Ancora sull’incostituzionalità del c.d. contratto a tutele crescenti

Non si arresta la “ricostruzione” del d.lgs. numero 23/2015 messa in atto dalla Corte Costituzionale che, con due recenti sentenze pubblicate lo scorso 16 luglio, ritorna su questioni delicate e complesse poste dalla controversa disciplina dei licenziamenti, già oggetto di un grande dibattito dottrinario e giurisprudenziale.

Con la sentenza numero 128 del 16 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 2, d.lgs. numero 23/2015 nella parte in cui non prevede che si applichi la reintegrazione anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore Anzitutto può osservarsi che il ragionamento condotto dalla Corte valorizza la distinzione logica fra «ingiustificatezza» del licenziamento e insussistenza del fatto posto a base dello stesso che, prima della diversificazione dei regimi di tutela verificatasi a partire dal 2012, non aveva ragione di porsi, data l'identica conseguenza reintegratoria un ragionamento simile è contenuto nella sentenza numero 129/2024, v. infra . Se il fatto su cui si basa il licenziamento è radicalmente insussistente, ad avviso della Corte, una causa manca del tutto e, pertanto, viene violata la regola fondamentale della causalità del recesso. Ciò premesso, la Corte giunge ad affermare che la radicale esclusione della reintegrazione nel caso di insussistenza del fatto, di cui all'articolo 3, comma 2, d.lgs. 23/2015, viola gli articolo 3,4 e 35 Cost. Infatti, essendo insussistente il fatto, il licenziamento regredisce comunque a recesso privo di causa, indipendentemente che il datore lo qualifichi come fondato su motivo oggettivo o soggettivo la discrezionalità del legislatore sulle conseguenze dei vizi dell'atto di recesso non può estendersi fino a consentire che da tale scelta dipenda la possibilità o meno di ottenere la tutela reintegratoria. La conseguenza, in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve essere la stessa prevista per il caso di insussistenza del fatto materiale contestato nel licenziamento disciplinare la tutela reintegratoria attenuata. La Corte rafforza l'affermazione argomentando che un licenziamento basato su un fatto insussistente, per motivo oggettivo o soggettivo che sia, è pretestuoso e pertanto si colloca al confine con il licenziamento discriminatorio, il quale però richiede un quid pluris di prova in mancanza della quale è irragionevole che la tutela degradi al livello indennitario solo perché il datore ha qualificato il licenziamento come economico. In verità, la nozione di «fatto» che legittima il recesso per motivo oggettivo risulta ristretta dall'intervento della Consulta. Ciò emerge al punto 13 della sentenza, laddove si afferma che la pacifica esclusione del sindacato di merito «presuppone che il “fatto materiale” allegato dal datore di lavoro sia “sussistente” ad esempio, che il posto di lavoro sia stato effettivamente soppresso , mentre appartiene alle “valutazioni tecniche, organizzative e produttive” la ragione economica per cui il posto è stato eliminato». Ci si può chiedere se, secondo la Corte, ciò comporti che la verifica della sussistenza del giustificato motivo oggettivo non debba più includere quella dell'effettività delle ragioni delle scelte organizzative ad es., la sussistenza di una contrazione dell'attività, etc. , per limitarsi alla verifica dell'effettiva soppressione del posto. È invece certo che, secondo la Corte, la violazione dell'obbligo di repêchage, pur attenendo alla giustificatezza del licenziamento, non debba essere inclusa, almeno nell'ambito di applicazione del d.lgs. numero 23/2015, nella nozione di «fatto posto a base del licenziamento». Cercando probabilmente una simmetria con l'esclusione, in materia di licenziamenti disciplinari, delle valutazioni sulla proporzionalità del licenziamento su cui v. la sent. numero 129/2024 , la Corte afferma che in caso di violazione dell'obbligo di repêchage il «fatto materiale» posto a base del licenziamento è pur sempre sussistente, benché il licenziamento sia ingiustificato in quanto è violato il principio dell'extrema ratio pertanto, tale ipotesi è da ricondurre alla tutela indennitaria di cui all'articolo 3, comma 1. Questa esclusione – e la sottostante ricerca di una difficile uniformità della disciplina – si riflette nel dispositivo, secondo cui l'articolo 3, comma 2, del d.lgs. numero 23/2015 è incostituzionale «nella parte in cui non prevede che si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore». La sentenza numero 129 del 16 luglio 2024 della Corte Costituzionale, pur non giungendo ad una declaratoria di incostituzionalità, si segnala per la sua interpretazione adeguatrice che riguarda il tema del licenziamento disciplinare articolo 3, comma 2, d.lgs. numero 23/2015 . Il cuore della pronuncia sta nel confronto fra la disposizione censurata e l'articolo 39 Cost., benché la questione di costituzionalità con riferimento a tale parametro risulti secondaria nell'economia dell'ordinanza di rimessione. Per quanto riguarda il denunciato contrasto con l'articolo 39 Cost., la Corte adotta una pronuncia interpretativa di rigetto. Il punto delicato attiene al licenziamento disciplinare fondato su un fatto per il quale la contrattazione collettiva prevede una sanzione solo conservativa in un simile caso deve restare «estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento» e quindi è applicabile esclusivamente la tutela indennitaria? La Corte per rispondere al delicato interrogativo e superare l'ostacolo perviene alla già evocata interpretazione adeguatrice facendo leva sulla circostanza che l'articolo 3, comma 2, d.lgs. numero 23/2015 non contiene riferimenti testuali alle «previsioni dei contratti collettivi» e quindi non esclude espressamente la rilevanza delle tipizzazioni contrattuali di condotte punibili con sanzione conservativa. La Corte inoltre richiama l'articolo 30, comma 4, l. numero 183/2010, secondo cui il giudice, nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e giustificato motivo previste dalla contrattazione, le quali possono ricorrere anche in negativo, nel senso di stabilire, per specifiche ipotesi, ciò che non può costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. Sulla base di queste premesse l'articolo 3, comma 2, d.lgs. 23/2015, deve essere interpretato nel senso che l'esclusione della rilevanza della sproporzione della sanzione non concerne le ipotesi della contrattazione collettiva secondo cui «specifiche e nominate inadempienze» sono punibili solo con sanzioni conservative. In tali casi sussiste una radicale inidoneità del fatto, manifestata dalla pattuizione contrattuale, a giustificare il licenziamento, così che manca un «fatto materiale» posto a fondamento dello stesso. Pur con una interpretazione adeguatrice, la Corte pone dunque una serie di limiti e di garanzie che sono orientate, nella specie, a tenere ben saldo il principio di proporzionalità in una interessante combinazione con le funzioni che in tema è chiamata a svolgere l'autonomia collettiva. La luce chiara del diritto illumina il percorso ricostruttivo della disciplina dei licenziamenti.