avverso detto provvedimento hanno proposto tempestivi ricorsi, tramite i rispettivi difensori, gli imputati, denunciando i vizi di seguito riassunti nei limiti di cui all'articolo 173 disp. att. cod. proc. penumero 2.1. D.M.I.A. e D.A. denunciano, per il tramite del difensore, avv. Francesco Egidi, tre vizi. 2.1.1. Con il primo motivo, denunciano violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'affermazione di responsabilità degli imputati in relazione al capo B . La Difesa, con specifico riferimento alla posizione dello straniero S.A., osserva come il medesimo avesse fatto ingresso in Italia con visto turistico, dovendosi conseguentemente escludere la sua condizione di irregolarità. La relativa pratica è stata del tutto regolare, come comprovato dalla documentazione prodotta dalla Difesa in giudizio. Si osserva poi come la norma incriminatrice di cui all'articolo 12 comma 5 d.lgs. 286 del 1998 presupponga che, al momento in cui viene posta in essere la condotta agevolatrice, lo straniero si trovi in una condizione di irregolarità sul territorio dello Stato conseguentemente le condotte poste in essere da parte di chi confeziona i documenti attestanti circostanze non rispondenti al vero, al fine di consentire non già l'ingresso, ovvero la regolarizzazione di uno straniero irregolare, bensì il mero rinnovo di un titolo di soggiorno, esistente ed ancora efficace, ancorché in scadenza, non integrano la fattispecie in oggetto. 2.1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'affermazione di responsabilità degli imputati in relazione al capo D . Richiamato quanto affermato dalle Sez. Unumero Casani, con sentenza 4694 del 17/02/2012, deduce la difesa che il contestato reato non sussista, atteso che il titolare delle credenziali per l'accesso alle piattaforme dei pubblici uffici era G.C., il quale aveva espressamente autorizzato gli imputati ad utilizzare le sole credenziali per la consultazione, mentre quelle per l'invio della documentazione erano riservate al medesimo G.C 2.1.2. Con il terzo motivo si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio. Si duole la Difesa che la Corte territoriale non abbia ritenuto le concesse circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle aggravanti e che non abbia concesso agli imputati il beneficio della sospensione condizionale della pena. 3. G.C., per il tramite dell'avv. Avv. Alessandra Roman Tomat, denuncia due vizi. 3.1. Con il primo, articolato, motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza degli elementi costitutivi del reato di favoreggiamento della permanenza illegale sul territorio dello Stato, nonché alla prova dell'elemento soggettivo in capo all'imputato ed alla minima importanza della sua partecipazione, ai sensi dell'articolo 114 cod. penumero Osserva la Difesa come il G.C. si limitasse a recepire quanto il lavoratore aveva dichiarato al CAF, e a ricevere un compenso giusto , parametrato al servizio da lui reso, ovvero la formalizzazione e la trasmissione di dichiarazioni di vario genere, ma non anche il confezionamento di dichiarazioni dal contenuto illecito. Generica e non decisiva è poi l'affermazione contenuta in sentenza secondo cui tutti gli stranieri che si rivolgevano al CAF fossero irregolari, dal momento che il possesso di un permesso scaduto non escludeva che in astratto la posizione potesse essere regolarizzata. I Giudici di merito hanno inoltre omesso di considerare una serie di elementi contrastanti rispetto alla consapevolezza in capo al G.C. di agire in un contesto di illegalità innanzitutto la circostanza che il CAF gestisse una ampia clientela regolare il fatto che la comunicazione con i clienti arabi gli unici per i quali è stato ritenuto integrato il reato fosse gestita esclusivamente dai coimputati la limitatezza numerica delle pratiche risultate irregolari. Per gli stessi motivi ci si duole del mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'articolo 114 cod. penumero , evidenziando l'erroneità argomentativa del Giudice d'appello che, nel respingere la relativa richiesta, affermava, erroneamente, che la Difesa non l'avrebbe argomentata in atto di gravame. 3.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge con riferimento alla ritenuta sussistenza del reato di introduzione abusiva in sistemi informatici di cui al capo D . Il G.C., utilizzando le proprie credenziali, entrava nel sistema informatico dell'Agenzia delle Entrate non già per estrarre dati, violando le regole a tutela dei titolari dei dati stessi, bensì immetteva nel sistema dati su mandato e volontà dei soggetti interessati detta condotta non integra il reato di cui all'articolo 615 ter cod. penumero 3.Il Sostituto Procuratore generale presso questa Corte, Olga Mignolo, ha depositato la sua requisitoria scritta con la quale chiede il rigetto dei ricorsi. 4. La Difesa di G.C. ha depositato una memoria con motivi nuovi, con i quali specifica ed argomenta ulteriormente in ordine alla mancanza dell'elemento soggettivo relativamente al reato di cui al capo B . Considerato in diritto 1. Il ricorso proposto nell'interesse di D.M.I.A. e D.A., che presenta tratti di inammissibilità, è nel complesso infondato. 2. Il primo motivo, con il quale gli imputati contestano l'affermazione di responsabilità in ordine al reato di favoreggiamento alla permanenza nel territorio dello Stato, di cui al capo B , è meramente reiterativo di censure mosse in sede di gravame e devolute alla Corte territoriale che le ha risolte con motivazione scevra da aporie logiche e, pertanto, insindacabile in questa sede i ricorrenti si limitano a contestare genericamente la responsabilità, senza tuttavia analizzare le perspicue motivazioni rese dalla Corte territoriale, ed omettendo quindi di confrontarsi criticamente con i passaggi logici dell'impugnata sentenza, incorrendo in tal modo anche nel vizio di aspecificità. In punto di diritto, del tutto correttamente il primo Giudice, con valutazione condivisa da parte della Corte territoriale, ha qualificato i fatti contestati ai sensi dell'articolo 12 comma 5 d.lgs. 286 del 1998. In proposito, giova richiamare la consolidata giurisprudenza di legittimità, correttamente applicata dalla Corte milanese, secondo cui integra il reato di favoreggiamento della permanenza di stranieri irregolari nel territorio dello Stato, di cui all'articolo 12, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, numero 286, la condotta di chi precostituisca, dietro remunerazione, falsa documentazione relativa a fittizi rapporti di lavoro dipendente, successivamente registrati nell'apposito sistema informativo pubblico, al fine di consentire a cittadini extracomunitari, privi dei requisiti, di ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno Sez. 1 numero 12748 del 27/02/2019, Piedimonte, Rv. 274991 01 in motivazione, viene anche specificato che il profitto conseguito, pari alla somma di denaro consegnata dal cittadino irregolare, è di per sé ingiusto, in quanto costituisce il corrispettivo per la illecita condotta di realizzazione della falsa documentazione idonea a trarre in inganno la pubblica amministrazione per ottenere il rilascio del permesso di soggiorno . Osservava quindi la Corte territoriale pag. 24 come il citato reato fosse certamente integrato, dal momento che «in tutti gli episodi per i quali è stata riconosciuta la penale responsabilità degli imputati, si è dimostrato come gli imputati, in concorso tra loro, avessero predisposto ad inviato telematicamente documentazione contenente dati non veritieri, al fine di ottenere in favore dei clienti del CAF, il rinnovo del permesso di soggiorno». Con specifico riferimento alla posizione dello straniero S.A., l'unico relativamente al quale il ricorso avanza dubbi specifici in ordine all'integrazione del reato de quo, i Giudici di merito hanno, con valutazione condivisa, ritenuto sussistente il reato di cui all'articolo 12, comma 5 d.lgs. 286 del 1998, sul presupposto che, nonostante egli avesse fatto ingresso in Italia regolarmente, utilizzando un visto turistico, cionondimeno la predisposizione da parte degli imputati della documentazione poi utilizzata dal S.A. per aprire effettivamente una partita IVA a suo nome, relativa ad una inesistente attività di ristorazione con sede in Milano via OMISSIS , costituisse attività chiaramente volta a favorire non già l'ingresso, ma la permanenza sul territorio dello stato dello straniero. I Giudici di merito hanno, in proposito, fatto corretta applicazione dei consolidati principi di questa Corte di legittimità, che ha più volte affermato che è configurabile il reato di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, con riferimento all'ingresso dello straniero nel territorio dello Stato in modo formalmente regolare, ma finalizzato ad una permanenza illegale Sez. 1, numero 50895 del 26/11/2013, Martinez Sanchez, Rv. 258349 01 Sez. 1, numero 15531 del 05/02/2020, Gozzoli, Rv. 278979 01 . 3. Il secondo motivo proposto nell'interesse di D.M.I.A. e D.A., con il quale i ricorrenti contestano l'affermazione di responsabilità in ordine al reato sub D , è infondato. La disamina effettuata dal Giudice di primo grado, con argomentazioni condivise dalla Corte territoriale, in ordine alla configurabilità, nel caso di specie, del reato di cui all'articolo 615 ter commi 1 e 3 cod. penumero , appare corretta e conforme ai principi sanciti in materia da questa Corte. L'articolo 615 ter cod. penumero prevede al primo comma una sanzione penale per chiunque abusivamente realizzi due condotte distinte o si introduca nel sistema informatico, che secondo giurisprudenza costante Sez. Unumero numero 4696 del 27 ottobre 2011, dep. 2012, Casani, Rv. 251270 01 è «da intendersi come accesso alla conoscenza dei dati o informazioni contenuti nel sistema», o vi si mantenga contro la volontà di chi ha il diritto dì escluderlo. Tali condotte sono da intendersi abusive non solo quando il cosiddetto hacker o pirata informatico , cioè [ .] quell'agente che, non essendo abilitato ad accedere al sistema protetto, riesca tuttavia ad entrarvi scavalcando la protezione costituita da una chiave di accesso password ma anche quando il «soggetto abilitato all'accesso, e perciò titolare di un codice d'ingresso, [ .] s'introduca legittimamente nel sistema, per finalità però diverse da quelle delimitate specificamente dalla sua funzione e dagli scopi per i quali la password gli è stata assegnata». In tal senso, infatti, fin dalla sentenza Zara Sez. V numero 12732 del 07/11/2000 la Suprema Corte ha ritenuto che «l'analogia con la fattispecie della violazione di domicilio deve indurre a concludere che integri la fattispecie criminosa [prevista dall'articolo 615 ter cod. penumero ] anche chi, autorizzato all'accesso per una determinata finalità, utilizzi il titolo di legittimazione per una finalità diversa e, quindi, non rispetti le condizioni alle quali era subordinato l'accesso. Infatti, se l'accesso richiede un'autorizzazione e questa è destinata a un determinato scopo, l'utilizzazione dell'autorizzazione per uno scopo diverso non può non considerarsi abusiva». Sulla scia di tali principi, è stato ritenuto integrato il delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico da parte di funzionari di agenzia delle Entrate che avevano inserito nel sistema informatico dell'amministrazione, alcuni provvedimenti di sgravio illegittimi perché mai adottati, in relazione a tributi già iscritti a ruolo per la riscossione coattiva, cosi alterando i dati contenuti nel sistema in modo tale da fare apparire insussistente il credito tributario dell'Erario nei confronti di numerosi contribuenti Sez. numero 1727 del 30/09/2008, dep. 2009, Romano, Rv. 242938 01 In senso contrario, questa Corte Sez. 5, numero 2534 del 20/12/2007, PM c/Migliazzo, Rv. 239105 01 Sez. 5, numero 40078 del 25/06/2009, PM c/Genchi, Rv. 244749 01 aveva talvolta considerato sempre e comunque lecito l'accesso del soggetto abilitato, anche se effettuato per finalità diverse. Proprio per sanare questo contrasto giurisprudenziale sono intervenute le Sezioni Unite con la già citata sentenza Casani. In tale pronuncia, questa Corte, nella sua più autorevole composizione, superando la nozione soggettiva di accesso abusivo, per la quale rileverebbero le finalità psicologiche perseguite dall'agente, affermava che «rilevante deve ritenersi, perciò, il profilo oggettivo dell'accesso e del trattenimento nel sistema informatico da parte di un soggetto che sostanzialmente non può ritenersi autorizzato ad accedervi ed a permanervi sia allorquando violi i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema nozione specificata, da parte della dottrina, con riferimento alla violazione delle prescrizioni contenute in disposizioni organizzative interne, in prassi aziendali o in clausole di contratti individuali di lavoro sia allorquando ponga in essere operazioni di natura ontologicamente diversa da quelle di cui egli è incaricato ed in relazione alle quali l'accesso era a lui consentito». Ciò con l'evidente conseguenza che «qualora l'attività autorizzata consista anche nella acquisizione di dati informatici, e l'operatore la esegua nei limiti e nelle forme consentiti dal titolare dello ius excludendi, il delitto in esame non può essere individuato anche se degli stessi dati egli si dovesse poi servire per finalità illecite». In questo senso va inteso il principio di diritto desunto dalla sentenza per cui «integra la fattispecie criminosa di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico protetto, prevista dall'alt. 615-ter cod. penumero , la condotta di accesso o di mantenimento nel sistema posta in essere da soggetto che, pure essendo abilitato, violi le condizioni ed i limiti risultanti dal complesso delle prescrizioni impartite dal titolare del sistema per delimitarne oggettivamente l'accesso. Non hanno rilievo, invece, per la configurazione del reato, gli scopi e le finalità che soggettivamente hanno motivato l'ingresso al sistema». Ebbene, nel caso di specie, i Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi che governano la materia, ritenendo che integri il contestato reato l'inserimento negli archivi informatici dell'Agenzia delle Entrate, attraverso l'utilizzo di credenziali di accesso ai sistemi in possesso del coimputato G.C., di documentazione non corrispondente al vero, necessaria per ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno in favore di numerosi clienti del CAF gestito dagli imputati. 4. Il terzo motivo avanzato nell'interesse di D.M.I.A. e D.A., attinente il trattamento sanzionatorio, è manifestamente infondato. 4.1. La Corte territoriale, nell'accogliere lo specifico motivo di gravame avanzato in sede di appello dagli odierni ricorrenti, ha concesso loro le circostanze attenuanti generiche, evidenziando, quali elementi positivi di valutazione, l'incensuratezza di D.M.I.A., la buona condotta serbata dagli imputati dopo la commissione dei fatti e la necessità di adeguamento della pena alla fattispecie concreta ha quindi valutato le circostanze innominate equivalenti rispetto alle contestate aggravanti. Ebbene, va ricordato che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto Sez. U, numero 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931 . Questa Corte ha, inoltre, avuto modo di chiarire che il giudizio di comparazione risulta sufficientemente motivato, quando il giudice, nell'esercizio del potere discrezionale previsto dall'articolo 69 cod. penumero scelga la soluzione dell'equivalenza, anziché della prevalenza delle attenuanti, ritenendola quella più idonea a realizzare l'adeguatezza' della pena irrogata in concreto Sez. 2, numero 31531 del 16/05/2017, Pistilli, Rv. 270481 . Alla luce dei predetti principi, nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata, va ritenuta congrua ed adeguata, avendo la Corte di merito dimostrato di aver vagliato la tematica del trattamento sanzionatorio, concedendo agli imputati le circostanze attenuanti generiche e dando atto dell'avvenuta comparazione tra le plurime circostanze aggravanti dell'aver agito con riferimento alla permanenza di cinque o più persone ed in concorso di due o più persone e le attenuanti innominate. 4.2. Infine, inammissibile è il motivo con il quale la Difesa si duole della mancata concessione della sospensione condizionale della pena. Ed invero, si osserva che, in tema di sospensione condizionale della pena il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l'obbligo di prendere in esame tutti gli elementi richiamati nell'articolo 133 cod. penumero , potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti in senso ostativo alla sospensione Sez. 5, numero 17953 del 07/02/2020 Rv. 279206 Sez. 4, numero 48013 del 12/07/2018 Rv. 27399501 nel caso che ci occupa, la Corte territoriale ha ritenuto, in considerazione della protrazione delle illecite attività per un considerevole lasso di tempo, ed in favore di numerosi soggetti, di non poter formulare una prognosi favorevole in relazione alla futura astensione dal commettere reati da parte degli imputati, impegnati a lavorare nel medesimo settore in cui sono maturate le condotte criminose per le quali è intervenuta condanna. La valutazione operata dai Giudici dell'appello, essendo priva di aspetti di contraddittorietà o illogicità, è incensurabile ad opera della Corte di cassazione. 4. Venendo alla disamina della posizione di G.C., è fondato il primo assorbente motivo, con il quale si denuncia vizio argomentativo in ordine alla ritenuta piena consapevolezza in capo al ricorrente dell'illiceità delle condotte poste in essere. Circostanza pacifica ed incontestata è che, all'interno del CAF gestito dagli imputati, il titolare delle credenziali di accesso ai sistemi informatici protetti fosse il solo G.C., e che l'inserimento in detti sistemi dei dati ideologicamente falsi relativi agli stranieri fossero materialmente inseriti dal medesimo. Ebbene, ritiene questo Collegio che colga nel segno la censura mossa dal ricorrente, avverso la sentenza della Corte territoriale che non pare avere dato adeguata risposta alle doglianze avanzate sin dal primo grado, con le quali il G.C. contestava la sussistenza in capo al medesimo dell'elemento soggettivo dei reati contestati. La sentenza della Corte territoriale si appalesa manifestamente illogica, laddove da un lato, con motivazione ineccepibile, ha escluso la ricorrenza dell'ipotesi associativa, assolvendo tutti gli imputati dal reato di cui all'articolo 416 cod. penumero di cui al capo A , e dall'altro, con argomenti congetturali e non probatoriamente ancorati ad alcun dato certo, ha ritenuto raggiunta la prova della piena consapevolezza in capo al G.C. delle condotte illecite perpetrare dai coimputati D Più in particolare, a fondamento della pronuncia liberatoria per il reato di cui all'articolo 416 cod. penumero , scrive la Corte milanese pag. 23 che «la struttura organizzativa all'interno della quale operavano gli appellanti svolgeva anche attività lecita, tanto è vero che delle 278 posizioni esaminate soltanto 11 sono risultate irregolari i ruoli evidenziati dal primo giudice sono gli stessi che gli imputati ricoprivano anche per lo svolgimento della predetta attività lecita non sono emersi indici rivelatori di una predisposizione criminale quali, ad esempio, la costituzione di una rete di contatti agevolatori dei permessi verosimilmente i D. gestivano le pratiche dei loro clienti separatamente da quelle del G.C., tanto è vero che tutta la documentazione incriminata è stata ritrovata nella loro nuova sede». Ed ancora sottolinea la Corte come non vi fosse prova effettiva non solo di «una comune affectio societatis», ma anche «della suddivisione dei proventi illeciti tra i correi». La tesi difensiva sostenuta dal G.C. già in sede di gravame ha quindi trovato conferma, secondo la valutazione della medesima Corte territoriale, per la quale le attività svolte dal medesimo erano distinte da quelle dei D., che avevano clientele diverse il dato numerico delle pratiche illecite contestate era irrisorio rispetto al dato complessivo di tutte quelle trattate dal CAF l'accordo economico intercorso tra G.C. ed i D. non evidenziava criticità tali da far sorgere il dubbio che nel compenso al G.C. fosse compresa anche la quota di rischio connessa alla perpetrazione di attività illecita. Ed ancora, la stessa Corte territoriale ha ritenuto comprovato un altro tra gli elementi a discolpa che l'appellante G.C. aveva sottoposto alla sua attenzione, ovvero i rapporti non sereni che caratterizzavano la relazione tra G.C. da un lato ed i D. dall'altro tanto che, come evidenziato dai Giudici di merito, già nella fase terminale delle indagini, il G.C. aveva smesso di collaborare con i D., avendo D.A., nell'ottobre novembre 2018, acquisito proprie credenziali di accesso alle piattaforme dell'Agenzia delle Entrate e delle Camere di Commercio. La Corte territoriale ha ritenuto purtuttavia provata la responsabilità concorsuale del G.C. fondandola essenzialmente su due dati. Il primo elemento sottolineato dai Giudici di appello è costituito dalla circostanza che G.C. non poteva non accorgersi dell'anomalia rappresentata dalla ricorrenza, nelle pratiche trasmesse grazie alle proprie credenziali, di ditte aperte con lo stesso oggetto sociale in indirizzi che si ripetevano nel tempo «e per soggetti con i quali lo stesso non risultava aver mai avuto contatti» pag. 26 . Tale conclusione appare tuttavia da un lato congetturale, dall'altro manifestamente illogica ed infatti, il numero esiguo di pratiche illecite solo 11 su un totale complessivo, comprensivo di quelle trattate direttamente del G.C., ammontante a 278 , rende del tutto ipotetica la circostanza che un soggetto avrebbe dovuto avvedersi della ricorrenza di oggetto sociale dato peraltro notoriamente ricorrente , e di indirizzi. Illogico appare inoltre il ragionamento della Corte laddove individua un elemento a carico dell'imputato nella circostanza che egli non avesse rapporti con i clienti delle pratiche illecite. Il secondo dato sul quale la Corte fonda la prova della responsabilità del G.C. è rappresentato dall'avere l'imputato riconosciuto «di aver avuto delle discussioni con i coimputati sulla regolarità di alcune pratiche, senza che ciò gli abbia impedito di continuare la sua illecita attività nonostante i dubbi generati, in particolare dall'indicazione delle residenze fittizie che, in effetti risultavano sempre le stesse» la Corte milanese, tuttavia, per avvalorare la conclusione raggiunta, fornisce una sintesi solo parziale delle dichiarazioni del G.C., il quale come riportato dal primo Giudice a pag. 18 aveva anche aggiunto di non avere mai proceduto all'invio di dati sulle piattaforme informatiche, qualora non si fosse convinto della correttezza degli stessi. 5. Alla luce delle considerazioni che precedono, la sentenza impugnata deve essere annullata nei confronti di G.C., con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, che, libera nell'esito, dovrà colmare le indicate lacune motivazionali. Il ricorso va respinto nel resto, con conseguente condanna di D.M.I.A. e D.A. al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di G.C. con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano. Rigetta i ricorsi di D.M.I.A. e D.A. che condanna al pagamento delle spese processuali.