Suicidio assistito: la Corte Costituzionale nell’inerzia del legislatore, va avanti

Sono state dichiarate dalla Consulta non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p., sollevate, in riferimento agli articolo 2, 3, 13, 32 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articolo 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze.

La Corte Costituzionale con sentenza numero 135 depositata il 18 luglio 2024, ha dunque dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal GIP di Firenze sull'articolo 580 c.p., che miravano a estendere l'area della non punibilità del suicidio assistito oltre i confini stabiliti dalla Corte con la precedente sentenza del 2019. Secondo la Consulta nella perdurante assenza di una legge che regoli la materia, i requisiti per l'accesso al suicidio assistito restano quelli stabiliti dalla sentenza numero 242 del 2019, compresa la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, il cui significato deve però essere correttamente interpretato in conformità alla ratio sottostante a quella sentenza. Tutti questi requisiti - a irreversibilità della patologia, b presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, c dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale, d capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli - devono essere accertati dal servizio sanitario nazionale, con le modalità procedurali stabilite in quella sentenza. La tenuta dell'articolo 580 c.p. è posta in discussione dal GIP del Tribunale di Firenze con riferimento al suo perimetro applicativo. I fatti traggono origine, da un'ordinanza del GIP del Tribunale di Firenze che dubitava della legittimità costituzionale dell'articolo 580 c.p., «come modificato dalla sentenza numero 242 del 2019» della Corte costituzionale, nella parte in cui subordina la non punibilità di chi agevola l'altrui suicidio alla condizione che l'aiuto sia prestato a una persona «tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale». Ad avviso del giudice a quo, il requisito censurato violerebbe anzitutto l'articolo 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento fra situazioni sostanzialmente identiche. In presenza delle altre condizioni per la non punibilità dell'aiuto al suicidio l'essere questo prestato a persona affetta da malattia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, la quale resti però capace di prendere decisioni libere e consapevoli , l'avverarsi, o no, della condizione in questione sarebbe, infatti, frutto di circostanze del tutto accidentali, quali le caratteristiche e il modo di manifestazione della patologia, la situazione clinica generale dell'interessato, la natura delle terapie disponibili e le stesse scelte del paziente, il quale potrebbe aver rifiutato sin dall'inizio ogni trattamento. Ciò, senza che tale sperequazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, posto che la presenza del requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale, oltre a non essere indicativa di un minor bisogno di tutela del bene della vita, non apporterebbe neppure alcuna rassicurazione in ordine al carattere libero e consapevole della decisione di congedarsi dalla vita stessa o alla minore “vulnerabilità” della persona che la assume. Sarebbero violati anche gli articolo 2,13 e 32, secondo comma, Cost., in quanto il requisito in parola provocherebbe una compressione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, non giustificata da contro-interessi di analogo rilievo. L'esercizio di tale libertà rischierebbe, anzi, di essere condizionato in modo perverso, giacché il paziente potrebbe essere indotto ad accettare trattamenti di sostegno vitale, che altrimenti avrebbe rifiutato, al solo fine di poter accedere alla procedura per il suicidio assistito. Verrebbe leso, inoltre, il «principio di dignità umana», in quanto il malato, irreversibile e intollerabilmente sofferente, si vedrebbe costretto a subire, per congedarsi dalla vita, un processo più lento e meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire, ossia ad attendere, anche per lungo tempo, l'inevitabile aggravamento della malattia sino allo stadio che rende necessaria l'attivazione di trattamenti di sostegno vitale, con il carico di sofferenze aggiuntive che ne consegue, sia per il malato stesso, sia per le persone a lui care. Ciò rischierebbe di produrre risultati antitetici rispetto allo stesso obiettivo di tutela della vita, inducendo i malati che non intendono affrontare un simile percorso a darsi la morte in completa autonomia, fuori dai controlli e dalle garanzie offerte dal circuito legale, con modalità spesso cruente e non conformi al concetto di dignità generalmente riconosciuto. Subordinare la liceità dell'aiuto al suicidio di una persona capace di autodeterminarsi al requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale comporterebbe, da ultimo, la violazione dell'articolo 117 Cost., in relazione agli articolo 8 e 14 CEDU, implicando una interferenza nel diritto al rispetto della vita privata e familiare non funzionale, né tantomeno necessaria, alla tutela del diritto alla vita, o, comunque sia, non proporzionata rispetto all'obiettivo, e contraria, al tempo stesso, al principio di non discriminazione, stante il rilevato carattere del tutto accidentale dell'elemento in questione. Il tema bioetico del fine vita apre ancora alla questione del rapporto tra l'uomo e la morte, ovvero al modo di vivere la morte. Un tema delicato che crea una forte tensione, se non addirittura vere e proprie contrapposizioni. Il fine vita diventa per questa via un tema valoriale, altamente politico, destinato ad essere squassato da fortissime tensioni. Bartoli . E per la seconda volta, dopo il caso di Dj Fabo, a fronte di un Parlamento silente, che non ha provveduto ancora a regolamentare la materia, nonostante i ripetuti solleciti è la Consulta che ancora una volta chiamata a esprimersi sul suicidio medicalmente assistito , pur confermando il requisito del trattamento di sostegno vitale, ne ha dato una interpretazione estensiva, allargando, di fatto la forbice della discrezionalità nella valutazione e quindi per questa via i casi di eutanasia. Con l'odierna pronuncia la Corte costituzionale va avanti nel percorso intrapreso nel 2018 e apre la porta all'ampliamento dei margini dell'autodeterminazione individuale, spostandone i confini, in presenza di ben circoscritte condizioni. Ora, nel caso sottoposto all'attenzione della Corte Costituzionale, nessuna delle questioni è, risultata fondata. Ma quella della Corte Costituzionale è una sentenza “interpretativa di rigetto”, nel senso che ha rigettato le questioni di legittimità sollevate dal Gip di Firenze, e però offrendo una nuova interpretazione, precisazione sui «trattamenti vitali di sostegno» che rendono possibile il suicidio assistito insieme ad altre tre condizioni, fissate cinque anni fa dai giudici costituzionali in attesa di una legge che ancora non c'è.  Infatti, per poter accedere legalmente all'aiuto medico alla morte volontaria, la persona deve essere affetta da una patologia irreversibile, capace di autodeterminarsi, reputare intollerabili le sofferenze fisiche o psicologiche che la malattia determina, e infine, essere dipendente da trattamenti di sostegno vitale. Ed è proprio quest'ultima condizione ad avere determinato una discriminazione, tra chi a fine vita e con sofferenze intollerabile è attaccato a una macchina e chi, pur versando nelle medesime condizioni, non necessita di supporti meccanici. Ciò che accade ad esempio per molti malati terminali di tumore o di sclerosi multipla, come nel caso in esame. Nell'affrontare la questione, il Collegio ha, anzitutto, escluso che il requisito della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale determini irragionevoli disparità di trattamento tra i pazienti. La sentenza numero 242 del 2019 non aveva riconosciuto un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile, ma aveva soltanto «ritenuto irragionevole precludere l'accesso al suicidio assistito di pazienti che – versando in quelle condizioni, e mantenendo intatte le proprie capacità decisionali – già abbiano il diritto, loro riconosciuto dalla legge numero 219 del 2017 in conformità all'articolo 32, secondo comma, Cost., di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurarne la sopravvivenza. Una simile ratio, all'evidenza, non si estende a pazienti che non dipendano da trattamenti di sostegno vitale, i quali non hanno o non hanno ancora la possibilità di lasciarsi morire semplicemente rifiutando le cure. Le due situazioni sono, dunque, differenti». Sicché non c'è dubbio, che i principi affermati nella sentenza numero 242 del 2019 valgano per entrambe le ipotesi. Sarebbe, del resto, paradossale che il paziente debba accettare di sottoporsi a trattamenti di sostegno vitale solo per interromperli quanto prima, essendo la sua volontà quella di accedere al suicidio assistito. Con specifico riferimento, all'autodeterminazione terapeutica, la Corte ha ribadito, che ogni paziente ha un diritto costituzionale di rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza. Il diritto, nella sostanza invocato dal GIP di Firenze, a una generale sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo è però più ampio del diritto a rifiutare il trattamento medico, e va necessariamente bilanciato con il contrapposto dovere di tutela della vita umana, specie delle persone più deboli e vulnerabili. Ciò al fine di evitare non soltanto ogni possibile abuso, ma anche la creazione di una «pressione sociale indiretta» che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi. Il compito di individuare il punto di equilibrio più appropriato tra il diritto all'autodeterminazione e il dovere di tutela della vita umana spetta primariamente al legislatore, nell'ambito della cornice precisata dalla Corte nella propria giurisprudenza. Alla luce di tali precisazioni, la Consulta ha dunque, evidenziato come la stessa Corte costituzionale non è affatto insensibile alla nozione “soggettiva” di dignità, come dimostrano i passaggi dell'ordinanza numero 207 del 2018 in cui proprio alla valutazione soggettiva del paziente sulla “dignità” del proprio vivere e del proprio morire si fa inequivoco riferimento. E tuttavia, la Corte, nell'occasione, ha rilevato, che la nozione di dignità finisce in effetti per coincidere con quella di autodeterminazione della persona, la quale a sua volta evoca l'idea secondo cui ciascun individuo debba poter compiere da sé le scelte fondamentali che concernono la propria esistenza, incluse quelle che concernono la propria morte. Rispetto a tale nozione, per la Corte non possono non valere le considerazioni già svolte, circa la sua necessaria sottoposizione a un bilanciamento a fronte del contrapposto dovere di tutela della vita umana bilanciamento nell'operare il quale il legislatore deve poter disporre, di un significativo margine di apprezzamento. La Consulta, ha negato inoltre la violazione del diritto alla vita privata riconosciuto dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Nella sentenza Karsai contro Ungheria del 13 giugno scorso, in effetti, la stessa Corte di Strasburgo ha escluso che l'incriminazione dell'assistenza al suicidio violi il diritto alla vita privata di una persona affetta da una patologia degenerativa del sistema nervoso in stato avanzato, riconoscendo un ampio margine di apprezzamento a ciascuno Stato nel bilanciamento tra tale diritto e la tutela della vita umana. Ponendosi in continuità con la propria giurisprudenza, la Corte, ha ricordato che la nozione di «trattamenti di sostegno vitale» deve essere interpretata , dal Servizio sanitario nazionale e dai giudici comuni, in conformità alla ratio di quelle decisioni. Il trattamento di sostegno vitale non deve osserva la Corte costituzionale, essere necessariamente inteso come dipendenza da una macchina ma anche da altre persone per totale assenza di requisiti. E quindi nella misura in cui tali procedure – quali, ad es. l'evacuazione manuale dell'intestino del paziente, l'inserimento di cateteri urinari o l'aspirazione del muco dalle vie bronchiali – si rivelino in concreto necessarie ad assicurare l'espletamento di funzioni vitali del paziente, al punto che la loro omissione o interruzione determinerebbe prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo, esse dovranno certamente essere considerate quali trattamenti di sostegno vitale, ai fini dell'applicazione dei principi statuiti dalla sentenza numero 242 del 2019. Tutte queste procedure – proprio come l'idratazione, l'alimentazione o la ventilazione artificiali, nelle loro varie modalità di esecuzione – possono essere legittimamente rifiutate dal paziente, il quale ha già, per tal via, il diritto di esporsi a un rischio prossimo di morte, in conseguenza di questo rifiuto. Il percorso argomentativo seguito dalla Corte sembra dunque profilare una  più rapida, meno sofferta, modalità di esecuzione, in ben precise circostanze, del diritto costituzionale di lasciarsi morire interrompendo trattamenti vitali. La Corte ha poi riaffermato la necessità del puntuale rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza numero 242 del 2019. È dunque necessario, secondo la Corte che per tutti i fatti successivi al 2019, le condizioni e le modalità di esecuzione dell'aiuto al suicidio siano verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale nell'ambito della «procedura medicalizzata» di cui alla legge numero 219 del  2017, entro la quale deve essere necessariamente assicurato al paziente l'accesso alle terapie palliative, previo parere del comitato etico territorialmente competente, senza che possa venire in rilievo l'ipotetica equivalenza di procedure alternative in concreto seguite. Tale procedura prevede infatti, il necessario coinvolgimento del Servizio sanitario nazionale, al quale è affidato il delicato compito di accertare la sussistenza delle condizioni sostanziali di liceità dell'accesso alla procedura di suicidio assistito, oltre che di «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze». Resta naturalmente impregiudicata la necessità di un attento accertamento, da parte del giudice penale, di tutti i requisiti del reato, compreso l'elemento soggettivo. La Corte ha inoltre precisato che, ai fini dell'accesso al suicidio assistito, non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l'interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali. Dal momento che anche in questa situazione il paziente può legittimamente rifiutare il trattamento, egli si trova già nelle condizioni indicate dalla sentenza numero 242 del 2019. Quali conclusioni per la Corte costituzionale? Secondo la Corte deve essere confermato lo stringente appello, già contenuto nella sentenza numero 242 del 2019, affinché, sull'intero territorio nazionale, sia garantito a tutti i pazienti, inclusi quelli che si trovano nelle condizioni per essere ammessi alla procedura di suicidio assistito, una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza, secondo quanto previsto dalla legge numero 38 del 2010. Una nuova opportunità persa per il legislatore, risollecitato – ma in parte pure aiutato – dalla Corte costituzionale ad assumersi la responsabilità di restituire adeguata tutela alla dignità umana nella più drammatica e delicata fase della vita, quella terminale. L' auspicio, è  quello che il legislatore sappia stavolta assumersi le proprie responsabilità e, vincendo la tentazione di tergiversare ulteriormente accontentandosi della decisione dei giudici costituzionali, superi la ritrosia sin qui mostrata nell'affrontare una questione tanto fondamentale quanto percepita, a livello politico, come elettoralmente non redditizia. Cupelli .